Grand Tour in Italia: fenomeno di costume per i letterati dell’800

Il Grand Tour in Italia tra bellezze artistiche e meraviglie naturali era un’usanza ottocentesca che ha spinto molti letterati aristocratici a viaggiare per attuare un percorso di formazione.

Da sempre meta di viaggiatori in cerca di storia e di bellezze artistiche, l’Italia ha attirato, in particolare, numerosi letterati stranieri nell’800, quando venire nel nostro Paese significava compiere un viaggio formativo, denominato Grand Tour.

Questo singolare viaggio era appannaggio dei rampolli dell’alta società, di solito inglesi. Gli stranieri consideravano il Grand Tour come parte dell’educazione culturale. E quale migliore formazione si poteva sperare, se non visitando la patria dell’arte.

Durante il viaggio, gli scrittori traducevano nei loro diari o epistolari le impressioni suscitate dal viaggio e successivamente, le trasponevano nei romanzi, dove finivano per costituire un implicito invito ai lettori a recarsi in Italia, il meraviglioso belpaese.

Tra gli scrittori che intrapresero felicemente il Grand Tour possiamo citare: Goethe (1749-1832), Dickens (1812-1870), Forster (1879-1970), George Eliot (1819-1880), Louisa May Alcott (1832-1888) e molti altri che come loro hanno riportato nei loro scritti momenti particolari di vita e impressioni varie, muovendosi dal nord al sud del Paese.

Intraprendere un simile viaggio nell’Ottocento non era impresa facile.
Ci si spostava su scomode carrozze che si destreggiavano su strade sconnesse e persino rischiose. Si affrontavano arrampicate su valli alpine “perduti in contemplazione delle nere rocce, delle cime e dei burroni paurosi, degli spazi di neve fresca, formatisi nei crepacci e nelle vallette, e dei torrenti tumultuosi che rombavano giù, a precipizio, nell’abisso profondo“, ci informa Dickens con dovizia di particolari.

Non ci si deve dunque meravigliare se per portare a buon fine questi Grand Tour a volte ci si impiegava degli anni. Per fortuna, rispetto agli odierni viaggi, c’era il vantaggio, per gli avventurosi turisti della cultura, che il costo della vita in Italia era sicuramente meno dispendioso di quello di altri Paesi.

I visitatori, oltre a prendersi tutto il tempo necessario, sceglievano le mete più ambite: Firenze, Venezia, Roma e Napoli, ma non erano disdegnati neppure i laghi e altre città minori.

Certe città lasciavano il segno su alcuni, mentre non avevano alcun effetto su altri.
Ad esempio, Dickens affermò che Milano, completamente occultata dalla nebbia – tanto da far sparire persino il Duomo – poteva essere tranquillamente scambiata per Bombay, mentre George Eliot rimane colpita dalla Galleria di Brera e dalla Biblioteca Ambrosiana.

A impressionare Oscar Wilde (1854-1900) è invece Firenze, con le sue bellezze artistiche e si rammaricherà molto di doversene andare. Però, a lasciarlo letteralmente di stucco fu Venezia, anche se le gondole nere che solcavano le acque della laguna gli richiamavano dei funesti carri funebri.

Non possiamo ovviamente tralasciare, Goethe, turista d’eccezione, che affrontò il suo Grand Tour in Italia tra il 1786 e il 1788.
Il poeta e scrittore attraversò tutto il Paese, da nord a sud, soppesando a ogni sosta monumenti, chiese e ville, e ammirando al contempo i paesaggi e le bellezze naturali delle piccole città. Inoltre resterà affascinato anche dagli abitanti e dalle particolari usanze, come la raccolta delle olive.
Attratto da Roma, resterà però particolarmente colpito dalla Sicilia, pur criticando la sporcizia e la polvere sulle strade.

I Grand Tour e i successivi resoconti dei viaggiatori fecero da cassa di risonanza e spinsero altri viaggiatori a coprire distanze anche considerevoli, per ammirare il Bel Paese, dando vita a quello che in epoche successive fu definito come turismo.

A intraprendere arditamente il Grand Tour non furono però solo gli uomini. Ci sono state diverse viaggiatrici che, sfidando le convezioni sociali, hanno affrontato gli incomodi del viaggio di formazione.
Una donna che viaggiava, soprattutto da sola e in un paese sconosciuto, non era ben vista, quanto meno non doveva essere una donna troppo rispettabile. Nonostante ciò, una schiera di donne coraggiose ha comunque raggiunto l’Italia e goduto delle bellezze artistiche del nostro Paese. Hanno anche annotato, come i loro colleghi uomini, impressioni, valutazioni e critiche e soprattutto, hanno dimostrato un maggior senso pratico e spirito di adattamento.

Tra le avventurose viaggiatrici citiamo: Madame de Staël (1766-1817), George Eliot che si dimostrerà molto critica e che resterà colpita più dalle bellezze naturali che da quelle artistiche.
Louisa May Alcott invece fece un secondo viaggio in Europa nel 1870, dopo il successo del suo libro “Piccole donne”. Insieme alla sorella e a un’amica giunse in Italia, passando per Milano. Nei suoi appunti di viaggio dirà che il Duomo era simile a un grande dolce di nozze, mentre a Roma, più che dalla città fu affascinata dalla campagna romana.

Il Grand Tour in Italia ha lasciato diversi segni.
Nelle città, visitate da questi turisti speciali, sono presenti varie targhe marmoree che testimoniano questa sorta di pellegrinaggio culturale. Ma soprattutto, la memoria di questi viaggi è viva nelle pagine dei libri, dove, in vario modo, ogni scrittore o scrittrice che ha attraversato l’Italia, ha tradotto la propria esperienza di viaggio, descrivendo luoghi e usanze, e più di un personaggio ha visto la sua prima scintilla di vita in un piccolo villaggio o in una grande città del nostro meraviglioso Paese.

In copertina: James Tissot, “London Visitors” (1874 ca.), olio su tela (dimensioni: 160 x 114 cm), conservato presso il Museo d’arte di Toledo

Conrad, “Cuore di tenebra”: viaggio nell’oscurità dell’animo umano

Conrad Cuore di tenebra viaggio nell’oscurità dell’animo umano

In Cuore di tenebra, Conrad ci conduce nell’Africa più profonda, in un viaggio avventuroso e oscuro, metafora di una discesa negli abissi insondabili dell’animo umano.

In “Heart of Darkness” (Cuore di tenebra), lo scrittore e navigatore polacco naturalizzato britannico, Joseph Conrad (Berdyčiv, 3 dicembre 1857 – Bishopsbourne, 3 agosto 1924), racconta la storia del viaggio compiuto da Charles Marlow, narratore del suo racconto, per risalire il fiume Congo, nel Libero Stato del Congo, al centro dell’Africa.

La storia è concepita da Conrad come il resoconto fatto da Marlow a un gruppo di amici di una sua singolare avventura, vissuta a bordo della sua imbarcazione, la Nellie, che al momento è all’ancora, a valle di Londra, in un’ansa del fiume Tamigi.

La particolare ambientazione scelta da Conrad serve da cornice narrativa, per raccontare un’ossessione, quella del narratore verso il commerciante di avorio Kurtz. Al contempo, gli permette anche di fare un parallelismo tra Londra e l’Africa, accomunate secondo lui dalla medesima oscurità. Inoltre, il suo racconto ci fa riflettere sul fatto che esiste ben poca differenza tra i popoli definiti civilizzati e quelli ritenuti selvaggi, e l’autore, tra le righe della sua storia, si prende anche la libertà di avanzare questioni polemiche sull’imperialismo e sul razzismo.

Inizialmente, la storia fu stampata in tre puntate e comparve nei numeri di febbraio, marzo e aprile del 1899, Vol. 165, della scozzese “Blackwood’s Magazine”, al fine di celebrare la millesima edizione della rivista. Nel 1902, invece, comparve in volume, nella raccolta “Youth, a Narrative and Two Other Stories” (Gioventù e altri due racconti).

Il racconto di Conrad prende il via di sera, quando i cinque membri dell’equipaggio della Nellie stanno aspettando la marea per dirigersi al largo. Uno di loro, Marlow, un maturo marinaio, prende la parola e inizia a raccontare di un viaggio fatto molti anni prima, inseguendo il fortissimo desiderio di conoscere l’Africa nera.

L’attrazione per questo continente ebbe inizio quando il narratore vide nella vetrina di un negozio una carta geografica. Osservandola, fu colpito dal percorso di un grande fiume “somigliante a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare […] la coda perduta nelle profondità del territorio”.
L’aspirazione di Marlow diverrà realtà e l’uomo affronterà proprio l’agognato viaggio lungo il fiume Congo, a bordo di uno sgangherato vaporetto.

Il suo itinerario dalla costa al centro, al luogo nel quale la coda del serpente si perde, sarà per Marlow una sorta di discesa in un’oscurità profonda, di certo più cupa e tenebrosa dell’oscurità che cinge il Tamigi, dove almeno le luci dei fanali consentono di vedere le altre navi transitare e anche il porto, pur se avvolto nella nebbia. La Nellie invece si addentrerà in un paesaggio del tutto sconosciuto.

Marlow giungerà in un primo tempo alla sede della Compagnia – in pratica un cumulo di baracche – per la quale sta lavorando, che è interessata al commercio di avorio.
Il luogo in cui il narratore e il suo equipaggio approdano è inospitale e male organizzato, oltretutto, è gestito da personaggi equivoci.

Nel racconto, il male, rappresentato da vari delitti, si manifesta lungo il percorso, nelle varie stazioni toccate dall’imbarcazione di Marlow e assume la forma di un mistero indecifrabile.
Su questo sfondo oscuro si staglia la figura enigmatica di Kurtz, uomo bianco invidiato da tutti, perché è il solo capace di procurare notevoli e costanti quantità di prezioso avorio.

Attorno alla mitica figura di Kurtz esistono molte leggende maligne che si intrecciano fra loro; all’ombra di questi foschi racconti, Marlow inizia il suo viaggio verso la sua vera destinazione, a bordo di un rattoppato battello a vapore, in compagnia di altri coloni e di indigeni cannibali. Il luogo verso cui sono diretti si trova all’interno dell’ingarbugliata e malsana foresta pluviale e si può raggiungere solo via fiume.

Durante la notte, accompagnato dal profilo delle rupi illuminate dalla Luna e dal misterioso suono cupo di tamburi, il battello risale con grande fatica il fiume. I lettori si ritrovano catapultati in una sorta di discesa agli Inferi, in un tempo e in uno spazio remoti.

Arrivato alla sua meta, il narratore scopre che la base di Kurtz è scena di atroci avvenimenti.
Innanzitutto, i membri dell’equipaggio si dovranno scontrare con l’ostilità primordiale degli indigeni che ritengono Kurtz una sorta di divinità. L’uomo bianco li ha soggiogati con il suo aspetto, con la sua determinazione feroce e, in particolare, con la sua voce che incute in loro venerazione, anche se Kurtz è molto malato e quasi in fin di vita.

Lo stesso Marlow resta affascinato da quest’uomo singolare, fascino di cui non sa darsi una spiegazione logica. Qualunque sentimento o idea il narratore nutra per Kurtz, in ogni caso, la sola decisione possibile per lui al momento è quella di catturarlo, il che sarà possibile, anche se con una certa difficoltà.
Durante il viaggio di ritorno, Kurtz muore. Prima di spirare pronuncia due parole: “L’Orrore! L’Orrore!”, e dà a Marlow un pacco che contiene delle lettere e la foto di una giovane donna.

Tornato a Bruxelles, il narratore va dalla vedova di Kurtz, che in realtà, è stata solo la sua fidanzata. L’uomo però, non se la sente di raccontare alla donna, che nutre un forte rimpianto per Kurtz, la vita malvagia che lui ha condotto in Africa, così le mente, e le dice che le ultime parole del suo amato sono state per lei.

In questo racconto si avverte con forza lo stile di Conrad e delle sue suggestioni.
Leggendo le sue parole, la giungla, custode di un oscuro mistero, sembra prendere vita, mentre la figura selvaggia di Kurtz rifulge di un potere quasi ipnotico e a tratti, pur nella sua crudeltà, ispira un senso di pietà.

Le storie narrate in Cuore di tenebra si ispirano a un viaggio fatto dall’autore nel 1890, a bordo del vaporetto “Roi des Belges”, lungo il fiume Congo. I personaggi, anche essi sono costruiti a partire da figure realmente esistite e incontrate durante tale viaggio.
È anche probabile che, Kurtz sia la raffigurazione letteraria di un agente della Compagnia di nome Klein, morto sul vaporetto. Per lui, Conrad ha fatto riferimento anche da altri avventurieri, incrociati sempre durante il medesimo viaggio.

In copertina: Henri Rousseau, “L’incantatrice di serpenti” (1907), Museo d’Orsay di Parigi

Arsenio Lupin: il popolare ladro trasformista dalle buone maniere

Arsenio Lupin il popolare ladro trasformista dalle buone maniere

Arsenio Lupin è un altro singolare eroe uscito dalle pagine della letteratura. Tra giallo e avventura, Leblanc, il suo autore, ci racconta le gesta di un ladro gentiluomo che commette furti con raffinatezza ed eleganza.

Arsenio Lupin (Arsène Lupin), personaggio immaginario, scaturito dalla fantasia di Maurice Marie Émile Leblanc (Rouen, 11 dicembre 1864 – Perpignano, 6 novembre 1941; scrittore francese), fa parte della schiera dei criminali che godono del favore del pubblico.
Vero artista del furto e ladro gentiluomo possiede uno straordinario talento per i travestimenti che gli consentono di camuffarsi e assumere molteplici identità, per commettere i suoi crimini, ma anche per venire a capo di enigmi criminali.

Lupin è uno sportivo, nonché un combattente esperto. Abile e astuto è anche dotato di una natura infantile, affascinante e a volte beffarda. È avvolto da un alone di mistero e possiede un carattere tormentato, tutte caratteristiche che hanno contribuito a renderlo molto popolare.

Nelle pagine di Leblanc emergono con chiarezza anche altre caratteristiche del personaggio, come le sue idee politiche che coincidono con quelle del suo autore e mutano con il passare degli anni: simpatie anarchiche nei primi romanzi e deciso patriottismo durante la Grande Guerra.

Arsenio Lupin appare per la prima volta nel racconto “L’Arrestation d’Arsène Lupin”, pubblicato nel luglio 1905 nella rivista “Je sais tout”. Maurice Leblanc incluse questo racconto nella raccolta “Arsène Lupin, ladro gentiluomo”, che fu pubblicata lo stesso anno.

Il notevole successo riscosso dal personaggio presso i lettori garantì un lavoro continuativo al suo autore dalla prima uscita nel 1905 sino al 1941, anno in cui Leblanc morì.
Le avventure dell’affascinante ladro sono racchiuse in ben diciotto romanzi, trentanove racconti e cinque opere teatrali.
La crescente notorietà di Lupin anche all’estero vide le sue avventure finire, in America, sul grande schermo; in Giappone, sulle strisce di famosi manga.

La popolarità raggiunta dal raffinato ladro francese ha visto persino nascere un neologismo a lui dedicato: “lupinologia”, termine che designa lo studio delle avventure di Lupin da parte degli ammiratori dei romanzi di Maurice Leblanc, sull’esempio della “holmesologia”, termine che in questo caso fa riferimento all’altrettanto famoso personaggio uscito dalla penna dello scrittore e drammaturgo scozzese Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859 – Crowborough, 7 luglio 1930).

Gran parte delle storie che compongono il ciclo di “Lupin” costituiscono un insieme coerente, dove emergono date ed eventi relativi alla vita del protagonista, che consentono di tracciare dei riferimenti con altre storie, ma nelle opere di Leblanc esistono contraddizioni che portano a concludere che anche le cronologie più complete si discostano su vari punti, perciò non è possibile fissare una cronologia rigorosa e definitiva.

Se la cronologia è incerta, abbiamo almeno delle indicazioni sulla genealogia di Arsenio Lupin. Il suo primo antenato noto è il suo bisnonno: un generale dell’Impero, che prese parte alla battaglia di Montmirail (11 febbraio 1814), dove le armate di Napoleone I vinsero contro le truppe russe del generale Osten-Sacken e i prussiani del generale Johann Yorck.

Arsenio Lupin nacque nel 1874, probabilmente nel Pays de Caux (regione naturale della Normandia appartenente al bacino parigino; è un altopiano delimitato a sud dalla Senna, a ovest e a nord dalle falesie della Côte d’Albâtre e a est dalle alture che dominano le valli dei fiumi Varenne e Austreberthe. Il suo territorio occupa l’intera parte occidentale del dipartimento Seine-Maritime), da Henriette d’Andrésy e Théophraste Lupin.
Il matrimonio tra i due non fu ben accolto dalla famiglia aristocratica di lei, perché Théophraste era un uomo comune, privo di un patrimonio, che di professione faceva l’insegnante di ginnastica, scherma e pugilato.

A causa delle sue particolari origini, Arsenio Lupin visse sempre in una sorta di curiosa ambivalenza: uomo del popolo, per parte di padre; aristocratico per lato materno. Tale ambivalenza è un leitmotiv di tutte le sue avventure.

L’idillio fra Henriette e Théophraste comunque non durò a lungo: la donna ripudiò il marito, appena scoprì che era un truffatore. L’uomo sarà poi imprigionato negli Stati Uniti, dove sembra sia anche deceduto.

Nel 1880, Arsenio vive con sua madre a Parigi. La donna, rifiutata dai genitori, indignati per il suo matrimonio, fu accolta in casa di un lontano cugino, il duca di Dreux-Soubise, come serva di sua moglie.
All’età di soli sei anni, Lupin commette proprio in questa casa il suo primo furto: sottrae la preziosa collana della regina di Dreux-Soubise. A essere sospettata del furto è però sua madre, per questo entrambi saranno cacciati di casa e costretti a rifugiarsi in Normandia; sei anni dopo, Henriette morirà, lasciando suo figlio orfano a soli 12 anni.

Per André-François Ruaud (1963; scrittore, saggista, antologista ed editore francese), Théophraste, il padre di Arsenio non è morto, vive ancora in Francia e controlla suo figlio. Sarebbe lui la mente del furto della collana della regina, e successivamente, sarà lui a consentire al figlio di studiare.

In effetti, Arsenio studierà parecchio. La sua preparazione copre vari rami dello scibile: studi classici, poi medicina e legge, e infine, una formazione alle Beaux-Arts. Fu anche attore e insegnante di lotta giapponese; si interessò alla prestidigitazione e per sei mesi lavorò anche con un illusionista.

Attività furfantesca e relazioni amorose si intrecciano nel suo percorso esistenziale, mentre, con il passare degli anni, la sua fama di abile scassinatore lo farà conoscere al grande pubblico che segue le sue imprese sui giornali.
Nel corso delle sue avventure, assistiamo anche a una graduale trasformazione: Lupin lascia la professione di ladro e scassinatore per dedicarsi a quella di investigatore, pur commettendo qualche furto di passaggio.

Smesso del tutto di pensare ai furti, Lupin finirà per imborghesirsi: si ritirerà in campagna con sua moglie, a coltivare tranquillamente i suoi fiori e a godersi la sua ricchezza.
Tornerà sul campo solo per fermare le azioni di un usurpatore che firma i suoi crimini con il suo nome e poi, per aiutare giovani in difficoltà.

Lupin vive le sue mirabolanti avventure in generale in Francia, durante la Belle Époque e i ruggenti anni Venti. Il mondo in cui si muove è quello della borghesia dell’inizio del Novecento, in una fase in cui è di norma, per chi può permetterselo, la seconda casa, i viaggi in automobile e la società è sempre più orientata a ciò che pubblicizzano i media e avviata al consumismo.

Lupin ha una doppia vita: mondana e rispettabile di giorno, fatta di attività illecite di notte.
Tendenzialmente, lo si può descrivere come un ladro dalle buone maniere, galante e rispettoso delle donne; un non violento che ripudia l’omicidio. Si può dire che i suoi crimini rispecchiano la sua posizione sociale, sono cioè attuati con eleganza e raffinatezza.

Il personaggio di Leblanc si contraddistingue per una profonda moralità. Infatti, i suoi furti spesso colpiscono individui che si sono arricchiti in modo illegale o immorale. Ama compiere furti dalla spiccata teatralità, con il desiderio narcisista di “impressionare la galleria” e sfida apertamente polizia e investigatori. Gli unici avversari che riescono a tenergli testa sono curiosamente sempre donne.

La fama di Lupin è concentrata in particolare sulla sua abilità nel travestirsi e sulla sua capacità di rubare le identità. È presentato come “l’uomo dai mille travestimenti” e per una buona ragione: è in grado di usare tutti i criteri fisici e sociali per trasformarsi, come età, classe sociale, professione, nazionalità.
Prestidigitazione e illusionismo sono arti che conosce bene, cui ha associato lo studio della dermatologia all’ospedale Saint-Louis, che gli è risultato utile per modificare l’aspetto del suo viso, anche se, essendo stato anche uomo di teatro, preferisce di gran lunga impiegare accurati make-up.

In ogni caso, lo scopo di Lupin è essere irriconoscibile in ogni circostanza.
Lo stesso Leblanc ammette la sua difficoltà ad attribuirgli un volto preciso: “Venti volte ho visto Arsène Lupin, e venti volte mi è apparso un essere diverso… o meglio, lo stesso essere di cui venti specchi mi avrebbero restituito altrettante immagini distorte, ognuna con i suoi occhi particolari, la sua forma particolare di figura, il suo gesto, la sua silhouette e il suo carattere“.

Va anche ricordato che, il nome di Lupin è legato in particolare alla cittadina francese di Étretat, in Normandia, al centro di diverse sue avventure, tra cui “L’ago cavo” che ha contribuito al mito che circonda il luogo.

Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” e il personaggio dell’Innominato

Alessandro Manzoni, "I promessi sposi" e il personaggio dell’Innominato

Il 7 marzo del 1795 nasceva Alessandro Manzoni, uno dei maggiori romanzieri italiani, noto soprattutto per “I promessi sposi”, opera che gettò le basi del romanzo moderno.
I personaggi manzoniani sono così reali che fanno pensare di poterli incontrarli nella quotidianità; uno di loro resta saldo nei miei ricordi: l’Innominato.

Ho letto “I promessi sposi” di Manzoni molti anni fa, fu una lettura scolastica, imposta dal programma. Ricordo a grandi linee la trama del romanzo e la simpatia/antipatia che ho nutrito per alcuni dei personaggi del libro. Uno, però, ha colpito la mia immaginazione, forse per il timore che incuteva e il mistero che lo circondava: l’Innominato.

Alessandro Manzoni, il cui nome completo era, Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – Milano, 22 maggio 1873), è stato non solo scrittore, ma anche poeta e drammaturgo.
L’autore de “I promessi sposi” fu anche un patrocinatore dell’unità linguistica italiana, anche lui seguiva la tendenza tutta illuminista della letteratura impegnata sia civilmente sia moralmente.
Nell’arco della sua vita, lo scrittore fu a contatto con la migliore cultura intellettuale francese (Johann Wolfgang von Goethe 1749-1832) e con grandi intellettuali (Antonio Rosmini 1797-1855), inoltre, era ben informato sulle novità britanniche (Walter Scott 1771-1832).

Per quanto riguarda la formazione culturale, come già si nota nelle poesie che Manzoni scrisse durante l’adolescenza, lo scrittore, all’epoca era particolarmente interessato alla mitologia e alla letteratura latina.
Prediligeva, soprattutto, Virgilio e Orazio, ma è forte nella sua scrittura anche l’impronta di Dante e quella di Petrarca. Tra i contemporanei, oltre a Vincenzo Monti (1754-1828), Manzoni subì l’influsso anche di Giuseppe Parini (1729-1799) e Vittorio Alfieri (1749-1803).

Le prime esperienze poetiche di Manzoni sono databili alla metà del 1801, insieme ad esse, lo scrittore ci ha lasciato delle traduzioni di alcune parti della “Eneide” e della “Satira terza” di Orazio.
Il periodo più creativo per lo scrittore, però, fu indubbiamente il quindicennio tra il 1812 e il 1827.
All’epoca, Manzoni si era già convertito al cattolicesimo e alle idee del romanticismo e in questo periodo scrisse le sue opere principali, passando dalla poesia – sacra e civile – ai saggi filosofico-religiosi, alle tragedie, fino ad arrivare alla realizzazione del primo grande romanzo della storia della letteratura italiana: “I promessi sposi”.

In queste opere si avverte già il desiderio di verosimiglianza e il crescente interesse per i sentimenti umani che saranno pienamente manifestati nel romanzo, alla cui stesura Manzoni iniziò a dedicarsi dall’autunno del 1821.
In un primo tempo il titolo dell’opera fu “Fermo e Lucia” e in questa prima stesura è evidente l’influenza esercitata dai romanzi europei, soprattutto quelli inglesi. Inoltre, per dare veridicità ai fatti che avrebbe descritto e per conoscere le ambientazioni e gli usi dell’epoca, Manzoni si dedicò anche a una minuziosa attività di ricerca storica.

Furono necessari molti altri impegnativi anni di lavoro, di rielaborazione strutturale e linguistica, per arrivare al romanzo che tutti conosciamo, il cui titolo fu mutato in “I promessi sposi”, e fu pubblicato nella versione definitiva tra il 1840 e il 1842.

Il romanzo è ambientato in Lombardia, nel periodo tra il 1628 e il 1630, durante il dominio spagnolo.
“I promessi sposi” sono il primo esempio di romanzo storico della letteratura italiana.
Manzoni si avvalse della sua approfondita ricerca storica per diversi episodi: le vicende della monaca di Monza (Marianna de Leyva y Marino); le vicissitudini legate alla Grande Peste (1629-1631). Sono tutti basati su documenti d’archivio e cronache dell’epoca.

Oltre a rappresentare un passaggio essenziale per la nascita della lingua italiana, il romanzo di Manzoni è anche il testo più significativo del romanticismo italiano, soprattutto per la profondità dei temi e perché, per la prima volta, un romanzo di successo ha come protagonisti, gli umili, invece dei potenti della storia.

Leggendo “I promessi sposi”, ricordo che rimasi colpita da un personaggio, in particolare, che, pur non appartenendo alla schiera degli umili, si staglia all’interno della complessa vicenda, ed è l’Innominato. Credo che ne fui affascinata per il timore reverenziale da cui era circondato, grande nel male quanto poi nel bene, e dall’alone di mistero dal quale era avvolto, tanto da rendere impossibile farlo passare inosservato.

L’Innominato è un personaggio singolare anche perché, mentre gli altri personaggi maturano nel corso dei due anni in cui si svolgono gli eventi, subisce nell’arco di una sola notte – anche se il cambiamento era già in atto da più tempo – una mutazione profonda.
Manzoni di lui dice: “Di costui non possiamo dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo” (“I promessi sposi”, capitolo XIX, pp. 371-372)

L’innominato, che in “Fermo e Lucia” era denominato come, il Conte del Sagrato, è tra i personaggi più complessi e inquietanti di tutto il romanzo.
Fu identificato storicamente con Bernardino Visconti (1579-1647), un nobile che guerreggiava con gli spagnoli, potentissimo e sanguinario.
Quando Manzoni ce lo presenta, l’Innominato è vicino alla vecchiaia, è pieno di dubbi per la vita che ha condotto: tra omicidi e soprusi nei confronti dei più deboli.
Nella storia è chiamato ad agire da don Rodrigo che gli chiede di rapire Lucia dal monastero di Monza, dove si è rifugiata, sotto la protezione di Gertrude.
L’Innominato incarica il Nibbio, capo dei bravi al suo servizio, del delicato compito, questi, con l’aiuto di Egidio e la complicità di Gertrude, riesce a rapire Lucia e a condurla al castello del suo padrone.

Per delineare la figura di questo statuario cattivo, Manzoni si serve anche del paesaggio e nel delineare la valle, dove si trova il castello dell’Innominato, ci dice che: il territorio è aspro, arido, minaccioso e incutente paura, con il chiaro intento di riflettere la personalità e lo stile di vita del personaggio.

Al cospetto dell’Innominato, Lucia è terrorizzata; lo prega di lasciarla libera, esortandolo al contempo a redimersi: “Dio perdona molte cose per un atto di misericordia”.
L’uomo resta turbato dalla semplicità della ragazza, dalla sua vulnerabilità e dalle sue parole. Queste emozioni, unite alle sue crisi di coscienza già in atto, lo spingeranno verso la conversione.

Famosa è la notte al castello dell’Innominato, subito dopo il rapimento di Lucia.
Una notte terribile per entrambi i personaggi: Lucia sconvolta dalla paura pronuncia un voto, mentre l’Innominato è tormentato dai sensi di colpa che lo condurranno a un passo dal suicidio.
L’alba e il suono delle campane, che annunciano l’imminente visita del cardinale Federico Borromeo, distolgono l’Innominato dai suoi propositi di morte e lo spingono a incontrarsi con il prelato e infine, alla conversione.
Dopo questo cruciale cambiamento, l’Innominato, innanzitutto, libererà Lucia e poi comincerà a condurre una vita all’opposto della precedente: si dedicherà a opere di misericordia e, più avanti nel romanzo, ne abbiamo una chiara testimonianza, quando si offrirà di ospitare gli abitanti della zona nella sua fortezza, in occasione della temuta discesa dei lanzichenecchi.

Non solo l’Innominato, ma anche altri personaggi manzoniani analizzano costantemente le proprie dinamiche interiori, rispecchiando quel “guazzabuglio del cuore umano“, particolarmente caro all’autore. Questo emerge in particolare nella figura dell’Innominato, ma anche in quella di Renzo.
Tali analisi conducono a dei cambiamenti, dovuti anche all’accumulo delle nuove esperienze e al passare del tempo, e sono evidenti, anche se in modo più sottile, anche in altri personaggi, come fra Cristoforo e Lucia. La giovane, in particolare, sembra restare la stessa dall’inizio alla fine della storia, ma in realtà anche lei subisce una maturazione costante e progressiva che il Manzoni non mancherà di registrare.

In copertina: particolare de “l’Innominato” di Andrea Gastaldi (olio su tela, 1860)

Natale a Regalpetra: le feste natalizie narrate da Sciascia

Natale a Regalpetra le feste natalizie narrate da Sciascia

Quale migliore augurio di Natale per chi ama la letteratura di un cammeo tratto da un’opera di Leonardo Sciascia?

Natale è ormai alle porte, per celebrare questa festa ho scelto un brano tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia (1921-1989), autore di cui quest’anno si è celebrato il centenario della nascita.
Nel testo, alcuni bambini raccontano come hanno trascorso le feste natalizie.

“Le parrocchie di Regalpetra” fu pubblicato nel 1956. Il punto di partenza di quest’opera letteraria è stato un capitolo: “Cronache scolastiche”, uscito autonomamente nel 1955, sul numero 12 della rivista “Nuovi Argomenti” e successivamente incluso nel testo stampato l’anno successivo.
Il libro di Sciascia nel suo complesso narra la vita di un paese qualunque della Sicilia e, in particolare, parla della scuola; è suddiviso in parti che si differenziano per l’argomento trattato.

Regalpetra non esiste: è un paese di fantasia. È nato dalla fusione tra il nome Racalmuto (borgo nativo dello scrittore) e il libro di Nino Savarese, “Fatti di Petra”.
Sciascia in questo libro racconta le condizioni delle classi povere e descrive le difficoltà che ogni giorno devono affrontare.
Nel brano che segue ci troviamo sui banchi di scuola, le feste natalizie sono terminate e un maestro legge i diari che gli allievi hanno scritto come compito a casa.

– Il vento porta via le orecchie – dice il bidello.
Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa.
I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni.
L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo.
Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale:
tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto :un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo.
Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente.
In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca: “La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù”.
Alcuni hanno scritto, senza consapevole amarezza, amarissime cose:
“Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa”.
Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre pagandogli il biglietto del cinema…
Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato.
“La mattina del Santo Natale – scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto”.
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre “per fare la spesa”. Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone.
“E così ho passato il Santo Natale”
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(tratto da “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia)

Anniversari letterari: Émile Zola, uno scrittore tutto d’un pezzo

Anniversari letterari: Émile Zola, uno scrittore tutto d’un pezzo

Émile Zola fu un grande scrittore che impiegò il metodo scientifico nei suoi romanzi, per analizzare e mettere a nudo la società francese del suo tempo.

29 settembre 1902, muore Émile Édouard Charles Antoine Zola (Parigi, 2 aprile 1840 – Parigi, 29 settembre 1902); figura poliedrica fu: scrittore, giornalista, saggista, critico letterario, ma anche filosofo e fotografo.
È stato uno degli esponenti di maggior spicco del naturalismo. Le sue opere ebbero un enorme successo e sono state tradotte, pubblicate e commentate in tutto il mondo.
La sua attività di scrittore ha lasciato un segno profondo nel mondo letterario francese e molti sono gli studi storici fatti sui suoi romanzi e sulla sua vita.

Tra le sue opere più note citiamo un ciclo di venti romanzi, pubblicati tra il 1871 e il 1893, i “Rougon-Macquart”, dove è descritta la vita di una ricca famiglia, attraverso il suo albero genealogico, e al contempo, è mostrata la storia di un’epoca: dal colpo di Stato di Napoleone III, nel dicembre 1851, fino alla sconfitta di Sedan che condusse la Francia sull’orlo della rovina.

Zola fu un assiduo sostenitore della ricerca della verità che trasfuse nelle sue opere letterarie, applicando il metodo scientifico all’osservazione della realtà sociale. Diede vita a un mondo immaginario di grande potenza ed efficacia che suscitava domande angosciate sulla società. Annotava osservazioni e documentazioni su qualsiasi argomento; illustrò la società del Secondo Impero, mostrandone: la durezza (specie verso i lavoratori); le aberrazioni; i successi.

Lo scrittore non prese posizione solo attraverso i suoi romanzi, ma fece sentire la sua voce di fronte a delle ingiustizie, anche pubblicamente. Negli ultimi anni della sua vita, fu coinvolto nell’affare Dreyfus.
Nel gennaio del 1898, pubblicò sul quotidiano L’Aurore il famoso “J’Accuse… !”, una lettera, diretta al Presidente della Repubblica.

“L’affare Dreyfus” andò così: nel 1894, Alfred Dreyfus, ufficiale di artiglieria dell’esercito francese, fu accusato di essere una spia dei tedeschi e per questo, fu degradato e poi processato e condannato all’ergastolo.
Alcuni intellettuali fecero notare diverse anomalie riguardo alle accuse rivolte all’ufficiale ebreo, ma la voce che si fece sentire più forte di tutte, fu proprio quella di Zola. Nel suo “J’Accuse”, lo scrittore parlava di complotto, di documenti d’accusa falsificati e fece persino i nomi degli ufficiali dell’esercito che avevano architettato la congiura ai danni di Dreyfus. Una congiura che aveva tutto il sapore dell’antisemitismo, in un clima politico avvelenato dalla recente perdita, per opera dell’Impero tedesco di Bismarck, dell’Alsazia e di parte della Lorena.

Per le sue accuse, Zola fu multato e condannato a un anno di carcere, che evitò con l’esilio.
Le sue parole però, avevano scosso le coscienze. Oltre a svelare la verità, ebbero un effetto dirompente: l’edizione de L’Aurore che conteneva la sua lettera, vendette oltre 300.000 copie (di media ne vendeva 20.000 al giorno).
A furore di popolo si ottenne la revisione del processo, ma era ancora lunga la strada per il re-integro e la liberazione di Dreyfus.
Bisogna attendere il 12 luglio del 1906: dopo 11 anni dall’inizio del processo, finalmente, la Corte di Cassazione accolse la richiesta di revisione del processo a carico di Dreyfus. Era ormai chiaro che tutto “l’affaire” era stato un errore giudiziario, una terribile macchinazione messa in piedi solo per individuare un capro espiatorio.

Quando finalmente Dreyfus fu liberato, Zola era già morto, da ben quattro anni (29 settembre 1902).
La sua morte è rimasta un mistero e tuttora, ci si chiede se sia stato un incidente o un omicidio orchestrato dalla Destra reazionaria, proprio per la posizione da lui assunta nell’ “affare Dreyfus”.
Lo scrittore aveva un nutrito numero di nemici: durante la sua esistenza espresse sempre la sua opinione e non accettò compromessi.

La morte di Zola fu archiviata dagli investigatori come morte accidentale, da avvelenamento da monossido di carbonio, dovuta alle esalazioni di una stufa.
Nel 1953, Pierre Hacquin, un farmacista, disse al giornalista Jan Bedel che era stato il fumista, Henri Buronfosse – che lo aveva confessato ad Hacquin – a ostruire intenzionalmente il camino di casa dello scrittore.

Dopo tali rivelazioni, si profilò l’ipotesi di assassinio politico: il farmacista e il fumista facevano parte di un gruppo di nazionalisti antisemiti e reazionari. Buronfosse era però già morto, nel 1928, e non si trovarono sufficienti prove per riaprire il caso.

Zola aveva costruito tutta la sua vita e anche la sua arte sull’onestà intellettuale e non tacque mai di fronte a ciò che riteneva scorretto o ingiusto sia che si trattasse dell’ipocrisia e dell’immoralità della borghesia francese sia che riguardasse questioni artistiche. Si schierò, ad esempio, dalla parte degli Impressionisti e di Manet, mentre schernì i pittori dell’Accademia, con il loro dipinti ammantati di retorica e privi di qualsiasi attinenza con la realtà del tempo.

Non ebbe molti amici, non solo perché non accettava compromessi, ma anche per il suo carattere aspro. Nonostante ciò, alcuni grandi lo apprezzarono e gli furono vicini per tutta la vita: Anatole France (1844-1924), ad esempio, che al suo funerale fece un’orazione commovente ed Édouard Manet (1832-1883), altro amico fedele, che riuscì, in un dipinto, a ritrarre con grande accuratezza il temperamento ombroso di Zola.

P.S. “L’affaire Dreyfus” e il J’Accuse di Zola determinarono la nascita dell’impegno intellettuale.
L’editoriale di Zola fece della parola intellettuale un simbolo dell’impegno civile, un titolo di gloria. Prima dell’affare Dreyfus, invece, “intellettuale” aveva una connotazione negativa: si parlava di “giudizio intellettuale”, come di qualcosa di trascurabile o incomprensibile.

In copertina: particolare del Ritratto di Émile Zola di Édouard Manet (1868)

Scrittori e investigatori: due professioni da accomunare

Scrittori e investigatori: due professioni da accomunare

Scrittori e investigatori hanno in comune una cosa: non smettono mai di pensare.

La scrittura è un’indagine sempre aperta, una ricerca appassionata di elementi, un lavorio continuo per recuperare materiale. Tutto per produrre una storia, per lo scrittore; per impostare un caso se ci riferiamo all’investigatore.

Qualsiasi narrazione vede la luce dopo un lungo lavoro di accumulo: il nostro cervello non smette mai di immagazzinare informazioni, durante il giorno, ma anche nel corso della notte, attraverso i sogni.

Il lavoro cosciente dello scrittore si basa sulla ricerca di nozioni specifiche su un dato argomento o su spunti in generale, spesso, però, questo lavoro occupa una percentuale inferiore rispetto all’accumulo casuale di notizie e indicazioni che ci arrivano da ogni angolo della nostra vita quotidiana: un dialogo di un film, un articolo postato sui social, la frase di un libro, un concetto espresso da qualcuno.

Anche l’investigatore raccoglie materiali e informazioni e poi, entrambi, quando hanno elementi sufficienti, accostano i pezzi e formulano ipotesi; poi, lo scrittore plasmerà una storia, mentre l’investigatore giungerà alla soluzione del caso; da una parte ci sarà un libro, dall’altra, un colpevole assicurato alla giustizia.

Self-publishing la nuova frontiera per gli scrittori: Elisabetta Rossi

Narcissus Stories: Elisabetta Rossi e l’autopubblicazione con Narcissus

Pubblicato da Giacomo D’Angelo il 26 settembre, 2012

Elisabetta aveva già scritto per noi. Ora con questo nuovo post vuole condividere nuovamente la sua esperienza dopo 4 mesi di collaborazione con Narcissus.

In questi quattro mesi ho vissuto un’esperienza che mi ha catapultata in una realtà che non conoscevo e che mi ha sorpreso, piacevolmente devo dire, e non solo per la disponibilità che ho trovato nei collaboratori della Simplicissimus Book Farm, che, ovviamente, come in tutte le realtà lavorative hanno dovuto affrontare degli inconvenienti per riuscire a dare spazio a tutti noi autori, che comunque sono riusciti a risolvere.

Questioni tecniche che esulano dalle competenze di chi scrive e crea problemi a cui un autore non pensa. Posso dire, per quanto mi riguarda, che la loro disponibilità ha superato ogni disservizio degli store ai quali sono collegati e sono rimasta stupita dal numero di librerie online dove sono in vendita i miei ebook.

Oltre alla disponibilità del team di SBF, bisogna anche considerare che, grazie a loro, gli autori che decidono di auto pubblicarsi possono usufruire di una vetrina che nessun editore italiano per il momento può mettere a disposizione di un autore che non sia più che blasonato.

Ho venduto e anche molto e, fino a che non ho visto i risultati, non pensavo fosse possibile, in pochi mesi e senza lanci pubblicitari, tranne dei semplici annunci su Facebook e mediante il sito librarsi.net, mio e di mia sorella, di ottenere tali riscontri positivi alle mie pubblicazioni.

So perfettamente che gli scrittori che pubblicano con grandi case editrici ci classificano come scrittori di serie B. Io vengo dal cartaceo e da un’esperienza con una nota casa editrice, quindi, conosco le regole del mercato editoriale.

Gli esordienti o comunque tutti quelli che cercano di farcela con le loro sole forze vengono sottopagati, sfruttati fino all’osso con dei contratti capestro, con il miraggio di vedere la propria “creatura” in libreria o in edicola, miraggio perché questi autori, proprio come è accaduto a me, sono costretti ad accettare condizioni molto sfavorevoli, pagando un prezzo molto alto in cambio di una finta notorietà.

Io, quindi credo nell’autopubblicazione che se non altro evita l’umiliazione che si deve subire cercando di entrare nell’élite blindata dell’editoria cartacea.

Certo il gioco ha le sue regole, alla fine sei solo, devi essere manager di te stesso, devi “venderti” e affrontare la diffidenza di quelli che credono che hai scelto questa strada solo perché gli editori non ti ritengono abbastanza bravo per entrare nelle loro cerchie.

Io posso dire a testa alta di avere scelto: ho deciso di interrompere il mio contratto con la nota casa editrice perché non c’era più un rapporto di fiducia e perché non c’è mai stata una relazione alla pari, così ho deciso di autopubblicarmiper intraprendere una strada nuova che ritengo più proficua e soddisfacente, e le vendite per ora mi danno ragione.

La mia scrittura non ne ha sofferto, anzi, le ricerche per ogni libro o racconto che esce dalla mia “penna” hanno lo stesso rigore e perfezionismo che mi ha contraddistinto finora.

Ribadisco che non è una scelta facile, la strada è comunque in salita, ma posso dire che la responsabilità di cui vi sentirete investiti è pari alla libertà che avrete di esprimervi, un ulteriore guadagno per i vostri lettori che vi assegneranno altrettanto liberamente lodi e a volte anche aspre critiche.

L’unica cosa che non è cambiata per me è l’impegno che profondo nel mio lavoro e il desiderio di riuscire a trattenere il lettore sulle pagine che scrivo e sono sempre qui ad aspettare ogni suggerimento valido per migliorare le mie capacità di scrittrice.

Questo articolo è stato scritto liberamente da Elisabetta Rossi per testimoniare la sua esperienza d’uso di Narcissus. Grazie Elisabetta!