Manoscritto Voynich: “il libro più misterioso del mondo” #2

Manoscritto Voynich il libro più misterioso del mondo 2

Il mistero attorno alla lingua e al contenuto del manoscritto Voynich non è stato ancora svelato, anche se c’è chi sostiene il contrario, ma i risultati a tutt’oggi ottenuti non hanno fornito testi di senso compiuto.

Sono stati davvero numerosi i tentativi volti a sciogliere il mistero di questo curioso manoscritto.
Il primo a tentare la sorte fu il professore di filosofia medievale all’Università di Pennsylvania, William Newbold (1865 – 1926) che sostenne si trattasse di un latino “camuffato”, addirittura da Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292 ca.; filosofo, scienziato, teologo ed alchimista inglese).

Negli anni quaranta, furono due crittografi, Joseph Martin Feely e Leonell C. Strong, a tentare un nuovo approccio: applicarono al testo dei sistemi di decifratura sostitutiva, ma non approdarono a nulla.
Con criteri simili operarono gli esperti di crittografia della marina statunitense, approdando a risultati altrettanto inconcludenti.

Nel 1945, un crittografo statunitense, William F. Friedman (1891 – 1969), pensò bene di dare vita a un gruppo di studiosi: il “First Voynich Manuscript Study Group” (FSG) per venire a capo della questione. Da queste nuove analisi, emerse solo una certa ripetitività del linguaggio del testo, ma a parte questo, anche tale tentativo fu solo un altro buco nell’acqua.

Nel 1978, fu la volta di un filologo dilettante, John Stojko, il quale avanzò l’ipotesi che la lingua del manoscritto Voynich fosse ucraino con delle vocali rimosse. Ahimè! La traduzione possedeva un vago senso, ma non aveva nulla a che fare con le raffigurazioni presenti nel testo.

Ci sono state altre ipotesi ancora, tutte accomunate dall’impossibilità di raggiungere un risultato concreto.
Le uniche cose che si sono evidenziate nel corso degli anni e delle numerose analisi del manoscritto Voynich è che, nonostante l’alfabeto non sia ancora stato decifrato, esso è unico e sono state riconosciute 19-28 lettere che non mostrano alcun legane con gli alfabeti finora noti.
C’è anche il sospetto che chi ha scritto il libro abbia impiegato due alfabeti complementari ma diversi; inoltre, si ritiene che il testo sia opera di più autori. Si è anche rilevata la totale mancanza di errori ortografici, esitazioni e persino cancellature.

L’ipotesi della lingua artificiale ebbe diversi sostenitori, soprattutto per la presenza nel testo di numerose ripetizioni di sillabe che sembrerebbero rimandare a una divisione degli enti in categorie. A ciascuna di tali categorie poi, è associata una sillaba o una lettera.
Questa affascinante teoria riesce a spiegare la ripetizione delle sillabe, ma non dà alcuna risposta riguardo ai prefissi e ai suffissi presenti nel manoscritto Voynich.

Un’ulteriore ipotesi è del 2003, ed è quella di Gordon Rugg (1955; informatico e studioso di psicologia scozzese) che sostenne si trattasse di un falso rinascimentale, creato all’unico scopo di truffare studiosi o sovrani.
Secondo la sua teoria, gli autori del libro avrebbero prodotto un testo, utilizzando metodi combinatori, già utilizzati all’epoca della stesura del Voynich, e in particolare, Rugg fece riferimento alla “griglia di Cardano”, opera di Girolamo Cardano (1501 – 1576; medico, filosofo, matematico, illusionista, astrologo e accademico italiano), nel 1550.

Il metodo ispirato a Cardano è particolarmente ingegnoso ed era impiegato per scrivere messaggi segreti. Si utilizzava un foglio di carta, nel quale erano state ritagliate delle apposite aperture, attraverso queste si tracciava il messaggio su un foglio sottostante. Una volta eliminata la griglia, si completavano le porzioni del messaggio e si terminava lo scritto, ponendo del testo di senso compiuto, fino a produrre un messaggio che sembrasse del tutto normale.
Secondo Rugg, che è riuscito a individuare alcune regole base del linguaggio del manoscritto è da escludere l’idea di un testo falso, il Voynich non contiene nessun messaggio segreto codificato nel testo, in quanto, in questo specifico caso, la griglia non è stata creata per codificare, ma per comporre il testo.

Attorno al manoscritto Voynich sono state fatte moltissime altre ipotesi riguardo al perché fu scritto, da chi e quali fossero gli argomenti in esso trattati. Altrettante teorie girano attorno alla decodifica delle parole in esso contenute e dei simboli dell’alfabeto.

Stephen Bax (1960 – 2017), professore di linguistica all’Università del Bedfordshire, ad esempio, ha tentato un approccio applicato alle illustrazioni della parte erboristica e astronomica. Guardando il manoscritto da questo punto di vista, si sono individuati i possibili nomi di piante e costellazioni, ciò ha fatto dedurre che il testo non sia cifrato e neppure privo di senso, bensì un testo prodotto in un’area specifica e in una lingua o dialetto estinto, con un proprio alfabeto, anch’esso perduto.

Ci sono state molte altre ricerche e analisi sul manoscritto Voynich, ma le conclusioni a cui sono pervenute non sono né certe né tanto meno definitive, e forse, il fascino che avvolge questo manoscritto sta proprio nel suo mistero che nessuno è riuscito, nonostante gli innumerevoli tentativi, a intaccare.

Il manoscritto di Voynich non ha fatto solo lambiccare molte menti brillanti, ma ha anche ispirato molti scrittori, che ne hanno fatto uso in vari modi, ed è stato citato anche in alcune famose serie a fumetti.

Vedi prima parte del post

Chi non conosce le fiabe dei fratelli Grimm?

Chi non conosce le fiabe dei fratelli Grimm?

Sono quasi certa che molti bambini siano andati a dormire, almeno una volta, accompagnati dalle parole: “C’era una volta”.
Ma forse non tutti sanno che, molte delle fiabe che seguivano queste parole le dobbiamo a due fratelli tedeschi: Jacob e Wilhelm Grimm.

Le fiabe dei fratelli Grimm, note in tutto il mondo, non sono nate allo scopo di dilettare grandi e piccini, ma fanno parte di un’attenta e oculata operazione di recupero di una tradizione, quella tedesca.

L’idea della raccolta fu di Jacob (Hanau, 4 gennaio 1785 – Berlino, 20 settembre 1863) – filologo, linguista e scrittore, nonché professore di lettere e bibliotecario – fratello maggiore di Wilhelm (Hanau, 24 febbraio 1786 – Berlino, 16 dicembre 1859) e richiese ben tre anni di lavoro: dal 1812 al 1815.
In questa prima fase del progetto, i due Grimm furono supportati da alcuni amici scrittori: Clemens Brentano (1778 – 1842) e Achim von Arnim (1781 – 1831).

Nella prima edizione, “Kinder und Hausmärchen” (Fiabe per bambini e famiglie), i Grimm pubblicarono anche fiabe francesi, successivamente, le eliminarono, mettendo al loro posto altre di origine germanica.
Prima di questa operazione di recupero e trascrizione dei due fratelli tedeschi, le fiabe erano tramandate oralmente, per cui era difficile fornire loro un’attribuzione precisa e anche una datazione corretta.

I due fratelli dedicarono molto tempo ed energie a trascrivere miti e leggende dell’area germanica e questo intenso lavorio li spinse a interessarsi anche al ricco patrimonio favolistico del loro Paese.
Le fiabe sono profondamente legate all’oralità, erano tramandate di generazione in generazione attraverso la memoria, ma con l’avvento della carta stampata, questa tradizione rischiava di perdersi.
I Grimm sapevano che questo tesoro da preservare era conservato, ormai, esclusivamente nelle campagne, dove le persone anziane erano ancora analfabete e qui, iniziarono il loro lavoro di recupero.

I due fratelli seguirono il loro progetto con animi diversi: Jacob aveva un atteggiamento più scientifico, mentre Wilhelm aveva un approccio più poetico e fantastico.
Quasi certamente fu il modo differente di porsi di fronte al progetto che condusse Jacob ad abbandonare l’impresa, subito dopo il deludente esito della prima edizione delle fiabe (1812-1815), invece, il fratello minore, Wilhelm continuò nell’opera, fino a pochi anni prima della morte: l’ultima edizione risale al 1857.

La prima edizione delle fiabe non era adatta ai bambini: le storie contenevano dettagli cruenti e particolarmente realistici. Con il tempo, però, le storie subirono un pesante processo di edulcorazione e depurazione dai particolari truculenti, ciò avvenne, in particolare, con la settima edizione (1857), quando furono tradotte in lingua inglese.

Le ambientazioni delle storie dei fratelli Grimm sono tenebrose e oscure. Si svolgono per la maggior parte in fitte foreste, popolate da creature orribili, come streghe, troll e goblin e, ovviamente, considerata l’atmosfera e i personaggi coinvolti, gli eventi di queste storie hanno come oggetto terribili fatti di sangue.
Del resto, tutto questo rispondeva pienamente alla tradizione popolare tedesca.

I Grimm sono ricordati come gli “iniziatori” della germanistica e furono, prima di tutto, due linguisti e filologi. Fuori della Germania sono famosi appunto per la raccolta e la rielaborazione delle fiabe, tra le quali ricordiamo: Cenerentola, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, Hänsel e Gretel, per citare solo le più famose.

La decisione dei Grimm di dedicarsi alla trascrizione delle fiabe tedesche era legata al desiderio di far nascere una identità germanica: all’epoca, la Germania era suddivisa in tanti principati e piccole nazioni che avevano quale unico elemento unificatore la lingua.

Contemporaneamente alla raccolta delle fiabe, i due fratelli tedeschi lavorarono alla redazione di un dizionario, il “Deutsches Wörterbuch”. Composto da 33 volumi ha rappresentato un passo fondamentale per creare la lingua che oggi è il tedesco e tuttora, è ritenuto una delle fonti preminenti per l’etimologia dei vocaboli di questa lingua.

In Italia, le fiabe dei fratelli Grimm uscirono in prima edizione, nel 1897, con il titolo: “Cinquanta novelle”. La casa editrice era la Hoepli. Il libro ebbe un grande successo e fu ristampato diverse volte negli anni successivi: nel 1940, era giunto già alla decima edizione.

In copertina: Cappuccetto Rosso e il lupo in un dipinto di Carl Larsson (1881).

L’interpretazione tra una lingua e un’altra: un esercizio mentale a 360 gradi

welcome lingueQuando mi trovo a lavorare come interprete tra il pubblico c’è sempre qualcuno che mi chiede, stupito: ma come fai a tradurre simultaneamente in un’altra lingua la persona che sta parlando?

Non che io sia un genio, è una domanda che viene posta sia a me che ai miei colleghi 🙂

In effetti spesso me lo chiedo anche io e chissà, forse tutto è iniziato quando grazie alla mia grande curiosità e voglia di esprimermi in altre lingue, ho scoperto che tradurre in simultanea, o meglio interpretare le parole di un’altra persona è qualcosa di davvero unico.

Interpretare è semplicemente ciò che dobbiamo fare quando vogliamo parlare in un’altra lingua: come diceva il mio professore all’università “KISS” ovvero “Keep It Short and Simple” – una grande e semplice raccomandazione che non bisogna mai dimenticare. Se quando traduciamo, interpretiamo e semplifichiamo le frasi, saremo in grado di esprimere il concetto nel modo più chiaro possibile. Interpretare significa entrare nel pensiero dell’oratore che dobbiamo tradurre, comprendere a fondo tutto il contesto che circonda la tematica di cui si sta parlando ma anche il suo background.

Una parte fondamentale dell’interpretazione è legata alla lingua di partenza e a quella di arrivo: ogni lingua infatti ha le sue caratteristiche che si riflettono nell’oratore. Quando dobbiamo interpretare, la nostra mente è come estraniata da ciò che ci circonda e deve svolgere tre funzioni fondamentali: comprendere il senso di quanto l’oratore sta affermando, rielaborare il concetto nella lingua di arrivo e riproporre il tutto con la massima coerenza e chiarezza. Ciò che conta non è tradurre meccanicamente ogni frase detta ma appunto interpretarla per far sì che chi ci sta ascoltando sia perfettamente a suo agio e partecipe.

Per interpretare, conoscere perfettamente la lingua di arrivo e di partenza (lingua madre o lingua straniera) non è sufficiente: non essendo un mero esercizio di traduzione meccanica l’interprete deve mantenere sempre la calma e dominare le paura di sbagliare che come essere umano ha.

Un esempio molto chiaro è quello del tedesco: se dobbiamo interpretare un oratore che sta parlando in tedesco non possiamo parlare “inseguendolo” nel suo ragionamento visto che fino alla fine della frase spesso non conosciamo il verbo che nella maggior parte dei casi è l’ultima parola che ascoltiamo. Inoltre il tedesco è ricco di parole composte e per interpretarne il significato dobbiamo fare un vero e proprio esercizio di comprensione legata al contesto e riformulazione: il nostro atteggiamento deve essere distaccato dalla singola parola ma allo stesso tempo partecipe perché dobbiamo entrare nel concetto che viene espresso.

In conclusione, se vi capita di ascoltare un interprete sappiate che quella persona sta facendo un grandissimo sforzo per trasmettervi il concetto che l’oratore vuole esprimere, creando una connessione tra mondi, storie e background spesso opposti.

Sehnsucht: parole in tedesco impossibili da tradurre

 SehnsuchtDa quando tanti anni fa ho iniziato a studiare tedesco ciò che mi ha affascinato è stata la grande potenza espressiva di questa lingua, apparentemente considerata fredda o arida da chi non la conosce.

Ciò che mi ha stimolato particolarmente (perché non si finisce mai di imparare) è stata la capacità di questa lingua di essere “assemblata” come un vero e proprio Lego e allo stesso tempo di essere estremamente espressiva e profonda grazie a questa caratteristica.

In questo periodo sto leggendo un libro che si intitola “Anna. Sehnsucht“: l’ho scelto perché ero curiosa di conoscere in che cosa consistesse questo sentimento che prova la protagonista del libro.

Ho imparato a conoscere l’espressione “Sehnsucht” quando studiavo il Romanticismo perché viene da sempre utilizzato per descrivere il sentimento provato dagli esponenti di questo movimento letterario e artistico che erano sempre alla ricerca di qualcosa apparentemente inafferrabile, ineffabile. Ed ecco che entra in gioco questa bellissima, a mio modo di vedere, caratteristica della lingua tedesca: creare parole composte che hanno la capacità di descrivere perfettamente qualcosa ma che non sono traducibili in nessun’altra lingua.

Sehnsucht” infatti è una parola formata da una parte del verbo sich sehnen che significa sia avere nostalgia di qualcosa che desiderare fortemente o meglio anelare a qualcosa. La seconda parola è Sucht, ovvero dipendenza. In una parola il tedesco è stato in grado di racchiudere un concetto che in altre lingue è impossibile da spiegare in una sola parola.

Ma che cos’è quindi la Sehnsucht provata da Anna, la protagonista del libro?
È la voglia, il desiderio di raggiungere un obiettivo per lei imprescindibile, ovvero fuggire dalla sua vita grigia nella DDR per realizzare il suo desiderio: lavorare nella moda. E questo sarebbe stato possibile soltanto fuggendo da Berlino Est.

Penso che ognuno di noi in fondo è “affetto” se così si può dire dalla Sehnsucht così come lo erano i poeti romantici o la stessa Anna… una sensazione a volte ineffabile, incomprensibile che proviamo quando ci troviamo di fronte ad un bellissimo tramonto, al mare o alle montagne innevate: come esseri umani siamo sempre alla ricerca di qualcosa che ci renda felici e ci faccia sentire realizzati. A volte tutto questo si nasconde in un incontro casuale, un’amicizia che si crea sulla base di interessi comuni, un lavoro che ci soddisfa, godere delle piccole cose della vita in una società sempre più frenetica.

Questa Sehnsucht caratterizza anche la mia personalità, ma ho sempre cercato di trasformarla in qualcosa di positivo. La mia curiosità ha trovato un terreno fertile proprio nel tedesco che con le sue tante sfumature mi offre ogni giorno la possibilità di imparare qualcosa e non smettere mai di voler conoscere e sapere. E poi mi ha riservato in questi anni incontri con persone che poi sono diventate amiche e spero lo saranno sempre. Forse perché la mia anima così “sehnsüchtig”, così appassionata riconosce subito le persone che sono sulla stessa lunghezza d’onda.

Anglicismi: li usiamo senza rendercene conto?

Handy con bandiere

Nella lingua che parliamo oggi che rispecchia la nostra vita sempre più “social”, senza renderci conto utilizziamo tantissime parole che suonano “inglesi” e di cui forse non conosciamo neanche il significato nella lingua da cui le abbiamo prese in prestito.

Proprio così: in prestito. Infatti quando parliamo di “anglicismo” facciamo riferimento ad una parola che abbiamo trasferito dall’inglese alla nostra lingua, a volte anche snaturandone il significato.

Ciò accade anche nella lingua tedesca che tende sia a trasformare la parola dal punto di vista ortografico ma anche ad assimilarla talmente tanto da cambiarne completamente il significato fino al punto che un tedesco o austriaco o svizzero conoscono quella parola solo nel contesto in cui viene usata in tedesco.

Facciamo qualche esempio: mentre in italiano si utilizza la parola “cellulare” o “smartphone” in tedesco il termine corrispondente è “Handy”.
Il tedesco in questo come in altri casi non ha preso in prestito la parola inglese “smartphone” ma ne utilizza una che ha radicalmente integrato. Infatti “handy” in inglese è un aggettivo e significa “pratico”, “facile da utilizzare” ma il suo uso in tedesco risale agli anni 30. Infatti dei dispositivi prodotti per il settore militare anziché essere chiamati “walkie talkies” venivano chiamati “handie talkies” proprio per evidenziare la loro grande facilità d’uso. E così poi con il passare degli anni questa espressione si è trasformata da “handie” a “Handy”: naturalmente con la lettera maiuscola perché in tedesco è una regola per i sostantivi.

Che cosa capirebbe un inglese sentendo dire “Public Viewing”?
Penserebbe a qualcosa di brutto e cioè ad una persona il cui corpo viene esposto al pubblico dopo la sua morte. Invece in Germania questa espressione è associata a qualcosa di divertente e conviviale, ovvero alla visione di una partita o evento sportivo proiettati su un maxi-schermo. In questo caso il tedesco ha preso alla lettera i significati di public e viewing.

E se un tedesco dicesse di possedere una “Oldtimer”?
Beh, sarebbe proprietario di un’automobile d’epoca, perché questa parola in tedesco indica un veicolo storico, solitamente che ha più di 30 anni. Si tratta di una parola composta da “old” e “timer” poiché in tedesco si tende a creare parole componendole. E se dicessi old timer ad un inglese? Penserebbe a una persona anziana, un veterano che per via della sua età ha una grande esperienza.

Possiamo definire tutte queste parole degli anglicismi?
In realtà la VDS, ovvero Verein der deutschen Sprache (Società per la lingua tedesca) li definisce “pseudo-anglicismi” proprio perché assumono un altro significato in tedesco. Questa istituzione è nata per difendere la lingua tedesca dall’uso sempre più diffuso di anglicismi ed ha stilato un elenco di tutti quelli che vengono utilizzati in tedesco. Ciò che la VDS sottolinea è il fatto di importare parole inglesi per sostituirle a parole tedesche in un determinato contesto senza riflettere più di tanto. Ciò sarebbe dovuto a un senso di “obbedienza” o “sottomissione” nei confronti della lingua inglese che però va a scapito del tedesco, impoverendolo.

Tutto ciò è sicuramente vero, anche perché nonostante tutti noi siamo amanti della lingua inglese, è importante continuare a mantenere viva la nostra lingua che ha una grande ricchezza. In un altro post avevamo parlato delle parole “intraducibili” ovvero che esprimono un significato talmente profondo da non trovare un termine corrispondente che trasmetta esattamente lo stesso significato nella lingua di destinazione. Il caso degli anglicismi però è molto diverso perché non si tratta di parole intraducibili, ma semplicemente di una contaminazione linguistica.

Tutto questo sta avvenendo anche in italiano?
Sicuramente sì, visto che ogni giorno siamo invasi da una miriade di parole che impariamo a usare e usiamo senza neanche renderci conto… ne parleremo nel prossimo post!

L’importanza di studiare una lingua straniera

libro tedescoStamattina stavo rileggendo ad alta voce la mia ultima pretenziosa prosa in tedesco.

Argomento: una gita, non al famoso faro di memoria woolfiana, bensì a un piccolo comune nel pesarese. Compito che la mia insegnante di tedesco, ragazza molto paziente e piena di talento, mi ha assegnato per questa settimana.

La mia pronuncia è ancora bisognosa di rettifiche, ma migliora, sostenuta dalla passione, dalla forza di volontà e dal desiderio insopprimibile di conoscere; altrettanto fa la mia grammatica che si inerpica testarda tra coniugazioni di verbi, declinazioni di aggettivi, casi, generi e tante altre linguistiche difficoltà.

La curiosità, quella buona: di non fermarsi alle apparenze, di approfondire, conoscere è sempre stata una mia compagna fedele, un oggetto indispensabile nella valigia che mi porto dietro.

Studiare una lingua straniera per me è un investimento prezioso per il futuro, per comprendere realtà diverse dalla mia; è un modo per immergermi in un mondo nuovo.

Le parole e il loro uso sono spesso un strumento molto potente per comprendere punti di vista diversi dal nostro.

Certe espressioni sono particolari di una certa cultura, di un percorso storico specifico e tali singolarità si manifestano anche nella costruzione delle frasi, nelle posizioni definite del soggetto, del verbo, degli aggettivi.

La lingua è una materia fluida, si forma per abitudini ben consolidate e finisce per rispecchiare noi e la nostra vita in modo puntuale.
Accompagna con le sue regole il nostro modo di pensare, di vedere le cose.
Si collega all’ambiente dove è nata e dove continua a svilupparsi.

Non dimentichiamo poi che la lingua ha colto e coglie suggerimenti e suggestioni da altre lingue e ci dice, attraverso le frasi che pronunciamo ogni giorno, che pur diversi, siamo uniti più di quanto pensiamo.