Giacomo Leopardi e le sue pillole di infinito

Per la matematica e la fisica, l’infinito è un concetto che fa riferimento a una quantità senza limite o fine. Ben diversa è la sua definizione se ci spostiamo nel campo della letteratura e della poesia.
Leopardi, ad esempio, ne ha dato una sua enunciazione che tuttora ci stupisce, ci emoziona e ci commuove, aprendoci scorci su una straordinaria interiorità.

La poesia “L’infinito”, fu composta nel 1819, e rappresenta un esempio della nuova poesia leopardiana che è concentrata sull’espressione delle emozioni interiori del poeta. Questa lirica è anche una delle testimonianze più elevate del contrasto tra reale e ideale, tipico dell’uomo romantico.

Nei ben noti versi leopardiani, una siepe impedisce al poeta di vedere il paesaggio che altrimenti si aprirebbe davanti ai suoi occhi. Proprio questo ostacolo serve a stimolare la sua immaginazione, consentendogli di spaziare nell’immensità e di conseguire una visione interiore dell’infinito spaziale, nel quale il suo animo si smarrisce, provando un senso di sgomento.

Nei versi successivi, l’improvvisa comparsa del vento tra le fronde degli alberi riconduce Leopardi alla realtà e lo spinge a confrontare l’infinito silenzio di un istante prima – che ha solo immaginato al di là della siepe – alla voce del vento. Questo paragone lo conduce all’idea dell’eternità, del tempo passato e dello scorrere inesorabile del tempo.

Alla conclusione della lirica, dopo aver sperimentato l’infinito spaziale e quello temporale, Leopardi si abbandona dolcemente in questa nuova dimensione evocata dalla poesia, cercando una forma di annullamento della propria identità.

L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Emily Dickinson: tra semplicità ed elaborate metafore

Emily Dickinson tra semplicità ed elaborate metafore

L’opera poetica di Emily Dickinson intensa e intima colpisce per la semplicità, per la singolare lettura degli elementi naturali attraverso i quali la poetessa riflette sul senso profondo della vita.

Emily Dickinson nacque nel 1830 ad Amherst (Massachusetts – USA).
La sua famiglia non era benestante, ma i suoi familiari erano persone in vista nella comunità locale: ebbero un ruolo fondamentale nella vita culturale, sociale e politica statunitense.
Sfogliando lettere e documenti comprendiamo che entrambi i genitori della poetessa erano molto severi, calati nel forte senso religioso e nelle rigide tradizioni puritane propugnate dai primi coloni inglesi che vissero proprio nella zona in cui la poetessa nacque e poi crebbe.

A quanto pare, Emily non soffrì particolarmente del clima rigido in cui visse e già in giovane età è evidente che è brillante e molto intelligente.
I suoi studi iniziali si svolgono all’Accademia di Amherst, poi in una delle scuole più importanti del New England: la Mount Holyoke Female Seminary. Ben presto, però, la Dickinson decise di proseguire gli studi da autodidatta: non sopportava il fatto di dover professare pubblicamente la religione cristiana. Infatti, già in questo periodo, la giovane poetessa aveva una visione piuttosto scettica della religione.
Questo però non escludeva un forte interesse per la sfera spirituale e proprio dal contrasto tra dubbio e ricerca della “verità” nasce e si evolve la particolare intensità della sua attività poetica.

Quando la Dickinson inizia a scrivere siamo intorno al 1850 e in quel periodo, nel New England, si stava profilando un’intensa attività letteraria.
La poesia era un genere molto popolare, anche se in quegli anni, per le donne era difficile intraprendere qualsiasi tipo di professione.

Per quanto riguarda la sua vita, la poetessa statunitense, a un certo punto, iniziò a evitare i contatti sociali e si rinchiuse nella sua camera, arrivando al punto di non uscirne neppure in occasione della morte degli amatissimi genitori.
La Dickinson mantenne contatti con l’esterno, ma solo attraverso una fitta corrispondenza con amici selezionati. Era particolarmente interessata agli eventi storici e alle tendenze culturali più importanti del suo tempo.

Scrisse moltissimo, ma sono davvero poche le poesie uscite dalla sua penna pubblicate quando lei era ancora in vita.
Curiosamente, la poetessa scriveva le sue poesie su dei foglietti che ripiegava con cura e cuciva tra loro con ago e filo e infine, li riponeva in un cassetto della sua stanza. Dopo la sua morte, il 15 maggio 1886, i suoi scritti furono rinvenuti da sua sorella Vinnie.
Nonostante la sua vita priva di eventi, nelle sue poesie la Dickinson mostra un’intensa e toccante immaginazione.

Il periodo più produttivo per la poetessa è quello degli anni della guerra civile americana (1861-1865). Probabilmente, perché molti dei suoi amici e corrispondenti più cari erano lontani.
Le sue poesie non furono comprese e apprezzate dagli editori della sua epoca e solo nel XX secolo, i critici rivalutarono la sua opera e la poetessa fu stimata, insieme con Walt Whitman, come una delle fondatrici della poesia americana.

Le poesie della Dickinson hanno come temi centrali: l’immobilità, la solitudine e il silenzio, e gli spazi a cui fa riferimento nelle sue poesie sono sempre interiori, quelli dell’animo umano, indagati con grande profondità, per rilevare la distanza che esite tra mondo interiore e mondo esterno.

La prima raccolta “Poems by Emily Dickinson” (Poesie di Emily Dickinson), composta da centoquattordici poesie, fu stampata dopo la sua morte, nel 1890. Poi, nel 1891 fu pubblicato “Poems: Second Series”, e nel 1895 “Poems: Third Series”.

Lo stile poetico della Dickinson, originale e lontano dal gusto e dagli eventi del suo tempo, è stato chiaramente influenzato dalle sue variegate letture: William Shakespeare, John Milton, i poeti metafisici, Emily Brontë e altri scrittori suoi contemporanei, il trascendentalismo di Emerson e persino la tradizione puritana del New England.

Le sue poesie sono brevi, composte da quartine con schema metrico: abab oppure abcb.
La Dickinson impiega spesso rime imperfette, utilizzando assonanze e allitterazioni. La sua tecnica poetica così particolare è stata assimilata a quella di un altro grande poeta visionario, William Blake.

Il linguaggio usato dalla poetessa statunitense è apparentemente semplice, mentre la sintassi è insolita. La Dickinson utilizza la punteggiatura in modo del tutto personale. Ad esempio, impiega i trattini al posto dei punti e delle virgole. Fa notevole uso di lettere maiuscole per conferire importanza a specifiche parole. Inoltre, utilizza paradossi e metafore insolite. L’insieme di tutte queste singolarità rende il senso delle poesie della Dickinson ambiguo e di non facile interpretazione.

Uno dei temi ricorrenti nelle poesie della Dickinson sono diversi: la natura, rappresentata in tutte le sue manifestazioni; la morte; la vita dopo la morte; l’eternità e Dio; l’amicizia; l’amore.

Pur trattando temi semplici e quotidiani, la sua poesia è investita da un’intensità e da una potenza suggestiva, che traggono vigore dalla sua profonda sensibilità e lasciano nel lettore un segno indelebile.

In copertina: Emily Dickinson fra il 1846 e il 1847

Crepuscolarismo: tra malinconia e poesie delle “piccole cose”

Crepuscolarismo tra malinconia e poesie delle piccole cose

Il crepuscolarismo è una corrente che nasce e si diffonde all’inizio del Novecento, e rappresenta un’ideale parabola della poesia italiana, che si spegne in un “mite e lunghissimo crepuscolo”.

La corrente letteraria del crepuscolarismo apparve e fiorì in Italia all’inizio del Novecento, grazie ad alcuni poeti tra i quali: Guido Gozzano (1883-1916), Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907), Antonia Pozzi (1912-1938) e Corrado Govoni (1884-1965).
Più che un movimento, si manifestò come una similitudine di stile e di intenti. In particolare, i poeti crepuscolari furono accomunati dal totale rifiuto di qualsiasi forma di poesia eroica o sublime.

Il termine “crepuscolarismo” deriva dal titolo di una recensione apparsa su “La Stampa”, il 1° settembre 1910, firmata da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Il critico utilizzò tale definizione per descrivere le poesie di Marino Moretti, Fausto Maria Martini (1886-1931) e Carlo Chiaves (1882-1919). Il termine passò poi a indicare una categoria letteraria.

L’adozione di questo particolare termine voleva sottolineare una situazione di spegnimento. Infatti, in queste poesie prevalgono i toni tenui e smorzati, e l’emozione preponderante è la malinconia, quella “di non aver nulla da dire e da fare“.

I crepuscolari restano fondamentalmente legati alla tradizione classica, pur essendo coscienti del suo decadimento. Rifiutano l’immagine dell’intellettuale protagonista della storia e svalutano la funzione del poeta. Riprendono Pascoli e le sue poesie “delle piccole cose” e il D’annunzio del “Poema paradisiaco”. Inoltre, nei loro versi si avverte l’influsso di Paul Verlaine (1844-1896) e di altri poeti decadenti francesi e fiamminghi.

I versi dei poeti crepuscolari, liberi da qualsiasi ornamento e privi del peso della tradizione, esprimono un costante bisogno di compianto e confessione.
Nelle liriche di questi autori si avverte la nostalgia per i valori tradizionali perduti e una perenne insoddisfazione che ha come unico obiettivo quello di scovare angoli conosciuti e tranquilli in cui trovare rifugio.

I temi tipici del crepuscolarismo sono facilmente rintracciabili in una dichiarazione epistolare del 1904 di Corrado Govoni, uno dei primi poeti di crepuscolari, indirizzata all’amico Gian Pietro Lucini (1867-1914).
Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie”.

Per quanto riguarda la scelta linguistica, i crepuscolari mostrano una piena coerenza con le tematiche trattate. Le loro poesie sono più vicine alla prosa che alla poesia e i versi, pur essendo animati da un ritmo poetico, spezzano il legame con la metrica tradizionale. Tale inclinazione, priva oltretutto di qualsiasi forma aulica e classicistica, apre la strada al verso libero.

I primi testi del crepuscolarismo compaiono tra il 1899 e il 1904, dall’attività di un gruppo romano, operante attorno a Tito Marrone (1882-1967), Corrado Govoni e Sergio Corazzini, e contemporaneamente, di un gruppo torinese che ha come esponente principale Guido Gozzano.
Accanto a questi due gruppi principali ci sono anche alcuni autori, come Fausto Maria Martini, Marino Moretti e solo per un certo periodo, Aldo Palazzeschi (1885-1974).

L’estate in poesia: “Meriggiare pallido e assorto” di Montale

L’estate in poesia Meriggiare pallido e assorto di Montale

Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale fa parte dei miei ricordi scolastici.
La musica delle sue parole mi aveva incantato e continua a incantarmi, ogni volta che alla mente mi sovvengono i suoi versi e mi ritrovo in solitudine a solfeggiarli.

Una poesia che immediatamente mi rimanda all’estate e ai lunghi e assolati pomeriggi della bella stagione è “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale.
Poeta, scrittore, traduttore, giornalista e critico musicale, nato a Genova il 12 ottobre 1896 e morto a Milano, il 12 settembre del 1981, Montale è ritenuto uno tra i massimi poeti italiani del Novecento.

Visse in anni turbolenti, scossi da eventi storici tragici (vide succedersi ben due guerre mondiali), e già nella sua prima raccolta di poesie, “Ossi di seppia”, del 1925, diede voce alle inquietudini del suo tempo e al male di vivere.

Con le raccolte successive, “Occasioni” del 1939 e “La bufera e altro” del 1956, la sua poetica si approfondisce. Invece, nelle ultime raccolte, tra cui “Satura” del 1971 e “Quaderno di quattro anni” del 1977, tutte scritte dopo la morte della moglie, il poeta affronta nuove tematiche e sperimenta nuovi stili.

Meriggiare pallido e assorto fu scritta probabilmente nel 1916 ed è una tra le poesie più significative del primo Montale. I versi del poeta ci trasportano nella sua Liguria e ci ritroviamo immersi in un caldo pomeriggio estivo, assorti pigramente a osservare e ascoltare quanto accade tra un rovente muro d’orto e uno scorcio di mare lontano.

La scena è piena di vita e ha un suo ritmo speciale: quello dettato dai suoni aspri che fanno da pendant all’aridità del paesaggio.
In questa sorta di singolare partitura, i merli “schioccano”, mentre le serpi “frusciano”, forse alla ricerca di un raggio di sole. A impegnarci visivamente poi, ci sono le formiche che si muovono indaffarate nelle fessure della terra e sulle piante, e noi ci ritroviamo a fissare incuriositi le loro fila che si compongono e si sfaldano alla sommità di piccoli cumuli di terra.
Poi, mentre alle orecchie ci giunge il verso aspro delle cicale, ci rendiamo conto che il paesaggio in cui il poeta ci ha condotto è solo una metafora della vita umana, la cui insensatezza e l’impossibilità di sondarne il significato è rappresentato alla perfezione dall’alta muraglia che sulla cima è cosparsa di cocci aguzzi di bottiglia.

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora si intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Grand Tour in Italia: fenomeno di costume per i letterati dell’800

Il Grand Tour in Italia tra bellezze artistiche e meraviglie naturali era un’usanza ottocentesca che ha spinto molti letterati aristocratici a viaggiare per attuare un percorso di formazione.

Da sempre meta di viaggiatori in cerca di storia e di bellezze artistiche, l’Italia ha attirato, in particolare, numerosi letterati stranieri nell’800, quando venire nel nostro Paese significava compiere un viaggio formativo, denominato Grand Tour.

Questo singolare viaggio era appannaggio dei rampolli dell’alta società, di solito inglesi. Gli stranieri consideravano il Grand Tour come parte dell’educazione culturale. E quale migliore formazione si poteva sperare, se non visitando la patria dell’arte.

Durante il viaggio, gli scrittori traducevano nei loro diari o epistolari le impressioni suscitate dal viaggio e successivamente, le trasponevano nei romanzi, dove finivano per costituire un implicito invito ai lettori a recarsi in Italia, il meraviglioso belpaese.

Tra gli scrittori che intrapresero felicemente il Grand Tour possiamo citare: Goethe (1749-1832), Dickens (1812-1870), Forster (1879-1970), George Eliot (1819-1880), Louisa May Alcott (1832-1888) e molti altri che come loro hanno riportato nei loro scritti momenti particolari di vita e impressioni varie, muovendosi dal nord al sud del Paese.

Intraprendere un simile viaggio nell’Ottocento non era impresa facile.
Ci si spostava su scomode carrozze che si destreggiavano su strade sconnesse e persino rischiose. Si affrontavano arrampicate su valli alpine “perduti in contemplazione delle nere rocce, delle cime e dei burroni paurosi, degli spazi di neve fresca, formatisi nei crepacci e nelle vallette, e dei torrenti tumultuosi che rombavano giù, a precipizio, nell’abisso profondo“, ci informa Dickens con dovizia di particolari.

Non ci si deve dunque meravigliare se per portare a buon fine questi Grand Tour a volte ci si impiegava degli anni. Per fortuna, rispetto agli odierni viaggi, c’era il vantaggio, per gli avventurosi turisti della cultura, che il costo della vita in Italia era sicuramente meno dispendioso di quello di altri Paesi.

I visitatori, oltre a prendersi tutto il tempo necessario, sceglievano le mete più ambite: Firenze, Venezia, Roma e Napoli, ma non erano disdegnati neppure i laghi e altre città minori.

Certe città lasciavano il segno su alcuni, mentre non avevano alcun effetto su altri.
Ad esempio, Dickens affermò che Milano, completamente occultata dalla nebbia – tanto da far sparire persino il Duomo – poteva essere tranquillamente scambiata per Bombay, mentre George Eliot rimane colpita dalla Galleria di Brera e dalla Biblioteca Ambrosiana.

A impressionare Oscar Wilde (1854-1900) è invece Firenze, con le sue bellezze artistiche e si rammaricherà molto di doversene andare. Però, a lasciarlo letteralmente di stucco fu Venezia, anche se le gondole nere che solcavano le acque della laguna gli richiamavano dei funesti carri funebri.

Non possiamo ovviamente tralasciare, Goethe, turista d’eccezione, che affrontò il suo Grand Tour in Italia tra il 1786 e il 1788.
Il poeta e scrittore attraversò tutto il Paese, da nord a sud, soppesando a ogni sosta monumenti, chiese e ville, e ammirando al contempo i paesaggi e le bellezze naturali delle piccole città. Inoltre resterà affascinato anche dagli abitanti e dalle particolari usanze, come la raccolta delle olive.
Attratto da Roma, resterà però particolarmente colpito dalla Sicilia, pur criticando la sporcizia e la polvere sulle strade.

I Grand Tour e i successivi resoconti dei viaggiatori fecero da cassa di risonanza e spinsero altri viaggiatori a coprire distanze anche considerevoli, per ammirare il Bel Paese, dando vita a quello che in epoche successive fu definito come turismo.

A intraprendere arditamente il Grand Tour non furono però solo gli uomini. Ci sono state diverse viaggiatrici che, sfidando le convezioni sociali, hanno affrontato gli incomodi del viaggio di formazione.
Una donna che viaggiava, soprattutto da sola e in un paese sconosciuto, non era ben vista, quanto meno non doveva essere una donna troppo rispettabile. Nonostante ciò, una schiera di donne coraggiose ha comunque raggiunto l’Italia e goduto delle bellezze artistiche del nostro Paese. Hanno anche annotato, come i loro colleghi uomini, impressioni, valutazioni e critiche e soprattutto, hanno dimostrato un maggior senso pratico e spirito di adattamento.

Tra le avventurose viaggiatrici citiamo: Madame de Staël (1766-1817), George Eliot che si dimostrerà molto critica e che resterà colpita più dalle bellezze naturali che da quelle artistiche.
Louisa May Alcott invece fece un secondo viaggio in Europa nel 1870, dopo il successo del suo libro “Piccole donne”. Insieme alla sorella e a un’amica giunse in Italia, passando per Milano. Nei suoi appunti di viaggio dirà che il Duomo era simile a un grande dolce di nozze, mentre a Roma, più che dalla città fu affascinata dalla campagna romana.

Il Grand Tour in Italia ha lasciato diversi segni.
Nelle città, visitate da questi turisti speciali, sono presenti varie targhe marmoree che testimoniano questa sorta di pellegrinaggio culturale. Ma soprattutto, la memoria di questi viaggi è viva nelle pagine dei libri, dove, in vario modo, ogni scrittore o scrittrice che ha attraversato l’Italia, ha tradotto la propria esperienza di viaggio, descrivendo luoghi e usanze, e più di un personaggio ha visto la sua prima scintilla di vita in un piccolo villaggio o in una grande città del nostro meraviglioso Paese.

In copertina: James Tissot, “London Visitors” (1874 ca.), olio su tela (dimensioni: 160 x 114 cm), conservato presso il Museo d’arte di Toledo

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #3

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #3

Le vicissitudini di Ulisse sembrano non finire mai e ogni tappa del suo lungo viaggio ci mostra con più chiarezza la sua figura e le sue notevoli capacità.

Dopo il terribile ciclope, Ulisse approda sull’isola di Eolo, uomo benvoluto dagli dèi, che comanda i venti. L’eroe e i suoi compagni godono per un mese della sua ospitalità e Odisseo riceve in dono l’otre dei venti, con una raccomandazione: nessuno dovrà aprirlo. Purtroppo, quando sono ormai vicini a Itaca, i compagni di Odisseo, invidiosi del dono, mentre Ulisse dorme, infrangono la promessa e aprono l’otre, scatenando i venti che li riconducono al largo.

La quinta tappa del viaggio vede i nostri eroi giungere presso i Lestrigoni, giganti mostruosi, quasi quanto i ciclopi. Ulisse per colpa loro perderà alcuni compagni, inoltre, i giganti riusciranno ad affondare ben undici navi della flotta; solo quella di Ulisse riuscirà a mettersi in salvo.

Nella tappa successiva, Ulisse finisce sull’isola di Circe, dea seducente che trasforma i compagni di Odisseo in porci. Solo grazie all’aiuto di Ermes, che dà all’eroe una misteriosa erba, come antidoto alla maledizione, Ulisse riuscirà a evitare di finire come i suoi compagni e poi, costringerà la dea a far tornare alle originarie fattezze i suoi uomini.

Ulisse rimane per un anno sull’isola di Circe e poi, dietro sua indicazione, intraprenderà una nuova prova: un viaggio nell’Ade, il regno dei morti. Qui, incontrerà diverse figure: i compagni uccisi durante la guerra di Troia, sua madre e l’indovino Tiresia che gli preannuncerà un ritorno luttuoso e contrastato.

Tornato nel mondo dei vivi, Ulisse verrà istruito da Circe sulla rotta da seguire e su come affrontare sia le Sirene sia Scilla e Cariddi. Inoltre, lo invita a evitare di toccare le vacche del Sole iperionide.

Alla settima tappa, Ulisse deve vedersela con le insidiose sirene. Come gli ha consigliato Circe, tappa le orecchie dei suoi compagni, mentre lui si fa legare all’albero maestro della nave, per poter udire il loro canto, senza però dover morire come tutti coloro che imprudentemente lo hanno ascoltano. Superato lo scoglio delle sirene, Ulisse procede verso lo stretto di Messina.

Ora, Odisseo deve affrontare Scilla e Cariddi. Purtroppo, l’infausto incontro porta ad altre perdite e sciagure: Scilla mangia diversi uomini, mentre Cariddi risucchia le acque.

Dopo aver affrontato i due mostri, i superstiti approdano sull’isola di Trinacria e Odisseo, pur tentando, non riesce a evitare che i suoi compagni banchettino con le invitanti mucche di Elio. Per questo, dovranno affrontare nove giorni in mare, in mezzo a terribili tempeste scatenate da Giove.

Ulisse riesce a salvarsi anche da questa prova e giunge sull’isola di Ogigia, qui incontra Calipso, una ninfa molto bella e immortale. La giovane si innamora perdutamente di lui e cerca di trattenerlo presso di sé. Dopo sette anni di permanenza presso la ninfa, Ulisse riesce finalmente a ripartire, ma a un passo da Itaca, Poseidone lo fermerà. Odisseo avrà però l’aiuto della dea marina Ino e approderà sull’isola dei Feaci.

Di nuovo naufrago, Ulisse incontra ancora una giovane donna, Nausicaa, figlia del re Alcìnoo, che gli fornirà dei vestiti e gli indicherà come raggiungere la reggia del re dei Feaci. In presenza del re, narrerà tutte le sue peripezie e otterrà una nave per tornare a casa. Il giorno successivo al naufragio, il nostro eroe riparte di nuovo, facendo vela verso Itaca.

Finalmente, Ulisse riesce a mettere piede sulla sua isola. Da qui in poi, sarà Atena a guidare i suoi passi verso una piena riconquista dei suoi poteri e della sua carica.

Inizialmente, l’eroe, sotto le mentite spoglie di un mendicante, si farà ospitare da Eumeo. Poi si rivelerà a questi e a suo figlio Telemaco, prima di recarsi alla reggia, sempre nelle vesti di mendicante.

Quando giunge a destinazione, è in preparazione una gara di arco, voluta da Penelope che ha promesso di diventare sposa di chiunque riesca a scoccare una freccia dall’arco del marito, facendola passare per le fessure di dodici scuri allineate.

I Proci, pretendenti al trono, tentano la sorte, ma nessuno di loro riesce anche solo a tendere l’arco. Il mendicante, schernito dai Proci, chiede a sua volta di fare un tentativo e riesce nell’impresa di tendere l’arco e scoccare la freccia.

A questo punto, aiutato da Eumeo, Filezio e il figlio compie la sua vendetta. I Proci sono disarmati e lui li uccide. Nonostante le affermazioni del figlio e di Euriclea, Penelope però non è convinta che suo marito sia davvero tornato, così mette alla prova lo sconosciuto: gli chiede di spostare il loro talamo nuziale. Si tratta di un tranello che Ulisse aggira facilmente. È stato lui a intagliare in un ulivo ancora in vita il letto nuziale e quindi, sa che non può essere spostato dalla stanza in cui si trova. Penelope finalmente riconosce il marito e lo stringe forte, piangendo.

Per un eroe che ha compiuto così tante imprese ipotizzare una sola morte sembra a dir poco riduttivo e infatti, diversi scrittori si sono cimentati in questo compito: letteratura e miti ci forniscono addirittura cinque versioni diverse del tragico evento.

C’è chi lo vuole morto in battaglia, chi in mare dopo terribili naufragi, chi compiendo una profezia per poter morire in pace, chi di semplice vecchiaia.

Il mito di Ulisse ha interessato in vario modo cinema e televisione. La prima trasposizione cinematografica delle sue esperienze avventurose risale al 1911, per opera di Giuseppe de Liguoro.

Nel 1955, l’eroe approda al grande schermo, interpretato da Kirk Douglas.
Nel 1968, l’Odissea diventa uno sceneggiato televisivo Rai, con la regia di Franco Rossi. Questa trasposizione televisiva del poema, a parte poche eccezioni, riassume in modo completo e fedele la storia raccontata da Omero.
Negli anni successivi furono realizzate altre trasposizioni di vario genere, tra cui varie parodie.

La fama di Ulisse, del suo nome e delle sue mitiche gesta sono giunte persino alle stelle: un cratere di 445 km di diametro su Teti è stato denominato Odisseo.

In copertina: Arnold Böcklin, “Ulisse e Calipso” (1882), olio su mogano, dimensioni 149,8 x 103,5 cm, conservato presso il Kunstmuseum Basel

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #2

Ulisse eroe moderno dalle radici mitologiche 2

Ulisse è un eroe dalla mente pronta e ingegnosa, grazie alla quale, dopo tante peripezie riesce a tornare in Patria, nella sua casa, ai suoi affetti familiari.

Per quanto riguarda le vicende legate al cavallo di Troia ci sono parecchie versioni discordanti che vede Ulisse come artefice del progetto, mentre in altre appare come un usurpatore della felice idea di qualcun altro. Diverse sono anche le ipotesi riguardo al cavallo stesso: in un caso, considerato una macchina bellica al servizio dei Greci per distruggere le mura della città; in un altro, ritenuto dai Troiani un dono di Atena.

Nell’Odissea, Ulisse è il protagonista incontrastato della storia, anche se molte figure, a dir poco singolari, compaiono nella vicenda. Il tema conduttore invece, è il tanto sospirato ritorno a casa dell’eroe che in tutto il suo lungo vagare ha un unico desiderio: tornare agli affetti familiari e alla sua Itaca, dopo ben dieci anni passati a Troia a causa della guerra.

A impedire il ritorno a casa di Ulisse è Poseidone, così, se per tornare a casa devi affrontare il mare, avere contro le ire di chi gestisce il regno delle acque non può portare a nulla di buono.
Infatti, il nostro Odisseo si troverà coinvolto in un’infinità di incidenti e incredibili peripezie e solo dopo altri dieci anni, e grazie all’aiuto della dea Atena, potrà di nuovo toccare il suolo natio.

Come le fatiche di Ercole, anche le tappe che tengono impegnato il nostro eroe sono dodici.
Questo numero è ritenuto il più sacro tra i numeri, insieme al tre e al sette. Esso indica la ricomposizione della totalità originaria, cioè la discesa in terra di un modello cosmico di pienezza e di armonia. Il suo significato indica la conclusione di un ciclo compiuto, inoltre, è il simbolo della prova iniziatica fondamentale, prova che consente di passare da un piano ordinario a un piano superiore, sacro. Esso ha un significato esoterico molto forte, in quanto collegato alle prove fisiche e mistiche che deve compire l’iniziato.

Nei “dodici episodi” in cui si struttura la sua avventura, Ulisse incappa in situazioni di ogni genere, accomunate però da due fattori. Ci sono tappe che possono essere raggruppate tra quelle in cui l’insidia è manifesta (mostruosità, aggressione, morte); altre in cui invece l’insidia è solo latente (un’ospitalità che cela un pericolo, un divieto che non si deve infrangere).

Inoltre, il nostro povero Ulisse – ci sarà un motivo per cui di fronte a ostacoli continui e insormontabili sosteniamo che “si è trattato di un’odissea” – non può coronare il suo sogno di raggiungere Itaca, perché Poseidone gli sferra contro venti furiosi; lo costringe a continui naufragi; lo spinge verso approdi perigliosi.

Vediamo in sintesi le dodici tappe affrontate dal nostro impavido eroe.
Appena partito da Troia, si ferma a Ismaro, terra dei Ciconi. Per fare bottino li attacca, ma risparmia Marone, sacerdote di Apollo, che in cambio gli dà del vino forte e dolcissimo, cruciale per la sortita nella grotta di Polifemo.

La seconda tappa vede Ulisse e i suoi uomini approdare nella terra dei Lotofagi (mangiatori di loto). Essi accolgono benevolmente i nuovi arrivati, ma si rivelano degli ospiti insidiosi: offrono infatti ai compagni di Ulisse il loto, un frutto che fa dimenticare il ritorno. Il nostro eroe, per ricondurli alla ragione, si trova costretto a legarli e a trascinarli di peso sulle navi.

La terza tappa ci conduce dritti dritti nella grotta del ciclope Polifemo.
Ulisse, giunto su un’isola abitata dalle ninfe, decide di spostarsi su un’isola vicina, così prende una nave e là si reca con alcuni compagni. Qui finiscono nella grotta di Polifemo che è fuori a pascolare il suo gregge.
Nella grotta ci sono graticci pieni di formaggi enormi e latte appena munto. I compagni di Odisseo suggeriscono di prendere i formaggi e fuggire, ma Ulisse vuole ricevere i doni dell’ospitalità.
Quando Polifemo torna alla grotta, l’eroe e i suoi compagni scoprono che il loro ospite è davvero orrendo: un gigante che possiede un unico occhio in mezzo alla fronte. Quando si accorge della loro presenza, sta preparando la cena, così prende due compagni di Ulisse e li divora. Poi va a dormire, mentre il nostro eroe studia come tirarsi fuori da questo rognoso impiccio.

All’inizio, pensa di ucciderlo con la spada, ma poi capisce che lui e i suoi compagni resterebbero imprigionati all’interno della grotta, e per loro morire sarebbe solo una questione di tempo, in quanto, pur compiendo sforzi sovrumani, non sarebbero in grado di spostare l’enorme macigno che chiude l’accesso alla grotta.
Allora, Ulisse nota un ramo d’ulivo, gigantesco; ordina ai compagni di tagliarne un pezzo, mentre lui lo appuntisce.
La sera successiva. l’eroe offre al ciclope il vino donatogli da Marone. Polifemo è contento del dono e chiede a Ulisse il suo nome; l’eroe gli dice di chiamarsi “Nessuno” (in greco la parola ha assonanza con il nome di Odisseo). Il ciclope si addormenta, ubriaco; Ulisse e i suoi compagni afferrano l’opportunità: prendono il ramo, rendono la sua punta incandescente e poi, accecano Polifemo.
Il gigante urla di dolore; in suo aiuto accorrono i suoi due fratelli, ma ritornano indietro quando il ciclope dice: “Nessuno, amici, mi uccide con l’inganno e non con la forza“.
Il giorno successivo, Polifemo fa uscire a pascolare le pecore. Per far sì che Ulisse e i suoi uomini non scappino, il gigante stende le mani e tocca il vello delle pecore, ma il nostro eroe e i suoi compagni si legano sotto dei montoni e riescono a uscire dalla grotta illesi.

(prosegue)

In copertina: Giovanni Domenico Tiepolo “Processione del cavallo di Troia” (1760 ca.) dimensioni 67×39 cm (National Gallery)

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #1

Ulisse eroe moderno dalle radici mitologiche 1

Le gesta di Ulisse che tenta disperatamente e attraverso mille peripezie di tornare alla sua amata Itaca fanno ormai parte del nostro immaginario e tuttora, restiamo affascinanti dalla sua astuzia e commossi dalla sua perseveranza.

Ulisse oppure Odisseo, figlio di Anticlea e Laerte, e Re di Itaca, è un personaggio della mitologia greca, un eroe acheo, sposo di Penelope e padre di Telemaco, descritto da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, in quest’ultimo poema compare come protagonista.

Del nome Odisseo sono state ipotizzate varie etimologie. La più comune è “iroso”, che però, non rispecchia in alcun modo il carattere del personaggio, almeno per quello che ne sappiamo leggendo il poema di Omero.
In ogni caso, il nome gli fu imposto dal nonno materno, Autolico, che secondo la sua personale interpretazione significava: “odiato dai nemici“, nemici che si sarebbe fatto per le capacità della sua mente.
Un’altra interpretazione del nome di Odisseo è “il piccolo”, quest’ultima definizione aderisce con l’affermazione fatta dall’autore riguardo alla statura di Odisseo: non altissima.

Il nome Ulisse, invece, gli fu dato dai Romani. Il nostro eroe mitologico è la “personificazione” dell’ingegno, del coraggio, della curiosità e dell’abilità manuale.
Passando in rassegna le sue origini, scopriamo che era pronipote di Ermes, mentre già sappiamo che era il marito di Penelope e il padre di Telemaco.
Se prestiamo orecchio a un’altra tradizione, dovremmo valutare l’ipotesi che il vero padre di Ulisse fosse Sisifo, che lo ebbe da Anticlea, prima che lei diventasse la moglie di Laerte.
Dal canto suo, Ulisse sosteneva di discendere per via paterna addirittura dal re degli dèi olimpi, Giove, in quanto il padre di Laerte, Arcesio, sarebbe stato figlio di Giove.

Nell’Iliade, il personaggio di Ulisse era, a detta di Omero, già piuttosto noto ai lettori e il poeta sembra avere contezza di altre favole sull’eroe dell’Odissea, oltre a quelle da lui narrate, al punto che non può togliere il personaggio dal racconto, nonostante Ulisse non abbia nell’Iliade quella parte essenziale che invece hanno personaggi come Agamennone, Menelao e Achille.
Si ipotizza che Ulisse sia una figura mitica anteriore addirittura alla colonizzazione greca oltre l’Egeo, anche se, più verosimile è l’idea che in origine si trattasse di un dio, un dio solare che scende nell’Ade come il sole che va al tramonto, ma che alla fine riesce a liberarsi, grazie all’astuzia, dai mostri del mondo sotterraneo per risorgere al mattino.

Ulisse è ritratto con grande coerenza nei due poemi di Omero. È un guerriero sagace e robusto, ardito in battaglia, oltre che scaltro e abile d’ingegno.
È un uomo che affronta con grande temerarietà e costanza pericoli e vicissitudini, ed è dotato di una notevole presenza di spirito, che lo spinge a cercare per sé e per gli altri possibili vie di salvezza.
Omero lo rappresenta come un uomo che ama profondamente la patria e la famiglia, e di entrambe avverte un’acuta nostalgia, mentre si dibatte tra mille difficoltà.
È chiaramente un uomo giusto: non mostra crudeltà nei confronti dei nemici ed è fedele verso gli amici. Inoltre, è paterno verso i suoi sudditi di Itaca e mostra amorevolezza nei confronti dei servi fedeli, mentre è inflessibile verso chi tradisce la sua fiducia.

Non tutti forse sanno che Ulisse usò la sua arguzia anche prima di allestire la trappola del cavallo di Troia, e lo fece per evitare di tenere fede al giuramento di andare a Troia.
Il nostro eroe aveva i suoi buoni motivi per essere recalcitrante alle richieste di Agamennone, accompagnato da Menelao e Palamede, che si erano recati da lui per convocarlo.
Il motivo della sua ritrosia era semplice: un oracolo gli aveva preannunciato che se fosse andato a Troia, avrebbe fatto ritorno in patria solo dopo vent’anni e in condizioni di miseria.
Ulisse allora pensò bene di mostrarsi pazzo per evitare l’infausta partenza.
Si fece trovare dai tre venuti a convocarlo con un cappello da contadino in testa, mentre arava un campo con un asino e un bue aggiogati insieme, e lanciando sale alle sue spalle.
Purtroppo per lui, Palamede lo superò in astuzia. Per accertarsi del suo vero stato mentale, tolse Telemaco dalle braccia della madre e lo mise a terra, davanti alle zampe delle bestie aggiogate all’aratro. Ulisse arretrò all’istante, tirando le redini e così, la sua follia pretestuosa fu subito smascherata e l’eroe fu costretto ad arruolarsi nella spedizione.

In copertina: Giuseppe Bottani, particolare del dipinto “Atena rivela Itaca a Ulisse” (1775) Pavia (Pinacoteca Malaspina)

(prosegue)

Il Romanzo, un genere narrativo variegato e affascinante #1

Il Romanzo un genere narrativo variegato e affascinante 1

Il romanzo, un genere letterario che tutti conoscono, ma quanti conoscono la sua struttura o la sua lunga e fortunata storia?

Che cos’è che possiamo racchiudere nel termine romanzo?
Qual è la storia di questo genere letterario?

Il romanzo, innanzitutto, è una forma narrativa scritta che nasce nel Medio Evo.
Come genere si differenzia dagli altri per la maggiore ampiezza e per il carattere fantastico degli argomenti che tratta, distinguendosi così dalle biografie, autobiografie, racconti di viaggi, opere storiche.

Sin dai suoi albori, il romanzo si è distinto da altri generi, come ad esempio, la novella che, in epoca medievale, aveva un carattere realistico. Per rintracciare la netta distinzione che esisteva tra i due si può fare riferimento alla lingua inglese e al differente uso dei due vocaboli: “romance”, per indicare la narrazione fantastica e “novel”, per la narrazione realistica.
Questa distinzione la troviamo solo nella lingua inglese, in tutte le altre lingue non c’è alcuna differenza nell’impiego dei due termini.

Nel corso dei secoli, il romanzo ha sempre avuto una certa fortuna che lo ha condotto a essere una tra le forme narrative più diffuse. La sua notorietà è legata in particolare al fatto che offriva e offre ai lettori sia l’opportunità di evadere dal grigiore della vita quotidiana, vivendo le avventure dei personaggi e degli eroi delle storie, sia di vedere la loro realtà riflessa nelle pagine scritte e, attraverso questa, spingersi ad analizzare e interpretare la propria vita.

Il romanzo ebbe una diffusione maggiore a cominciare dal Settecento, trovando condizioni più favorevoli, quali: la scolarizzazione che comportò una maggiore diffusione della cultura; l’industrializzazione e il corrispondente miglioramento del tenore di vita, che consentiva di avere più tempo per leggere; lo sviluppo dell’editoria; il costo ridotto delle pubblicazioni.

Nel tempo, l’incremento del numero dei lettori condusse a un proficuo scambio tra loro e gli scrittori di romanzi, ciò portò a profondi cambiamenti sia nel contenuto sia nella struttura di questo genere narrativo.
Tali mutamenti sono particolarmente evidenti tra Ottocento e Novecento e hanno dato il via a una notevole attività critica che ha analizzato il romanzo in base a varie chiavi di lettura: sociologica, semiologico-strutturale, storicistica, stilistica, estetica, ecc.

L’opera d’arte e quindi, anche il romanzo, almeno secondo la semiotica (scienza che studia i vari sistemi di segni elaborati dagli uomini per comunicare tra loro), è una forma di messaggio indirizzato da un mittente, lo scrittore, a un destinatario, il lettore.

Il rapporto tra scrittore e lettore è fondato sulla condivisione di un discorso, di un intreccio, in cui sono indicati i motivi della storia, secondo l’ordine scelto dall’autore, che può essere impostato in base a una successione logico-cronologica personale, ad esempio: i fatti possono essere narrati a ritroso oppure muovendosi avanti e indietro nel tempo, sfruttando il cosiddetto flashback.

Per quanto riguarda la storia, solitamente, in un romanzo sono presenti più episodi; a quello principale si accostano altre vicende e lo scrittore può utilizzare varie tecniche per inserire nell’intreccio episodi secondari.
Ad esempio, può utilizzare la concatenazione. In questo caso, le storie sono narrate dai vari personaggi, in ordine di successione oppure, lo scrittore può avvalersi dell’alternanza. In questo secondo caso, due o più storie sono narrate contemporaneamente, interrompendo ora l’una ora l’altra.
Un’altra tecnica è quella dell’incastro: una storia è inserita all’interno di un’altra. Per concludere, c’è poi anche la schidionata o infilzamento, quando un protagonista compare in vari filoni del racconto o gli episodi si intrecciano con i casi accaduti ai personaggi principali.

Robin Hood: un fuorilegge che difendeva i poveri

Robin Hood un fuorilegge che difendeva i poveri

Robin Hood, l’abile arciere difensore dei poveri, è un personaggio che tra storia e leggenda ha attraversato i secoli, e dalla letteratura al cinema ha lasciato un segno indelebile.

Robin Hood (“Robyn Hode” in manoscritti più antichi), eroe popolare del Regno Unito, che oscilla tra storia e leggenda, ha ispirato alcune opere della letteratura britannica e nell’immaginario collettivo moderno è assurto al ruolo del generoso giustiziere che ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Si ritiene che Robin Hood sia realmente esistito e forse, era un bandito o un nobile sassone decaduto alla cui figura sono state associate preesistenti leggende di un dio della foresta.
Per quanto riguarda la sua zona d’azione, sappiamo che lui e la sua banda erano attivi nell’area della foresta di Sherwood e nella Contea di Nottingham.

Alcuni storici ritengono fosse originario di Loxlley nello Yorkshire, mentre altri sostengono fosse di Wakefield.
Discordanti sono anche le supposizioni sulle possibili date di nascita di Robin Hood: c’è chi propende per un intervallo compreso tra il 1285 e il 1295 e chi, invece, ritiene sia deceduto nel 1247 circa.

La versione più nota delle vicende di Robin Hood fa di lui un nobile, un abile arciere, devoto e fedele a Riccardo Cuor di Leone (1157 – 1199), il cui trono era stato usurpato dal fratello, Giovanni Senzaterra (1166 – 1216). A causa della sua fedeltà al legittimo sovrano d’Inghilterra, Robin Hood fu privato del titolo di cavaliere e anche dei possedimenti che gli spettavano di diritto, così decise di ritirarsi in una foresta e, insieme a una banda di fuorilegge, compiva azioni di guerriglia contro l’autorità e depredava i ricchi, per favorire i poveri, fino a quando non riuscì a spodestare Giovanni Senzaterra.

Non sono del tutto chiare le origini della leggenda di Robin Hood e le testimonianze storiche sono confuse. Ad esempio, è stata rinvenuta una pergamena del 1225, della Corte d’Assise dello Yorkshire, che parla di un “Robin Hood fuggitivo (fuorilegge)“, mentre al 1248, risale un testamento che fa riferimento a “Il Conte Robin di Huntingdon“, purtroppo nessuno di questi documenti fornisce un’identificazione storica certa di Robin Hood.

La prima testimonianza dell’esistenza di un eroe del popolo risale al 1377, è un poema dal titolo “Piers Plowman”, nel quale il chierico londinese William Langland scrive: “Non conosco bene le Preghiere di Nostro Signore, ma conosco le ballate di Robin Hood”, questo ci fa capire che la figura del brigante era già piuttosto nota all’epoca.

Trent’anni dopo troviamo un’altra citazione, in un manoscritto del 1410, custodito nella cattedrale di Lincoln. In tale nota si dice: “Robin Hood in Sherwood stood” (Robin Hood si trovava a Sherwood), un modo di dire piuttosto diffuso a quel tempo, per indicare qualcosa di ovvio.

Per avere un resoconto completo della leggenda del difensore dei poveri, dobbiamo attendere fino al 1510, quando compare il racconto: “Le gesta di Robin Hood”.
Nei secoli la storia dell’eroe di Sherwood si è notevolmente modificata, prendendo sempre più le distanze dalla verità storica e avvicinandosi maggiormente alla leggenda, quella di un eroe che è innanzitutto un patriota, perché sosteneva il legittimo sovrano; era un difensore dei più deboli e meno abbienti; era un non violento perché non usava mai le maniere forti quando rapinava i potenti.

Comprendere quanto ci sia di vero e quanto di inventato su Robin Hood non è semplice, perché la sua storia è stata ampliata e arricchita negli anni, non solo di dettagli, ma anche di personaggi.
Inoltre, a complicare le cose, nel corso del XX secolo, il cinema ha continuato ad aggiungere personaggi alla saga e persino nuove situazioni, proprio come era avvenuto in precedenza, quando la storia era tramandata oralmente e anche successivamente, quando si diffuse grazie alle versioni stampate.

Le vicende di Robin Hood si collocano tra la morte di re Enrico II (1133 – 1189) e l’inizio del regno di re Edoardo III (1312 – 1377). La saga, invece, si svolge tra i secoli XII e XIII, durante il regno di re Giovanni d’Inghilterra, cioè tra il 1199 ed il 1216. In questo periodo ci furono conflitti senza fine che erano finanziati con tasse esorbitanti, al punto che i baroni si ribellarono al re e lo costrinsero a firmare la “Magna Charta Libertatum”, per limitare i suoi poteri e aumentare i loro.
Alcuni storici credono di ravvisare nei baroni ribelli lo stesso Robin Hood e i suoi adepti.

Un ulteriore ostacolo nella ricerca del personaggio reale cui fa riferimento la saga è legato al nome: “Robert” (da cui deriva “Robin”) è sempre stato un nome popolare, mentre il cognome “Hood” e le sue varianti erano anch’essi piuttosto utilizzati all’epoca.
Inoltre, le prime ballate che sono arrivate fino a noi non forniscono alcuna informazione sulle origini del personaggio e neppure cenni sul contesto storico. Da esse traiamo solo la misera conclusione che era un furfante, attivo tra Sherwood e Barnsdale. E sappiamo anche della notevole fortuna incontrata tra il XII ed il XIV secolo dalla saga che lo riguarda: molti briganti si facevano chiamare “Robin Hood”.

Il brigantaggio fu una conseguenza delle tasse esorbitanti che Giovanni senzaterra impose ai suoi sudditi, molti dei quali furono ridotti in povertà e costretti per sopravvivere a darsi alla ruberia e al brigantaggio. Inoltre, peggiorando ancora di più la situazione, il sovrano emanò anche l’impopolare “Legge della Foresta” che consentiva solo alla corte reale di accedere alle vaste distese di territori di caccia e di legname da ardere, e le punizioni per chi trasgrediva erano spietate.

Tornando alle incongruenze tra storia e fantasia popolare, anche l’ambientazione della saga non coincide con la realtà. Infatti, con una buona dose di certezza si può sfatare l’idea che l’eroe e la sua banda si nascondessero nella Foresta di Sherwood, in quanto, anche se nel Medioevo l’estensione boschiva era maggiore di quella attuale, di certo non avrebbe consentito a dei ribelli di scampare a eventuali ricerche da parte delle autorità e, cosa ancora più certa, la quercia nota come “Major Oak”, non offriva a Robin Hood e ai suoi seguaci di radunarsi sotto le sue fronde, dal momento che l’albero ha solo otto secoli, per cui, quando il nostro eroe imperversava in quei luoghi, sarebbe stato solo un esile fuscello.

Un altro mistero è legato alla morte di Robin Hood.
La leggenda più popolare afferma che morì presso l’antica canonica di Kirklees, in seguito a un agguato delle autorità, favorito dal tradimento di un membro della banda. Robin moribondo, passò le consegne a Little John e gli chiese di seppellirlo nel luogo in cui si sarebbe conficcata nel terreno l’ultima freccia scoccata dal suo arco.

A 550 metri dalla finestra della sua presunta camera mortuaria c’è in effetti un’antica tomba e sulla lapide c’è inciso che essa si trova nel punto esatto in cui la freccia aveva raggiunto il terreno. Secondo l’iscrizione la data presunta della morte di Robin Hood sarebbe il 21 dicembre 1247. La tomba però è della seconda metà del Settecento ed è solo un cenotafio, cioè non sono stati rinvenuti resti umani ivi sepolti.

Sono stati fatti molti paralleli tra il personaggio leggendario e personaggi realmente esistiti.
Prendendo come riferimento sia l’epoca in cui pare sia vissuto Robin Hood sia le somiglianze con il suo nome, sono stati individuati diversi personaggi: Sir Robert Fitz Ooth, conte di Huntingdon (1160 – 1247); Robert de Kyme (1210 – 1285), condannato come fuorilegge e poi amnistiato); Robert Hood (1290 – 1347); Robert Foliot (1110 – 1165); Robert Hod, grassatore sulla cui testa, nel 1226, c’era una cospicua taglia.

Ci sono anche degli studiosi che affermano che la figura di Robin Hood derivi da miti celtici. Secondo tale interpretazione l’eroe sarebbe ricollegabile a un nume dei boschi, venerato nella festa di Calendimaggio e il cui culto risalirebbe alla Preistoria.
Altri ancora, lo identificano con Robin Goodfellow, una divinità dei boschi, successivamente tradotta in semplice folletto e resa famosa, a distanza di secoli, da William Shakespeare (1564 – 1616) nel “Sogno di una notte di mezza estate”.

In ambito letterario, la prima apparizione di Robin Hood la troviamo nel “Piers Plowman”, un manoscritto di William Langland (1332 – 1386) del 1377.
Nel 1420 circa, invece, compare nella “Scottish Chronicle” di Wynton.
Per avere poi delle versioni stampate delle ballate a lui dedicate dobbiamo attendere il Cinquecento e in esse lo troviamo rappresentato come un mercante o un contadino. Solo più avanti sarà descritto come un nobiluomo: Earl di Huntington, Robert di Loksley o Robert Fitz Ooth.
Anche il suo amore per Lady Marian (o Marion) risale a questo periodo e probabilmente si può collegare al dramma pastorale francese del 1280: “Jeu de Robin et Marion”.

Drammi, canzoni, giochi e a seguire romanzi, musical, film e serie televisive hanno ripreso la storia di Robin Hood che, nonostante le numerose manipolazioni, anche di natura ideologica, ha conservato intatto tutto il suo fascino.