La sera fiesolana di D’Annunzio: perfetta fusione tra uomo e natura

La sera fiesolana di D’Annunzio perfetta fusione tra uomo e natura

Nella poesia “La sera fiesolana” Gabriele d’Annunzio inneggia alla sensualità della natura che si tramuta in donna, mentre il poeta si inebria di suoni e profumi al calare della notte.

“La sera fiesolana” di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938) fu scritta e pubblicata sulla rivista “Nuova Antologia” nel 1899. Essa apre la raccolta “Alcyone” (1903) ed è ritenuta uno dei vertici della vasta produzione poetica di D’Annunzio.

Questa poesia è incentrata sul rapporto di reciproca e costante fusione tra uomo e natura, tema caro a D’Annunzio che con questa lirica tocca la sua massima espressione artistica e mostra una piena maturità umana e creativa, maturità che ha raggiunto negli anni a cavallo fra i due secoli. In questa fase si allontana dai temi politici e patriottici e si rifugia in una poesia più intima.

La sera fiesolana è composta da tre strofe di quattordici versi di varia lunghezza. Al termine di ogni strofa il poeta ha introdotto una laudazione di tre versi.
Ogni strofa include tre, o due, o quattro endecasillabi iniziali e un quinario finale, che rima con il primo verso successivo. L’ottavo verso, all’inizio della seconda parte della strofa, è sempre endecasillabo.
Il terzetto a fine strofa, concepito in forma di antifona, richiama il “Cantico delle creature di san Francesco” ed è formato da un endecasillabo, dal trisillabo “o Sera” associato a un dodecasillabo, e da un quinario.

Questa poesia dannunziana è un esempio di musicalità che discende da un uso accorto delle rime e delle allitterazioni, ed è esaltata dall’impiego di numerose figure retoriche. Ad esempio: la sinestesia con cui inizia la lirica (“Fresche le mie parole”) che affianca la sensazione uditiva delle parole a quella tattile della freschezza; le similitudini (“come labbra”, “come il fruscio”, ecc.); le metafore (“rosei diti”, “vesti aulenti”, ecc.); l’apostrofe (“O sera“); l’anastrofe (“che fan di santità pallidi i clivi”); il polisindeto (su i gelsi e su gli olmi e su le viti / e su i pini … / e su il grano … / e su ‘l fieno … / e su gli olivi).

Quando compose La sera fiesolana, D’Annunzio viveva insieme alla compagna, Eleonora Duse (1858 – 1924), nella Villa della Capponcina a Settignano, vicino Firenze, dove si era trasferito nel 1898 e dove rimase fino al 1910.

In questo luogo, dove è facile immergersi nella natura e lasciarsi coinvolgere dalle intense sensazioni che essa provoca, il poeta descrive una serata di giugno nella campagna fiesolana, appunto, dopo la pioggia, nel momento in cui si avvicina il crepuscolo.
In questa oasi di pace, i sensi liberi viaggiano fra suoni e profumi, mentre l’oscurità della notte avanza. Udito, tatto e olfatto si acuiscono a mano a mano che la vista si affievolisce a causa del buio e si possono così percepire melodie, odori e tutto quello che in condizioni normali non si potrebbe avvertire.

Le immagini che ci presenta D’Annunzio ne La sera fiesolana sono fortemente evocative, di una bellezza impalpabile. La sensazione generale, leggendo questa poesia, è trovarsi in un sogno dalle sfumature mistiche. Il misticismo è in legato in particolare ai tre versi di laude posti a conclusione di ogni strofa.

Il tratto saliente di questa lirica resta comunque la sensualità, tipica di D’Annunzio che nei versi finge di colloquiare con una donna, la Sera dal “viso di perla”, dalle “vesti aulenti” e dai “grandi umidi occhi” o quando intravede nel profilo delle colline fiorentine, illuminate dalla luna, delle labbra, pronte a pronunciare delle parole, ma che per un misterioso motivo sono impedite a emettere voce.

Ne La sera fiesolana l’uomo e un tutt’uno con la natura; paesaggio e stato d’animo si riflettono l’uno nell’altro, in un crescendo di emozioni e sensazioni, scandite dal fruscio delle foglie, dal sorgere della luna e dall’apparizione delle stelle, e così via.
Attraverso questa commistione, D’Annunzio dà voce al pensiero decadente che secondo il poeta non è altro che quel processo che conduce la natura ad antropomorfizzarsi e l’uomo a naturalizzarsi.

La sera fiesolana di D’Annunzio

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.


Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.


Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!

Ann Radcliffe: la scrittura gotica al femminile

Ann Radcliffe: la scrittura gotica al femminile

Ann Radcliffe con i suoi romanzi ha aperto la strada alla letteratura dell’orrore, è stata un’antesignana del romanzo gotico e ha creato nuovi ruoli per le donne nella letteratura.

Ann Ward, nota come Ann Radcliffe (Holborn, 9 luglio 1764 – Holborn, 7 febbraio 1823), è stata una popolare scrittrice inglese, una vera pioniera della letteratura dell’orrore e soprattutto del romanzo gotico.
Anche quando raggiunse un notevole successo, la Radcliffe continuò a condurre una vita appartata: non frequentava né gli ambienti alla moda né le feste, e per questo, le notizie che la riguardano sono davvero scarse. C’era una tale penuria di fatti anche ai suoi tempi che, nel 1823, quando morì, “The Edinburgh Review” scrisse: “Non appariva mai in pubblico, né si mescolava nella società, ma si teneva defilata, come il soave usignolo che canta le sue note solitarie, celato e non visto”.

Ann Radcliffe nacque a Holborn (Londra); era l’unica figlia del merciaio William Ward e di Ann Oates, appassionata lettrice, iniziò la carriera come scrittrice scrivendo racconti per divertimento.
Nel 1789, pubblicò in forma anonima il romanzo “The Castles of Athlin and Dunbayne” (I castelli di Athlin e Dunbayne). Già in questa prima opera si respira l’atmosfera tipica dei suoi romanzi successivi e compaiono quelle che saranno le sue consuete protagoniste: giovani donne che solitamente vivono le loro tenebrose avventure in castelli lugubri e oscuri.

Le sue opere divennero molto popolari, in particolare tra le giovani lettrici. Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo: “A Sicilian Romance” (Romanzo siciliano, 1790), “The Romance of the Forest” (Il romanzo della foresta, 1791), “The Mysteries of Udolpho” (I misteri di Udolpho, 1794) e “The Italian” (L’Italiano, 1797).

Ann Radcliffe fu considerata l’esponente di maggior spicco del romanzo storico in chiave gotica, grazie al successo riscosso in particolare da “Il romanzo della foresta”.
I suoi libri successivi ottennero risultati entusiastici e diedero il via a un numeroso gruppo di imitatori. Inoltre, alcuni grandi scrittori, come Jane Austen (1775 – 1817), trassero ispirazione dall’atmosfera presente nelle opere della Radcliffe.

Come nelle sue opere, anche la vita della scrittrice inglese si tinse di qualche sfumatura fosca. Pochi anni prima della sua morte, si vociferava soffrisse di depressione e che fosse stata addirittura rinchiusa in un manicomio per infermità mentale.
In realtà erano solo chiacchiere senza fondamento, infatti, il marito e il dottore che la visitò negli ultimi giorni di vita negarono ogni cosa.
Ann Radcliffe morì il 7 febbraio 1823 a causa di problemi respiratori e fu sepolta in una chiesa di Bayswater (Londra).

Il primo romanzo della Radcliffe, “I castelli di Athlin e Dubnayne”, non incontrò molti consensi; fu criticato soprattutto per i suoi anacronismi e per le interpretazioni poco realistiche delle Highlands. Anche il “Romanzo siciliano” pubblicato l’anno successivo non riscosse grandi attenzioni.
Le cose però, presero finalmente una piega diversa nel 1791, quando la scrittrice diede alle stampe il suo terzo lavoro: “Il romanzo della foresta”.
Nella prima edizione la Radcliffe lo pubblicò in forma anonima; nella seconda edizione iniziò ad aggiungere il proprio nome al frontespizio perché i suoi libri iniziarono a incontrare il favore del pubblico.

Nel 1794, andò in stampa il romanzo “I misteri di Udolpho” e la scrittrice inglese iniziò a guadagnare cifre da capogiro. Per farsi un’idea è sufficiente sapere che, all’epoca, l’importo medio guadagnato da un autore per un manoscritto era di 10 sterline. Per questo quarto romanzo della Radcliffe, gli editori, G. G. e J. Robinson, acquistarono il copyright per 500 sterline e fu un successo incredibile.
Nel 1797, per “L’Italiano”, Cadell e Davies pagarono 800 sterline. La Radcliffe era la scrittrice professionista più pagata degli anni 1790.
Questo romanzo fu concepito come risposta a “The Monk” (Il monaco) di Matthew Gregory Lewis (1775 – 1818) perché la Radcliffe non gradiva la direzione in cui si stava indirizzando la letteratura gotica.
L’ultimo romanzo dato alle stampe dall’autrice inglese fu “Gaston de Blondeville”, pubblicato postumo nel 1826.

Nei libri della Radcliffe i personaggi femminili sono alla pari con quelli maschili. Le sue giovani eroine sono in grado di dominare e superare i cattivi e gli eroi maschi tipicamente potenti, dando vita a nuovi ruoli per le donne nella letteratura precedentemente non contemplati.
Inoltre, la scrittrice inglese includeva nelle sue trame avvenimenti soprannaturali che però, alla fine erano “smascherati”, nel senso che la Radcliffe forniva sempre ai lettori una spiegazione razionale e solitamente, lo faceva verso la fine dei suoi romanzi, per accrescere la suspense.

Alcuni critici, dei lettori e persino certi suoi colleghi scrittori non amavano particolarmente il fatto che la Radcliffe disilludesse le loro aspettative. La denuncia più eloquente in questo senso fu quella di Walter Scott (1771-1832) che, nelle sue “Vite dei romanzieri” (1821-1824), scrisse: “Un passo furtivo dietro l’arazzo può, senza dubbio, in alcune situazioni, e quando i nervi sono sintonizzati su un certo tono, avere una non piccola influenza sull’immaginazione; ma se l’ascoltatore cosciente scopre che si tratta solo del rumore prodotto dal gatto, la solennità del sentimento è svanita, e il visionario è subito arrabbiato con il suo senso di essere stato ingannato e con la sua ragione per aver acconsentito all’inganno”.

Per quanto riguarda i paesaggi e le ambientazioni, la Radcliffe usava la narrazione a cornice, personificando la natura e spesso descriveva luoghi che non aveva mai visitato.
Si lasciò anche indubbiamente influenzare da diversi pittori, come: Claude Lorrain (1600 – 1682), Nicolas Poussin (1594 – 1665) e Salvator Rosa (1615 – 1673), per dare corpo agli elaborati paesaggi che facevano da sfondo alle sue storie.
In particolare, l’influenza di Lorrain emerge nelle descrizioni pittoresche e romantiche, ad esempio nel primo volume di “I misteri di Udolpho”; l’influenza di Rosa, invece, si fa sentire nei paesaggi oscuri e negli elementi del gotico.

La Radcliffe ebbe una notevole influenza su altri autori: ispirò la narrativa gotica ma anche molte parodie.
Nel Settecento, subirono il suo influsso scrittori come Matthew Lewis (1775-1818) e il Marchese de Sade (1740-1814), che lodarono il suo lavoro ma produssero narrativa più intensamente violenta.
È nota anche per aver generato numerosi imitatori minori, della “Radcliffe School”, come Harriet Lee (1757 – 1851) e Catherine Cuthbertson (1775 ca. – 1842).

All’inizio dell’Ottocento, anche Edgar Allan Poe (1809-1849) e Sir Walter Scott, che inframezzava il suo lavoro con poesie similmente alla Radcliffe, trassero ispirazione dai romanzi della scrittrice inglese.
Successivamente, Charlotte (1816 – 1855) ed Emily Brontë (1818 – 1848) continuarono la tradizione gotica della Radcliffe con i loro romanzi “Jane Eyre”, “Villette” e “Wuthering Heights” (Cime tempestose).

L’ammirazione per la Radcliffe è rinvenibile anche in famosi autori francesi, come Honoré de Balzac (1799-1850), Victor Hugo (1802-1885), Alexandre Dumas (1802-1870) e Charles Baudelaire (1821-1867).
Il romanzo soprannaturale di Honoré de Balzac “L’Héritière de Birague” (1822) segue la tradizione dello stile di Radcliffe e ne fa la parodia.

Spostandoci dalla Francia, scopriamo che anche lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821 – 1881) rimase profondamente colpito dalla Radcliffe, tanto che, in “Winter Notes on Summer Impressions” (Note invernali su impressioni estive, 1863) scrisse: “Passavo le lunghe ore invernali prima di andare a letto ascoltando (perché non sapevo ancora leggere), a bocca aperta per l’estasi e il terrore, mentre i miei genitori mi leggevano ad alta voce dai romanzi di Ann Radcliffe“.
Inoltre, vari studiosi hanno notato elementi di letteratura gotica fare capolino nei romanzi di Dostoevskij, e alcuni hanno cercato di mostrare l’influenza diretta del lavoro dell’autrice inglese sullo scrittore russo.

Se avete ancora dubbi riguardo alle capacità della Radcliffe, potete affidarvi al parere di un’autorità (Jane Austen) che nel suo romanzo “Northanger Abbey” (L’abbazia di Northanger) scrisse: “Ho letto tutte le opere della signora Radcliffe, e la maggior parte di esse con grande piacere. I Misteri di Udolpho, una volta iniziato, non riuscivo più a posarlo; ricordo di averlo finito in due giorni, con i capelli ritti in testa per tutto il tempo“.

Opera al nero #5. Turandot: la principessa sanguinaria di Puccini

Opera al nero 5. Turandot la principessa sanguinaria di Puccini

La Turandot di Puccini entra nella schiera delle opere al nero, grazie alla crudeltà della protagonista e alla scia di sangue che si lascia alle spalle.

Il soggetto dell’opera di Giacomo Puccini (Lucca, 22 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924) ha origini difficili da individuare sia cronologicamente sia geograficamente.
Si è potuti risalire a una Turandot (pers. Tūrāndokht “fanciulla del Tūrān”), eroina di una novella iraniana che, almeno inizialmente, è anonima e compare nel poema “Heft Peiker” di Niẓāmī (sec. 13°).

Successivamente, la prima menzione della principessa sanguinaria nella letteratura europea è contenuta nella raccolta di materia narrativa orientale “Les Mille et un jours” (I mille e un giorno, 1710-12) di François Pétis de la Croix (1653-1713; orientalista francese), dove la storia è menzionata come di origine cinese, mentre studi filologici ci indirizzano verso una possibile origine turca.

Più avanti ancora, il soggetto fu divulgato in Italia attraverso la celebre fiaba teatrale, “Turandot”, (1762) di Carlo Gozzi (1720 – 1806; drammaturgo e scrittore italiano), verseggiata poi da Schiller (1802) e più volte musicata: Carl Maria von Weber (1786 – 1826; compositore, direttore d’orchestra e pianista tedesco) compose delle musiche di scena su questo tema nel 1809; Ferruccio Busoni (1866 – 1924; compositore e pianista italiano, considerato uno tra i più grande geni pianistici italiani) scrisse una suite orchestrale op. 41 (eseguita per la prima volta nel 1906 e poi trasformata in opera lirica, rappresentata nel 1917).

Il libretto della Turandot di Puccini, fra tutte le varie fonti si ispira, liberamente, alla traduzione di Andrea Maffei (1798 – 1885; poeta, librettista e traduttore italiano) dell’adattamento tedesco di Friedrich Schiller (1759 – 1805; poeta, filosofo, drammaturgo, medico e storico tedesco) del lavoro di Gozzi.

L’idea di scrivere un’opera sulla fiaba di Turandot venne a Puccini, dopo un incontro a Milano, nel marzo 1920, con i librettisti Giuseppe Adami (1878 – 1946; drammaturgo, librettista, giornalista, scrittore, biografo e critico musicale) e Renato Simoni (1875 – 1952; critico teatrale, giornalista, commediografo, poeta, librettista, regista e sceneggiatore).
In estate, quello stesso anno, Puccini che era a Bagni di Lucca ascoltò un carillon con temi musicali provenienti dalla Cina e alcuni di questi temi si trovano nella partitura, ad esempio, la canzone popolare “Mo Li Hua”.

La trama della Turandot e semplice da riassumere. In tutte le elaborazioni della sua storia, la crudele principessa propone degli enigmi ai suoi pretendenti e manda a morte quelli che non sanno scioglierli. Solo un pretendente, il principe Khalaf, sarà in grado di risolvere i quesiti e alla fine, otterrà l’amore di Turandot.

L’opera di Puccini è articolata in tre atti e cinque quadri. Il compositore la lasciò incompiuta e fu completata più avanti da Franco Alfano (1875 – 1954).

La prima rappresentazione della Turandot di Puccini, ebbe luogo alla Scala di Milano, il 25 aprile 1926, nell’ambito della stagione lirica del teatro.
Gli interpreti di quella serata furono: Rosa Raisa, Francesco Dominici, Miguel Fleta, Maria Zamboni, Giacomo Rimini, Giuseppe Nessi e Aristide Baracchi. A dirigere l’opera c’era Arturo Toscanini (1867 – 1957) che bloccò la rappresentazione a metà del terzo atto, alla morte di Liù, due battute dopo il verso “Dormi, oblia, Liù, poesia!”, in pratica dopo l’ultima pagina completata da Puccini.
Le sere successive la Turandot fu messa in scena con il finale rivisto di Alfano e diretta da Ettore Panizza (1875 – 1967).

L’incompletezza di Turandot ha fatto discutere gli studiosi. Il problema fondamentale di questo dramma che Puccini tentò inutilmente di risolvere era la mutazione della principessa che da algida e sanguinaria si trasforma in una donna innamorata.
Oltretutto, Puccini riteneva già la scena della morte di Liù un finale soddisfacente, poiché la considerava perfettamente in grado di suggerire al pubblico il resto della storia, appunto, il cambio di carattere di Turandot, dopo il sacrificio d’amore della sua ancella. Quindi, secondo questo punto di vista, l’opera di Puccini si può ritenere narrativamente completa anche se bruscamente interrotta.

In copertina: particolare della locandina di Turandot del 1926

Gerrit Dou: un approccio realistico alla lettura

Gerrit Dou Donna anziana che legge approccio realistico alla lettura

Gerrit Dou ritrae in modo eccezionalmente realistico la figura di una donna anziana che sta leggendo e in tale ritratto mostra tutto il suo talento e la sua straordinaria capacità tecnica.

“Donna anziana che legge” o “Donna anziana che legge la Bibbia” è un dipinto a olio del pittore olandese Gerrit Dou o Gerard Dou (Leida, 7 aprile 1613 – Leida, 9 febbraio 1675). Eseguito dall’artista nel 1631-1632 circa, dal novembre 1912, è entrato nella collezione del Rijksmuseum di Amsterdam.
In passato fu ritenuta un’opera di Rembrandt; niente di strano, dato che nel 1628, il quattordicenne Dou fu il primo allievo di Rembrandt (Leida, 15 luglio 1606 – Amsterdam, 4 ottobre 1669) che era più grande di lui di soli sette anni.

Nel 1626, Rembrandt condivideva la sua bottega a Leida con un altro artista Jan Lievens (Leida, 24 ottobre 1607 – Amsterdam, 8 giugno 1674) e in quel periodo dipingeva con uno stile raffinato, impiegando forti contrasti tra luce e ombra. Questa tecnica, chiaramente espressa in “Donna anziana che legge”, fu successivamente abbandonata da Rembrandt che respinse tale raffinatezza, mentre il suo allievo si concentrò sul suo perfezionamento.

Quando nel 1632, il suo maestro si trasferì ad Amsterdam, Dou divenne il fondatore dei Fijnschilder (termine utilizzato per quei pittori olandesi che, in particolare tra il 1630 e il 1710, si adoperarono per una rappresentazione della realtà il più fedele possibile. Questo tipo di tecnica è stata portata a grandi altezze a Leida, specialmente da Gerrit Dou; si tratta di una tecnica estremamente raffinata e meticolosa, applicata principalmente nei cosiddetti dipinti di genere che ritraevano scene di attività quotidiane di piccolo formato) di Leida.

In “Donna anziana che legge”, Dou mostra tutto il suo talento e un grande abilità tecnica, nonostante la sua giovane età. La donna e i suoi abiti sono dipinti con estrema precisione, ma anche il testo biblico del lezionario e la stampa che lo accompagna sono altrettanto dettagliati e ben visibili.

Chi osserva il quadro vede chiaramente ciò che la donna sta leggendo: l’inizio del diciannovesimo capitolo del “Vangelo di Luca”, dove si afferma che chi desidera fare del bene dovrebbe dare il massimo dei suoi beni terreni ai poveri. Il messaggio stride con gli abiti costosi della donna anziana, che all’apparenza è ancora aggrappata ai suoi beni.

Dou raffigura l’anziana con un approccio eccezionalmente realistico per l’epoca e rispetto agli standard pittorici del Nord Europa.
L’artista dà allo spettatore la sensazione di trovarsi vicino al soggetto, mentre la donna ritratta sembra ignara di essere osservata, raffigurata di profilo è chiaramente e totalmente presa dalla lettura.

L’impiego del chiaroscuro, che Dou aveva imparato da Rembrandt, è tipico ed evidenzia i dettagli più importanti del dipinto. Lo sfondo è liscio, sobrio e non è fonte di distrazione.
A livello compositivo, l’artista crea una sorta di contrasto diagonale rilassante tra la parte superiore sinistra e quella inferiore destra.

Per lungo tempo, in pratica fino al 1900, quest’opera di Dou fu considerata il ritratto che Rembrandt fece di sua madre, Neeltgen Willemsdr van Zuijdtbroeck, da cui il titolo di “Madre di Rembrandt”. Questo fatto oltretutto si accordava con l’antica idea che Rembrandt avesse raffigurato molti dei suoi parenti nei suoi dipinti, per cui la sua paternità sembrava scontata.

Solo nel 1901, lo storico dell’arte Wilhelm Martin suggerì in un libro dedicato a Gerrit Dou che probabilmente “La donna anziana che legge” fosse di sua mano e non di quella del suo maestro.
A rinforzo di tale tesi, citava le caratteristiche stilistiche, evidenziando l’utilizzo del chiaroscuro e la struttura superficiale liscia tipica di Dou e il fatto che Dou e Rembrandt, così come Lievens, usassero spesso gli stessi modelli. In effetti, la stessa anziana signora compare nei dipinti di tutti e tre gli artisti e lo stesso Dou la dipinse più volte.

Dopo il 1900, fu anche chiaro che la designazione di alcuni modelli di Rembrandt come suoi parenti era del tutto infondata.
Quando nel novembre 1912, il dipinto fu offerto al Rijksmuseum dal lascito di A. H. Hoekwater, fu finalmente esposta come opera di Dou e con il suo attuale titolo.

In copertina: Gerrit Dou, “Lezende oude vrouw” (Donna anziana che legge) olio su tavola, 71,2 cm × 55,2 cm (1631-1632 ca.), conservato al Rijksmuseum, Amsterdam

“Primavera” di Monet: la lettura vista da un impressionista

Gli Impressionisti danno vita a un modo assolutamente innovativo di leggere e rappresentare il mondo. In un quadro di Monet, “Primavera”, troviamo già contenuti i tratti caratteristici di questo singolare movimento pittorico.

Claude-Oscar Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 5 dicembre 1926), pittore francese, è ritenuto uno dei fondatori dell’Impressionismo, nonché uno dei suoi più prolifici esponenti.
Artisticamente, Monet fu un rivoluzionario. Ai suoi tempi, la Francia era una nazione viva e moderna, nel pieno dello sviluppo economico e sociale.

Nelle arti figurative evoluzione e innovazione non erano ancora arrivate: gli artisti continuavano a seguire le regole tradizionali dell’arte accademica, chiamata, con intenti derisori, “art pompier”, con tale definizione si includeva tutta la pittura prodotta in Francia nella seconda metà dell’Ottocento che era sotto l’influsso delle Accademie di Belle Arti e mirava a un classicismo esasperato.
Questo tipo di arte era gradita al potere ed era eseguita con tecnica magistrale, ma da alcuni era considerata spesso falsa e vuota, fino al cattivo gusto.

Monet era lontano dall’interpretazione accademica dell’arte. Secondo lui la prassi consolidata costringeva a rappresentare la realtà in modo arido e antiquato, mentre lui voleva ritrarre il mondo in modo più vitale e vero. Partendo da questa semplice premessa, il pittore francese divenne l’artefice di un’innovazione in campo tecnico e tematico.

La poetica dell’Impressionismo si avvalse in particolare delle scoperte scientifiche che all’epoca rivelarono il modo cui percepiamo ciò che ci circonda. Emerse che luce e colori, opportunamente elaborati dal nostro cervello, ci consentono di intuire la forma degli oggetti e le loro coordinate spaziali.

Forte di tale rivelazione, Monet eliminò definitivamente la prospettiva geometrica dai suoi quadri e si basò unicamente sulla visione diretta delle cose. Egli riproduceva oggetti e paesaggi seguendo solo l’istinto della visione e ignorando rilievo e chiaroscuro. Con tale metodo pittorico, i suoi dipinti acquistarono in spontaneità e freschezza. Inoltre, la sua pittura, abbandonata l’ossessione per i dettagli tipica dello stile accademico, divenne vibrante, indefinita e tesa ad afferrare l’impressione pura.

Monet trasse conclusioni stilistiche anche dagli studi sulla cromatica che lo spinsero, ad esempio, a teorizzare l’esistenza delle “ombre colorate”, in quanto le tinte di un dipinto subiscono l’influsso di quelle vicine. Inoltre, l’artista fece sempre maggior uso dei colori puri, affinché il dipinto riflettesse meglio la luce.
E in effetti, nelle sue tele i colori sono dissolti in una luce molto intensa, quasi abbagliante.
Monet dipingeva sempre alla luce naturale, all’aperto, en plein air, appunto, immergendosi nell’ambiente che aveva deciso di ritrarre, invece di restare nel chiuso dei tradizionali atelier.

Questa pittura all’aria aperta obbligava ad essere rapidi nell’esecuzione, cose che rientrava perfettamente nelle convinzioni pittoriche degli impressionisti, pronti a cogliere in ogni situazione le impressioni fuggevoli e irripetibili.
Il modo di dipingere di Monet lo ispirò anche nella scelta dei soggetti, in particolare, amava gli specchi d’acqua che variavano notevolmente in base alle condizioni di luce e colore. In linea con tutte queste considerazioni, le sue pennellate erano rapide e sintetiche.

Nel dipinto “Primavera” o “La lettrice”, realizzato da Monet nel 1872, troviamo messe in pratica le scelte stilistiche dettate dalla nuova poetica impressionista.
Nel quadro è ritratta la sua prima moglie, Camille Doncieux, mentre è intenta a leggere sotto un baldacchino di lillà.
Attualmente, l’opera è custodita al Walters Art Museum (già Walters Art Gallery, principale museo di arti visive di Baltimora, Stati Uniti).

Claude e Camille si sposarono nel 1870, in precedenza erano stati amanti e lei era stata la sua modella per i dipinti figurativi che il pittore francese realizzò tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento.
Pare che Camille fosse davvero eccezionale come modella, tanto da essere utilizzata anche da altri pittori come, Auguste Renoir (1841 – 1919) ed Édouard Manet (1832 – 1883).

In una mostra, presso la galleria parigina di Durand Ruel, organizzata dagli Impressionisti dal 30 marzo al 30 aprile 1876, fu esposta anche la Primavera di Monet. L’artista aveva presentato diciotto opere e in sei di esse era ritratta Camille. In occasione di questa esposizione, al dipinto fu dato il titolo più generico di “Donna che legge”.

I quadri di Monet che raffigurano Camille sono le uniche immagini che ci restano di lei: Alice Hoschedé, la seconda moglie del pittore fece distruggere tutti i ricordi e le immagini della vita di Camille con l’artista.

In Primavera ci troviamo di fronte a un’incantevole scena di vita domestica.
Questo dipinto, come numerosi altri, fu realizzato nel giardino dell’abitazione di Monet ad Argenteuil, un piccolo villaggio a nord-ovest di Parigi, dove l’artista e la sua famiglia andarono a vivere dal 1871.
La scena è tipicamente impressionista e la presenza della donna serve ad arricchire la rappresentazione.

Camille è seduta, il suo ampio vestito rosa si allarga su un bellissimo prato punteggiato di fiori; è concentrata nella lettura e il suo volto e le sue forme sono ben delineati, cosa che non accade nelle raffigurazioni successive, dove la modella è più anziana e meno attraente.
La luce del sole emerge qua e là tra le fronde degli alberi e fa apparire chiazze di luce sul terreno e sul vestito di mussola.

In copertina: “Primavera” o “La lettrice” (1872) di Claude Monet (50 x 65,5 cm), conservato al The Walters Art Museum, Baltimora, Stati Uniti

Opera al nero #4. Rigoletto: tra innovazione e potenza drammatica

Opera al nero 4 Rigoletto tra innovazione e potenza drammatica

Il Rigoletto di Giuseppe Verdi rientra nella schiera delle opere al nero, grazie a diversi crimini perpetrati tra una nota e l’altra. In questo melodramma, in specifico, assistiamo a un rapimento e a un omicidio.

Rigoletto (1851), opera in tre atti di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), è ricavata dal dramma di Victor Hugo (1802 – 1885) “Le Roi s’amuse” (Il re si diverte); l’autore del libretto è Francesco Maria Piave (1810 – 1876). Quest’opera insieme con “Il trovatore” (1853) e “La traviata” (1853) costituisce la cosiddetta “trilogia popolare” verdiana.

La scelta del testo di Hugo si deve a Verdi.
Il compositore leggeva moltissimo e si teneva informato sulle novità letterarie, sempre alla ricerca dell’intreccio drammaturgico ideale da mettere in musica e che fosse il più possibile vicino alle sue esigenze espressive. Purtroppo in varie occasioni, i testi da cui il musicista era attratto cozzavano contro la ferrea censura dell’epoca. A riprova di ciò, lo stesso Rigoletto fu inizialmente oggetto delle attenzioni della censura austriaca.

Anche il testo originale, quello di Hugo, “Le Roi s’amuse” (1832) fu bloccato dalla censura e solo 50 anni dopo la prima fu possibile riproporlo.
Il dramma dello scrittore francese non fu gradito al pubblico e neppure alla critica, principalmente perché nel testo sono descritte, senza tanti peli sulla lingua, le dissolutezze della corte francese e al centro della storia c’è addirittura il libertinaggio di Francesco I (1494 – 1547), re di Francia.
L’opera di Verdi subì ugualmente l’invadenza della censura. Le prime modifiche necessarie per superare il veto dei censori furono lo spostamento dell’azione dalla Francia alla corte di Mantova e mettere al posto del re un ben più modesto duca.

Il più delle volte, è grazie alla corrispondenza di Verdi con i suoi editori o con i librettisti che cogliamo dal vivo delle sue parole le vicissitudini in cui spesso incorrevano le sue opere.
A proposito di Rigoletto, il musicista scrisse a Piave: “il titolo deve essere necessariamente La maledizione di Vallier, ossia per essere più corto La maledizione. Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande”.
Alla fine, per il titolo si optò per il nome del protagonista che dall’originale “Triboletto” (Triboulet per Hugo), divenne “Rigoletto” (dal francese “rigoler”, che significa scherzare).

Verdi aveva deciso di musicare il testo di Hugo perché aveva tutti i requisiti che un dramma dovrebbe possedere per essere tradotto in musica, almeno secondo lui: era un intenso dramma di passione, tradimento, amore filiale e vendetta. Questa amalgama di sentimenti ed emozioni era il materiale perfetto da tradurre in ricchezza melodica e potenza drammatica.

La tragica vicenda di Rigoletto si svolge nel XVI secolo a Mantova e dintorni.
Rigoletto, il protagonista della storia è un gobbo, buffone di corte presso il duca di Mantova. A causa delle sue beffe feroci si è guadagnato l’odio dei cortigiani che non aspettano altro che vendicarsi di lui.
Rigoletto ha una figlia, Gilda, la cui esistenza cerca di mantenere segreta. La ragazza si è invaghita di un povero studente che in realtà è il duca di Mantova, uomo superficiale e libertino.
Intanto, i cortigiani del duca scoprono l’esistenza di Gilda; la credono l’amante di Rigoletto e per vendicarsi di lui la rapiscono e la portano a palazzo ducale. Qui, la giovane, sedotta dal duca, si tormenta per la sua sorte, mentre Rigoletto giura di vendicare l’onta subita. Il buffone decide per una soluzione drastica e incarica un sicario, Sparafucile, di uccidere il duca, ma all’ultimo momento, sua figlia, ancora innamorata del suo seduttore, prende il suo posto e muore pugnalata.

L’opera inizia con un preludio cupo e disperato che preannuncia la tragedia che sta per consumarsi. Poi dalle note siamo sbalzati al centro di una festa che si tiene al palazzo ducale di Mantova. Tra lazzi e risate, con note rapide e allegre inizia l’opera vera e propria, e la sensazione è quella di essere stati catapultati dentro un’opera buffa.

Il contrasto tra il preludio e questa scena vivace e scanzonata è decisamente marcato e ha uno scopo preciso: la leggerezza di questo momento prepara gli spettatori “alla semina della tragedia“.
Nelle sale del palazzo ducale cavalieri e dame danzano. Verdi applica in questa scena una soluzione che Mozart aveva già impiegato nel primo atto del suo “Don Giovanni”: mescolare temi e melodie anche dal punto di vista narrativo. Così sentiamo provenire delle sonorità dall’orchestra in buca, cui si uniscono i suoni prodotti da una banda posizionata all’interno e quelli di un gruppo di archi che accompagnano le danze sul palcoscenico.

I balli sfrenati e il variare costante delle melodie delineano il carattere libertino dei personaggi. Il culmine di tale spirito licenzioso è poi manifestato dalla prima aria, cantata dal duca di Mantova, “Questa o quella per me pari sono”: manifesto deliberato della volubilità del personaggio che con questo brano esprime a Borsa la propria indifferenza verso l’identità delle donne che corteggia e seduce.
Nel terzo atto, invece, cantando “La donna è mobile” dichiarerà l’opposto. Per giustificare il suo comportamento, sosterrà che è il genere femminile a essere volubile, probabilmente, perché è incapace di provare sentimenti veri e di conseguenza, è convinto che anche le donne con cui si intrattiene siano come lui: incapaci di amare.

Parole e musica ci presentano il Duca come un seduttore seriale, frivolo e superficiale che pianifica abilmente le proprie conquiste, ma non è un manipolatore e in buona parte dell’opera è ignaro di ciò che accade attorno a lui. Non è il motore degli eventi che accadranno, che invece si sviluppano per mano altrui.

Ad esempio, il Duca è all’oscuro del rapimento della figlia di Rigoletto, Gilda, da parte dei cortigiani e ignora le oscure macchinazioni ordite contro di lui dal buffone di corte con Sparafucile. Non saprà neppure di essere sfuggito a un attentato alla propria vita.
In effetti, il Duca non è il cattivo della storia. È solo un uomo che soddisfa i suoi istinti senza troppi scrupoli e la musica sostiene questa interpretazione del personaggio: le sue bellissime arie risultano semplicemente delle ballate orecchiabili.

Se il Duca pecca in leggerezza e vacuità, i cortigiani e lo stesso Rigoletto sono crudeli.
Gilda, invece, è un personaggio che matura nel corso dell’opera e se all’inizio è impegnata in melodie dallo stile datato, concepite allo scopo di mostrare la sua ingenuità, successivamente, sarà capace di ben altre linee musicali, sempre più elaborate, a mano a mano che prenderà coscienza delle ingiustizie del mondo.

Se per il Duca Verdi ha utilizzato melodie incantevoli ma disimpegnate, per il vero protagonista dell’opera, Rigoletto, ha intessuto fosche e tragiche sonorità.
A differenza del Duca, il buffone è un personaggio complesso che possiede mille sfaccettature. Nel corso dell’opera, lo vediamo preso dai sensi di colpa e dagli scrupoli; ossessionato, afferrato da un profondo amore paterno, folle nella ricerca di un’atroce vendetta.

Rigoletto è ambivalente: la sua personalità è divisa tra l’acre malignità e il cinismo, che non perde occasione di mostrare alla corte ducale, e l’affetto sincero e delicato che mostra per sua figlia, affetto nel quale si rivela la sua natura di uomo, opposta alla maschera del buffone.

Verdi amava il personaggio di Rigoletto, in un suo scritto dice di lui: “Io trovo […] bellissimo. Rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore”.
Il compositore è anche riuscito a rappresentare la dualità del suo adorato protagonista, mescolando sapientemente lo stile “alto”, tipico della tragedia, con quello “medio” e “basso”.

Rigoletto è ritenuto “una delle figure più tragiche della storia del melodramma”, forse anche per il contrasto tra la sua situazione drammatica e il suo ruolo di buffone, colui che per mestiere deve divertire e far ridere gli altri. In ogni caso, si tratta di un grande personaggio perché ospita in sé sia il comico che il tragico. Ed è anche causa dei suoi mali: per compiacere il Duca, fa infuriare il Conte di Ceprano e in generale il suo atteggiamento di irrisione e le nefandezze perpetrate nei confronti dei cortigiani scatenerà la loro vendetta che coinvolgerà, oltre a lui, anche sua figlia.

La tragedia di Rigoletto è una doppia tragedia: la sofferenza di un padre che vede morire la propria figlia e l’incapacità di un uomo, il Duca, di conoscere e comprendere quanto grande e profondo possa essere l’amore.

Con Rigoletto, Verdi aderisce completamente alle teorie romantiche francesi sull’arte che sostengono il concetto che il “vero” deve prevalere sul “bello” e la realtà deve essere raffigurata in tutti i suoi aspetti.
Infatti, andando contro i canoni estetici della tradizione classicistica, il compositore costruisce il dramma attorno a un personaggio difforme e grottesco, in accordo con la poetica che emerge anche nelle opere letterarie di Hugo. Ed è proprio il grottesco a incarnare l’elemento più incisivo del contrasto.

Verdi si rifà ad Hugo anche per un altro aspetto: conserva in toto l’effetto delle situazioni drammatiche, usando la sintesi. In pratica, individua le situazioni chiave e dà loro risalto con pochi tratti veloci. Conferisce ai personaggi il massimo rilievo, conduce il susseguirsi delle scene con un ritmo rapido e travolgente ed enfatizza le figure con grande potenza, insolita nel melodramma della sua epoca. In particolare, usa il canto, conducendo alla perfezione l’arte della melodia e le concede la facoltà di mostrare tutte le sfumature emotive e i possibili stati d’animo.
Magistrale è il contrasto che ha creato tra i due antagonisti dell’opera: il Duca si profonde in melodie compiute e a volte irriverenti, che ne illustrano i modi arroganti e cinici; Rigoletto utilizza prevalentemente il declamato e canta in forme rotte e spezzate.

Quest’opera di Verdi, rispetto alle precedenti, mostra un’evoluzione marcata, soprattutto per la capacità acquisita dal compositore di tratteggiare caratteri psicologicamente complicati.
Con Rigoletto, Verdi riesce a rappresentare in modo realistico la natura umana in tutta la sua mutevolezza e complessità.

Il musicista ha prestato particolare attenzione all’individuazione del soggetto drammatico e non ha trascurato neppure un dettaglio per garantire all’opera il massimo effetto teatrale.
Ha realizzato con grande attenzione la partitura, creando strutture a lunga campata. Ha anche utilizzato con notevole flessibilità il linguaggio e le convenzioni formali del melodramma italiano. Infatti, ha inserito nel Rigoletto: “numeri” singoli in blocchi scenici più vasti; ha fuso momenti prettamente di azione con altri di riflessione; ha tarato le scene sul tempo interiore dei personaggi.

Verdi aveva già mostrato molte delle novità presenti nel Rigoletto nelle sue opere precedenti, ma la differenza più netta che si rileva in questa opera è l’unità stilistica, realizzata grazie alla caratterizzazione musicale.
In tutta l’opera si vive in un’atmosfera di attesa di eventi che aleggiano minacciosi e si avverte anche l’opprimente sensazione di una sventura imminente, preannunciata dalla maledizione.
Il compositore è riuscito anche a dare vita a personaggi che, pur muovendosi entro le regole formali dell’opera italiana, maturano e crescono a mano a mano che il dramma procede.
L’insieme di queste novità, unite all’originalità del soggetto e alla capacità di ritrarre i caratteri dei personaggi con grande efficacia, consentono di affermare che Rigoletto mostra senza dubbio nuove prospettive al teatro musicale.

In copertina: Scenografia per l’atto “IV” (III come normalmente conteggiato) del Rigoletto di Giuseppe Verdi. (Per la produzione del Théâtre national de l’Opéra al Palais Garnier inaugurato il 27-02-1885)

Ivan Kramskoj e l’intimità della lettura

Ivan Kramskoj e l'intimità della lettura

Ivan Kramskoj è un altro degli autori che ha rappresentato in diversi dipinti il tema della lettura. In questo specifico ritratto, “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista”, il pittore ha raffigurato sua moglie, Sofia Kramskaya, immersa nella lettura di un libro.

Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” è un dipinto del 1866, del pittore e critico d’arte russo, Ivan Nikolaevič Kramskoj (Ostrogožsk, 8 giugno 1837 – San Pietroburgo, 6 aprile 1887), che fu anche capo e organizzatore del gruppo di artisti aderenti al Tovariščestvo peredvižnych chudožestvennych vystavok (Società per le esposizioni d’arte ambulanti). Gruppo che sorse nel 1870 a Pietroburgo, in reazione all’accademismo ufficiale, con il programma di rivolgere l’arte a motivi veristici e farne mezzo di educazione ed elevazione sociale.

“Lettura” fa parte dei lavori della fase iniziale dell’attività artistica di Kramskoj, ma già in questa tela si possono individuare gran parte dei tratti che caratterizzeranno la sua produzione pittorica futura.
Nel quadro possiamo ammirare un incantevole ritratto di donna che, seduta all’aperto, in un parco o in un giardino, sta leggendo un libro.

La donna del quadro è Sofia Kramskaya, consorte del pittore. I due coniugi ebbero un matrimonio felice e armonioso; Kramskoj nutriva per sua moglie un grande affetto e spesso la troviamo raffigurata nei suoi dipinti.
In questo specifico ritratto, Sofia è seduta su una panchina di pietra, ha un’espressione seria; gli occhi sono bassi, rivolti verso un grande libro che tiene aperto, sostenuto dalla sua mano sinistra. Il braccio destro è appoggiato con grazia su un cornicione di pietra, sul cui lato anteriore si affacciano delle foglie di una pianta rampicante.

Sofia è ritratta in una posa libera: la mano destra sorregge la fronte, la testa è inclinata leggermente in avanti, la mano sinistra aperta è posata sul grembo.
Gli abiti che indossa sono alla moda: uno scialle verde chiaro a strisce rosse (le avvolge morbidamente i fianchi e sporge da sotto il braccio, posato sul davanzale di pietra della panchina); una camicetta bianca con il colletto a balze; un’ampia gonna marrone.

I colori dei suoi vestiti sono chiari e brillanti, specie la camicia. Inoltre, una fonte di luce è concentrata sulla figura e la fa spiccare sullo sfondo scuro, dando la sensazione che Sofia sia avvolta in un alone luminoso, mentre un riverbero della luce investe anche il suo volto assorto nella lettura.
Un ciondolo compare al centro della sua scollatura a V, mentre attorno alla vita indossa una fascia di colore scuro.
Sul davanti della gonna è appoggiato un ombrello, mentre alle sue spalle, sulla sinistra del dipinto, intravediamo un cappello di paglia, a tesa larga, che presenta una fascia scura intorno alla base, dietro di esso sporgono le foglie di una pianta.

L’artista ha curato con precisione e realismo ogni dettaglio: i capelli scuri, lucidi e ricci composti in un’elegante acconciatura; la costosa spilla sul vestito; lo squisito scialle che è sceso dalle spalle.
Il pittore ha utilizzato colori espliciti e ha giocato con luci e ombre che donano una nota di morbidezza all’intera figura, al fine di esaltarne la sensualità, nonché la tenerezza.
È una scena intima, caratterizzata da una compostezza aristocratica e sembra quasi che la donna fosse ignara di essere oggetto delle attenzioni dell’artista.

Lo sfondo è fatto di alberi dalle foglie rosse e verdi; il sole sta tramontando e intravvediamo sulla sinistra del quadro uno scorcio del suo viaggio verso la notte, testimoniato dal cielo tinto di arancione.

In copertina: “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” (1866-1869) di Ivan Nikolaevič Kramskoj, olio su tela (dimensioni 56 x 64 cm), Tretyakov Gallery – Mosca, Russia

Opera al nero #3. Tosca di Puccini: un crimine tira l’altro

Opera al nero Tosca di Puccini un crimine tira l’altro

“Tosca” di Giacomo Puccini ha tutti gli ingredienti per essere una storia “nera”. Nell’agile e drammatica trama si avvicendano diversi eventi tragici, tra cui un omicidio e un suicidio.

Proseguendo sulla scia delle opere al nero possiamo includere anche il capolavoro di Giacomo Puccini (1858 – 1924; compositore italiano, ritenuto uno dei maggiori e più significativi operisti di tutti i tempi), “Tosca”, anche qui gli atti criminosi e i gesti disperati certamente non difettano. Infatti, nel corso dell’opera assistiamo a un ricatto, a un tentato stupro, a un omicidio, a un’esecuzione per fucilazione e infine, a un suicidio.

E voi vi chiederete, c’è spazio per altro, dopo questa carrellata di disgrazie e violenze?
Sì, c’è spazio per una storia d’amore e qualche tocco di ambientazione storica.
In realtà, ciò che predomina in quest’opera di Puccini, al di là dei tragici eventi, è l’amore tra Tosca e Mario Cavaradossi; attorno alla loro relazione appassionata è costruita l’intera vicenda.

Puccini come Verdi sceglieva con cura i testi che intendeva musicare.
L’intreccio doveva essere avvincente e scorrevole e al contempo, suscitare forti emozioni sulle quali il musicista potesse poggiare e modellare i suoi impianti sonori, fondendo note, parole e azione in una perfetta drammaturgia.

I libretti delle opere liriche, quelle definite “serie” nel XVIII secolo, sono spesso incentrati su un triangolo amoroso (o anche più di uno), composto da due figure maschili tenore e baritono/basso e una figura femminile (soprano).
Dalle relazioni conflittuali tra queste tre figure scaturisce l’azione del dramma.
Semplificando, diremo che la storia d’amore, che in genere coinvolge il tenore e il soprano, sarà immancabilmente contrastata dal baritono/basso.

Questo schema triangolare ha incontrato molta fortuna nell’opera e compare in varie salse, calato in diverse ambientazioni e gestito con motivazioni conflittuali sempre diverse, tutte, però, condite di bellissima musica.
Puccini nella Tosca, ovviamente, non rinuncia al collaudato triangolo che qui vede impegnati: Floria Tosca (soprano), Mario Cavaradossi (tenore) e Vitellio Scarpia (baritono).

L’idea di scrivere quest’opera venne a Puccini dopo aver assistito, nel 1889, al dramma “La Tosca” di Victorien Sardou (1831 – 1908; drammaturgo francese), al teatro dei Filodrammatici di Milano.
Il compositore ne fu particolarmente colpito e chiese all’editore Giulio Ricordi (1840 – 1912) di interessarsi ai diritti perché intendeva musicarla.
Sardou non rigettò la richiesta, ma mostrò una certa freddezza e solo nel 1893, Ricordi riuscì a ottenere l’autorizzazione, ma per un altro musicista, Alberto Franchetti (1860 – 1942; compositore italiano appartenente alla scuola verista).

Fu così approntato un abbozzo di libretto, da Luigi Illica (1857 – 1919; commediografo e librettista italiano) e Giuseppe Giacosa (1847 – 1906; drammaturgo, scrittore e librettista italiano), che ottenne l’approvazione dell’autore del dramma. Franchetti però non volle comporre la musica, così Ricordi, nel 1895, chiese di occuparsene a Puccini. Il compositore si mise all’opera nella tarda primavera del 1896.
L’opera fu completata nel mese di ottobre del 1899 ed andò in scena il 14 gennaio 1900, al Teatro Costanzi di Roma.

Per passare dalla prosa alla musica, la vicenda di Sardou fu innanzitutto ristretta dai cinque atti originali a tre e furono operati diversi tagli. I librettisti eliminarono numerosi particolari attinenti alla cornice storica realistica del dramma e anche parecchi personaggi secondari.
Lo scopo era quello di concentrare al massimo la storia sui tre personaggi principali e sull’amore tormentato tra Tosca e Mario.

Tosca è ritenuta l’opera più drammatica di Puccini; essa presenta numerosi colpi di scena e situazioni che mantengono ben desto l’interesse del pubblico.
La musica è caratterizzata da incisi tematici taglienti e brevi, e si adatta perfettamente al testo e alla struttura generale del libretto, grazie al suo rapido decorso.

Ai momenti drammatici dell’azione, Puccini è riuscito a contrapporre delle parti liriche, dove emerge prepotentemente la vena melodica, come ad esempio nei duetti tra Tosca e Mario e nelle loro rispettive romanze (Recondita armonia, Vissi d’arte, E lucevan le stelle).
A livello orchestrale, poi, il compositore ha dato vita a delle sonorità che anticipano addirittura l’espressionismo musicale tedesco.

Per quanto riguarda la storia, la vicenda si svolge a Roma. Abbiamo anche la data precisa: martedì 17 giugno 1800, cioè tre giorni dopo la battaglia di Marengo (combattuta nel corso della seconda campagna d’Italia, durante la guerra della seconda coalizione; le truppe francesi dell’Armata di riserva, guidate da Napoleone Bonaparte, si scontrarono con l’esercito austriaco, comandato dal generale Michael von Melas. La battaglia ebbe luogo a est del fiume Bormida, vicino all’attuale Spinetta Marengo, nel territorio della Fraschetta, odierna provincia di Alessandria).

Ci troviamo calati in un particolare momento storico, in un’atmosfera tesa, tra gli avvenimenti rivoluzionari in Francia e la caduta della prima repubblica romana.
La prima scena dell’atto primo vede il bonapartista, nonché ex console della repubblica romana, Cesare Angelotti, evaso da Castel Sant’Angelo, entrare nella Basilica di Sant’Andrea della Valle per nascondersi. Qui incontrerà il suo amico, il pittore Mario Cavaradossi, che sta lavorando in una cappella.
Il colloquio fra i due è interrotto dall’arrivo di Tosca, amante di Mario, che costringe Angelotti a rintanarsi di nuovo nella cappella. Il pittore nasconde alla donna la presenza del suo amico, perché teme che lei possa rivelarlo al suo confessore.

Il colloquio amoroso tra Tosca e Mario è turbato dalla gelosia di lei che scorge nella figura della Maddalena, ritratta dal suo amante, la marchesa Attavanti.
Il pittore riesce a tranquillizzarla e a congedarla e a quel punto, Angelotti può uscire di nuovo dal suo nascondiglio. I due riprendono il discorso precedentemente interrotto. Mario offre all’amico protezione e lo accompagna alla sua casa in periferia. Andandosene, portano con loro anche gli abiti femminili che la sorella del fuggiasco ha dato al fratello per travestirsi; dimenticano però nella cappella un ventaglio.

Nel frattempo, in chiesa piomba il barone Scarpia, capo della polizia papalina, che sta cercando l’evaso. L’uomo sospetta anche di Cavaradossi del quale conosce le simpatie bonapartiste.
Per trovare Angelotti e arrestare lui e il pittore, Scarpia pensa di coinvolgere Tosca. La cantante è tornata in chiesa, per informare Mario che il loro appuntamento è saltato: lei deve cantare a Palazzo Farnese.
Scarpia, novello Jago, approfitta della gelosia della donna e abilmente la induce a credere che Mario la tradisce con la marchesa Attavanti, e il ventaglio dimenticato nella cappella ne sarebbe la prova.

Tosca esce sconvolta dalla chiesa, meditando di cogliere i due presunti amanti in flagrante, mentre Scarpia ordina a uno dei suoi luogotenenti di seguirla. L’uomo è convinto di scovare Angelotti e di poter imprigionare Mario che probabilmente lo nasconde. E già si immagina “L’uno al capestro [Cavaradossi], l’altra fra le mie braccia [Tosca]”.

Il secondo atto si apre sull’appartamento di Scarpia intento a consumare la sua cena, mentre a un piano inferiore di Palazzo Farnese sono in corso i festeggiamenti in onore del generale Melas.
Gli uomini di Scarpia hanno seguito Tosca fino alla villa di Mario. La cantante se n’è già andata, quando gli sbirri piombano in casa del pittore. Non trovano Angelotti, ma arrestano Mario, perché ritengono sappia dove sia nascosto il fuggiasco. Cavaradossi, condotto davanti a Scarpia, si rifiuta di svelare dove è nascosto il suo amico.

Tosca che ha appena cantato al cospetto della regina al piano inferiore, si reca anche lei nell’appartamento di Scarpia, convocata da uno dei suoi uomini e vede Mario, prima che l’uomo sia condotto in un’altra stanza per essere torturato.
Il capo della polizia, dopo aver costretto la donna ad ascoltare le urla del suo amante, riesce a piegare la sua volontà e a farle rivelare il nascondiglio di Angelotti.
Nel frattempo, un messaggero arriva e annuncia che a vincere la battaglia di Marengo sono state le truppe di Napoleone, non quelle austriache.

Mario inneggia alla vittoria e Scarpia lo condanna a morte. Tosca implora Scarpia di concedere la grazia a Mario. L’uomo acconsente, ma vuole che in cambio la donna gli si conceda.
Tosca è combattuta, prega, piange e si dispera, ma il barone non si fa impietosire. Nel frattempo giunge la notizia che Angelotti si è suicidato e Scarpia dà l’ordine di giustiziare Cavaradossi, ma con una fucilazione simulata. In realtà, è solo una finzione volta a ingannare la cantante, ma quello che l’uomo non si aspetta è la reazione di Tosca. Mentre Scarpia scrive il salvacondotto per la cantante e il suo amante, la donna riesce a impadronirsi di un pugnale e quando lui tenta di avvicinarla lo uccide al grido: “Questo è il bacio di Tosca!” e poi fugge con il salvacondotto.

Nell’atto terzo, Tosca incontra per un’ultima volta Cavaradossi a Castel Sant’Angelo e lo rassicura: non morirà. La donna gli mostra il salvacondotto firmato da Scarpia e gli confida di averlo ucciso.
Purtroppo, non ci sarà alcuna simulazione, Mario viene fucilato veramente e Tosca disperata e inseguita dagli sbirri, che hanno trovato Scarpia morto, si getta dagli spalti di Castel Sant’Angelo, dopo aver gridato “O Scarpia, avanti a Dio!!

“La lettrice” di Fragonard e il fascino della bellezza femminile

"La lettrice" di Fragonard e il fascino della bellezza femminile

“La lettrice” è un dipinto di Jean-Honoré Fragonard, risalente al 1776. Questo ritratto rappresenta una sorta di meditazione sulla bellezza e sugli effetti della lettura sull’animo femminile.

Jean-Honoré Fragonard (Grasse, 5 aprile 1732 – Parigi, 22 agosto 1806) è stato un pittore francese, un importante esponente del rococò e uno dei più importanti artisti francesi del Settecento.

Fragonard sapeva sfruttare al meglio le sue doti pittoriche. Faceva un uso particolare della luce e si avvaleva di una singolare rarefazione di specifiche parti, un valido artificio che gli consentiva di rappresentare con efficacia la leggerezza di alcuni elementi, come i panneggi o le bianche acconciature femminili.

Lavorò a Versailles fino alla rivoluzione, dopo la quale il suo stile fu rimpiazzato da quello neoclassico, caratterizzato da severità e tetraggine; l’opposto di quello di Fragonard che era assolutamente incapace di dipingere temi seri. Infatti, impossibilitato a gareggiare con i suoi pari aulici, aveva scelto di primeggiare tra i pittori di moda e i suoi dipinti più famosi raffigurano scene leggere e frivole, spesso erotiche.

Non disdegnò neppure i soggetti storici, i paesaggi e le opere di genere, ma la sua grande eleganza fu chiaramente impiegata nella pittura di carattere frivolo e malizioso.

Affascinato dalla bellezza femminile, Fragonard dipinse un nutrito gruppo di dipinti in cui sono raffigurate giovani donne in momenti di quieta solitudine.
Questi dipinti sono una specie di evocazione; le fanciulle che l’artista amava dipingere sono una sorta di personificazione della musica e della poesia.

Uno di questi dipinti “al femminile” è “La lettrice”. Nel quadro è raffigurata una ragazza con uno sgargiante vestito giallo; ha il capo inclinato ed è appoggiata a un grande cuscino rosa, piacevolmente assorta nella lettura di un libro che sorregge con delicatezza con la mano destra; l’altra mano è appoggiata a una poltrona.
Non sappiamo chi sia questa giovane concentrata a leggere, invece sappiamo, grazie ai raggi x, che sotto questo dipinto, l’artista aveva tracciato un disegno differente.
L’opera è datata 1776 ed è stata utilizzata in svariate edizioni del romanzo “Madame Bovary” di Gustave Flaubert.

Rispetto alle altre opere di Fragonard, questo dipinto è certamente più tranquillo. Si tratta di una scena di erudizione di una giovane donna e potrebbe essere definito un ritratto, anche se la donna non ci guarda. Da notare la postura delle mani e della schiena (molto dritta nonostante il grande cuscino) che denotano che la ragazza ha ricevuto un’educazione in materia di decoro ed etichetta.

La tecnica utilizzata da Fragonard è l’olio su tela. Notevole per la varietà dei tocchi, il dipinto è un buon esempio della pennellata rapida e vigorosa sviluppata dall’artista, e a volte definita “escrime” (scherma) dai suoi contemporanei.

Fragonard ha concepito questo dipinto, affinché fosse gradito agli occhi di chiunque, evitando gli interessi intellettuali e con l’intento di arrecare gioia e calore allo spettatore che l’artista coinvolge, inducendolo a porsi delle domande sulle conseguenze della lettura nel pensiero e nelle emozioni della fanciulla ritratta.
In questo modo, “La lettrice” diventa una meditazione sulla bellezza, ma anche sulle implicazioni della lettura nell’animo femminile.

Attualmente, “La lettrice” è conservata alla National Gallery of Art di Washington. Fu donata al museo nel 1961, dalla signora Mellon Bruce, in memoria di suo padre, Andrew W. Mellon. In precedenza, era appartenuta al dottor Tuffier.

In copertina: “La lettrice”, olio su tela (dimensioni 81,1×64,8 cm) di Jean-Honoré Fragonard, conservato alla National Gallery of Art, Washington

“Messa da Requiem” di Verdi: grido di fede nel terrore della morte

Messa da Requiem”di Verdi grido di fede nel terrore della morte

La “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi è una composizione sacra per coro, voci soliste e orchestra, che il compositore ha dedicato ad Alessandro Manzoni e che esprime tutta l’angoscia e lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte.

La genesi della “Messa da Requiem” (1874) di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901) si colloca in un periodo in cui il musicista ha deciso di abbandonare la composizione per il teatro d’opera. Successivamente, sarà convinto a tornare a comporre altre opere, ma nel 1871, reduce dai grandi consensi ottenuti da Aida, Verdi si prende una lunga pausa dalle scene teatrali, pur continuando a comporre musica.

Il compositore accarezza da tempo il progetto di realizzare una Messa da Requiem.
Nel 1869, l’aveva addirittura proposta in occasione della morte di Gioachino Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 – Passy, 13 novembre 1868). La composizione avrebbe dovuto essere un collage realizzato da dodici musicisti. Per sé, Verdi aveva riservato la sezione conclusiva, il “Libera me”.
Purtroppo, questo interessante progetto, pensato per Bologna, fallì per motivi politico-economici, ma Verdi compose comunque il Libera me e successivamente, lo inserirà nella Messa da Requiem da lui composta nel 1874.

Fu la morte di Manzoni, il 22 maggio 1873, che spinse Giuseppe Verdi a rinnovare il suo proposito di una Messa per i morti, dopo il fallito progetto rossiniano.
La scomparsa dell’autore de “I promessi sposi” colpì profondamente il musicista che condivideva con Manzoni i valori risorgimentali, quali, libertà e giustizia, e come lui si era adoperato per l’Unità d’Italia.

Verdi si attivò per attuare il suo progetto già dal 3 giugno del 1873, rivolgendosi all’editore Ricordi: “vorrei dimostrare quanto affetto e venerazione ho portato e porto a quel grande che non è più e che Milano ha tanto degnamente onorato. Vorrei mettere in musica una Messa da morto da eseguirsi l’anno venturo per l’anniversario della sua morte. La Messa avrebbe proporzioni piuttosto vaste, ed oltre ad una grande orchestra ed un grande coro, ci vorrebbero anche […] quattro o cinque cantanti principali”.

Il Requiem fu offerto dal musicista alla città di Milano e la sua prima esecuzione si tenne nella Chiesa di San Marco, a Milano, il 22 maggio 1874. A dirigere la messa fu lo stesso Verdi, a interpretare le quattro parti solistiche furono: Teresa Stolz (soprano); Maria Waldmann (mezzosoprano); Giuseppe Capponi (tenore); Ormondo Maini (basso).
L’esecuzione ottenne un grandissimo successo e la fama della Messa superò rapidamente i confini nazionali.

La Messa era suddivisa in:
Requiem et Kyrie (quartetto solista, coro)
Dies Irae (coro)
Tuba Mirum (basso e coro)
Mors stupebit (basso e coro)
Liber Scriptus (mezzosoprano, coro)
Quid sum miser (soprano, mezzosoprano, tenore)
Rex tremendae (solisti, coro)
Recordare (soprano, mezzosoprano)
Ingemisco (tenore)
Confutatis (basso, coro)
Lacrymosa (solisti, coro)
Offertorium (solisti)
Sanctus (a doppio coro)
Agnus Dei (soprano, mezzosoprano, coro)
Lux Aeterna (mezzosoprano, tenore, basso)
Libera Me (soprano, coro)

L’organico, oltre ai quattro solisti e al coro misto, prevedeva: 3 flauti (3 anche ottavino); 2 oboi; 2 clarinetti; 4 fagotti; 4 corni; 4 trombe; 3 tromboni; basso tuba; timpani; grancassa; archi.

La Messa da Requiem di Verdi è ispirata ai temi fondamentali della spiritualità: dalla ricerca della fede alla paura della morte e di ciò che ci riserva l’aldilà.
Quando mette mano alla composizione il musicista sta attraversando una fase difficile della sua vita: si sente lontano dalla fede e i lutti che ha affrontato lo hanno spinto a porsi domande sulla morte e sul trascendente.

La Messa rispecchia nel suo insieme questa duplice condizione di ricerca della spiritualità e di scetticismo sulla questione della fede. Il risultato è un elevato messaggio espresso da una voce laica, perfettamente calata nel pensiero ottocentesco europeo, quella di un individuo che avverte la sua debolezza di fronte al mistero della morte. L’individuo che non ha le certezze della fede e neppure ancora il sostegno delle filosofie della vita e degli esistenzialismi.

Giuseppe Verdi con la sua Messa da Requiem afferma, tra i due estremi di coloro che credono e quelli che non credono o sono incerti e dubbiosi, la posizione dell’uomo lasciato a se stesso, privo della certezza della redenzione, solo di fronte al mondo vuoto della voce di Dio.
La grandezza di questa composizione è nel fatto che il musicista è riuscito a esprimere la posizione dell’individuo che terrorizzato dal nulla, cerca disperatamente una voce divina che lo rassicuri.
La Messa di Verdi rappresenta un interrogativo aperto sulle paure e sull’impossibilità di trovare un orientamento sicuro.

Verdi era un romantico e avvertiva sia il rischio della mancanza di fede sia il convenzionalismo cattolico.
Il suo rifiuto della fede è l’atteggiamento di chi non accetta il formalismo del falso credente, il rispetto pedissequo delle regole comportamentali e delle pratiche devote al fine di ottenere la salvezza.
Questo suo atteggiamento è un riflesso della decadenza morale, politica, strutturale che il musicista avvertiva attorno a sé.

Il desiderio di scrivere una Messa da Requiem in onore di Manzoni, nasceva in Verdi da una vicinanza verso lo scrittore milanese per il quale nutriva, sin dagli anni giovanili, una vera propria venerazione.
Verdi incontrò Manzoni il 21 maggio 1867 e attraverso il resoconto fatto da Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano, seconda moglie di Giuseppe Verdi) in una lettera di indirizzata a Clara Maffei (1814 – 1886; patriota e mecenate italiana) si avverte l’ammirazione che il musicista aveva per l’autore de “I promessi sposi”: “se poi andrai a Milano, ti presenterai a Manzoni. Egli t’aspetta, […] Pouff! Qui la bomba fu così forte ed inaspettata, che non seppi più se dovevo aprir gli sportelli della carrozza per dargli aria, o se dovessi chiuderli, temendo che nel parossismo della sorpresa e della gioia non mi saltasse fuori! È venuto rosso, smorto, sudato; si cavò il cappello, lo stropicciò in modo che per poco non lo ridusse in focaccia. Più (e ciò resti fra noi) il severissimo e fierissimo orso di Busseto n’ebbe pieni gli occhi di lagrime, e tutti e due commossi, convulsi, siamo rimasti dieci minuti in completo silenzio”.

Passando all’analisi musicale della Messa da Requiem di Verdi possiamo osservare, come prima cosa, che si tratta in sintesi di una riflessione sull’anima dopo la morte.
In tutta la composizione è tangibile il senso di umiltà dell’uomo che, angosciato dalla propria vita e dal dolore, si trova al cospetto di Dio.
L’intero Requiem è costellato di elementi ricorrenti e in generale, si può cogliere l’ambiguo oscillare tra un sentimento collettivo apocalittico e un ripiegamento intimistico.

Il Kyrie inizia sottovoce, simulando delle anime imploranti davanti a un giudice.
Il Dies irae è invece una sorta di esplosione musicale: l’orchestra esibisce un fortissimo, mentre il coro emette suoni strazianti e le grancasse sparano cannonate. Qui in particolare emergono il terribile giudizio e l’angoscia, e la potenza esibita da orchestra e coro, spinti al limite delle loro possibilità tecniche, servono a Verdi per illustrare musicalmente degli scenari apocalittici.

A queste sezioni si contrappone il lirismo del Recordare, un duetto tra soprano e mezzosoprano, una sorta di inno d’amore verso Gesù, e il Lux Aeterna, dove la luce emanata da Dio è espressa dal tremolo dei violini iniziale e dal canto del mezzosoprano, mentre basso, timpani e ottoni evocano l’idea che la punizione divina arriva per tutti.

In alcune sezioni, come il Kyrie eleison, il Recordare, l’Ingemisco e in alcuni versi del Lux Aeterna e del Libera me, Verdi dà voce al sentimento individuale, manifestato nella maniera più calorosa e di chiara derivazione operistica.

In altre parti della composizione, il musicista tiene vivo il sentimento musicale, lasciando però emergere una religiosità di sapore arcaico, prossima ai modelli della ritualità popolare, che si allontana temporaneamente sia dallo spirito prettamente operistico sia dalla rigida polifonia.
Alcuni esempi sono: il canto salmodiato (canto su una sola nota) del coro che apre l’introito; l’invocazione drammatica (libera me) del soprano; il canto monodico e austero dell’Agnus dei.

Nel Lacrimosa, invece, Verdi mette in risalto la disperazione, suggerita, sin dall’inizio, dagli archi che sembrano prodursi in un lamento.

L’unità costruita da Verdi nella Messa da Requiem è un sottile gioco di richiami delle medesime pulsioni.
Nell’arco dell’intera composizione si è sospinti e abbrancati dal primordiale; si oscilla tra il terrore del Dies Irae e il grido di fede del Libera me che fanno irruzione a più riprese nel tessuto musicale con una forza che resta invariata.

In copertina: particolare del ritratto di Alessandro Manzoni (lo scrittore al quale Verdi dedicò il Requiem) di Francesco Hayez (1841), Pinacoteca di Brera