Crepuscolarismo: tra malinconia e poesie delle “piccole cose”

Crepuscolarismo tra malinconia e poesie delle piccole cose

Il crepuscolarismo è una corrente che nasce e si diffonde all’inizio del Novecento, e rappresenta un’ideale parabola della poesia italiana, che si spegne in un “mite e lunghissimo crepuscolo”.

La corrente letteraria del crepuscolarismo apparve e fiorì in Italia all’inizio del Novecento, grazie ad alcuni poeti tra i quali: Guido Gozzano (1883-1916), Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907), Antonia Pozzi (1912-1938) e Corrado Govoni (1884-1965).
Più che un movimento, si manifestò come una similitudine di stile e di intenti. In particolare, i poeti crepuscolari furono accomunati dal totale rifiuto di qualsiasi forma di poesia eroica o sublime.

Il termine “crepuscolarismo” deriva dal titolo di una recensione apparsa su “La Stampa”, il 1° settembre 1910, firmata da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Il critico utilizzò tale definizione per descrivere le poesie di Marino Moretti, Fausto Maria Martini (1886-1931) e Carlo Chiaves (1882-1919). Il termine passò poi a indicare una categoria letteraria.

L’adozione di questo particolare termine voleva sottolineare una situazione di spegnimento. Infatti, in queste poesie prevalgono i toni tenui e smorzati, e l’emozione preponderante è la malinconia, quella “di non aver nulla da dire e da fare“.

I crepuscolari restano fondamentalmente legati alla tradizione classica, pur essendo coscienti del suo decadimento. Rifiutano l’immagine dell’intellettuale protagonista della storia e svalutano la funzione del poeta. Riprendono Pascoli e le sue poesie “delle piccole cose” e il D’annunzio del “Poema paradisiaco”. Inoltre, nei loro versi si avverte l’influsso di Paul Verlaine (1844-1896) e di altri poeti decadenti francesi e fiamminghi.

I versi dei poeti crepuscolari, liberi da qualsiasi ornamento e privi del peso della tradizione, esprimono un costante bisogno di compianto e confessione.
Nelle liriche di questi autori si avverte la nostalgia per i valori tradizionali perduti e una perenne insoddisfazione che ha come unico obiettivo quello di scovare angoli conosciuti e tranquilli in cui trovare rifugio.

I temi tipici del crepuscolarismo sono facilmente rintracciabili in una dichiarazione epistolare del 1904 di Corrado Govoni, uno dei primi poeti di crepuscolari, indirizzata all’amico Gian Pietro Lucini (1867-1914).
Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie”.

Per quanto riguarda la scelta linguistica, i crepuscolari mostrano una piena coerenza con le tematiche trattate. Le loro poesie sono più vicine alla prosa che alla poesia e i versi, pur essendo animati da un ritmo poetico, spezzano il legame con la metrica tradizionale. Tale inclinazione, priva oltretutto di qualsiasi forma aulica e classicistica, apre la strada al verso libero.

I primi testi del crepuscolarismo compaiono tra il 1899 e il 1904, dall’attività di un gruppo romano, operante attorno a Tito Marrone (1882-1967), Corrado Govoni e Sergio Corazzini, e contemporaneamente, di un gruppo torinese che ha come esponente principale Guido Gozzano.
Accanto a questi due gruppi principali ci sono anche alcuni autori, come Fausto Maria Martini, Marino Moretti e solo per un certo periodo, Aldo Palazzeschi (1885-1974).

Leggere poesie e scoprire in un “lampo” quanto siamo cambiati

Leggere poesie e scoprire in un "lampo" quanto siamo cambiati

Rileggere a distanza di tempo poesie studiate a scuola è un’esperienza che invito tutti a fare.
Anche scoprire poesie non ancora lette di un poeta, sul quale l’insegnante di italiano insisteva, anni fa, a fare domande durante le interrogazioni – e noi a chiederci perché – può riservare gradite sorprese.

Il famoso senno del poi nella letteratura ha un senso concreto.
Le esperienze che abbiamo vissuto, i libri che abbiamo letto negli anni, i viaggi che abbiamo intrapreso hanno cambiato i nostri punti di vista, irrimediabilmente – e per fortuna – siamo persone diverse da quelle che hanno letto Pascoli, Leopardi, Dante, Foscolo, ecc. sui banchi di scuola.

Io ho fatto un tuffo nel passato proprio in questi giorni, grazie a un post da scrivere, e sono riemersa diversa.
La poesia che ha suscitato il mio interesse e ha fatto scaturire queste riflessioni è una poesia di Giovanni Pascoli, dalla raccolta Myricae che – udite, udite – non avevo letto a scuola e chissà quante altre ce ne sono in attesa di una mia lettura, che possono suscitare emozioni analoghe.

La poesia è Il lampo e credo che, in assenza di un titolo, si sarebbe capito ugualmente di che cosa stesse parlando il poeta.

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.


Leggendo questi pochi versi si può vedere in azione un lampo, il suo effetto sulle cose e lo sgomento improvviso che crea in chi assiste al suo repentino arrivo.
Non serve concentrarsi troppo per sentire anche il tuono.
E quell’occhio esterrefatto che si apre e si chiude in un baleno è l’incarnazione stessa dell’attimo in cui la luce del lampo rivela, come la luce di un enorme flash, il mondo e poi lo getta in un istante, di nuovo, nell’oscurità totale.