Romanzo storico: genere romantico per eccellenza

Il romanzo storico, genere narrativo che si è diffuso in particolare nel secolo XIX, ha reso la storia un elemento di rilievo della narrazione.

Per romanzo storico si intende un’opera narrativa che si svolge nel passato. Per cui non solo la trama, ma anche gli usi e i costumi, i dialoghi e l’atmosfera generale ricalcano quelli dell’epoca scelta, così da consentire al lettore di calarsi in quel periodo.

È un genere tipicamente romantico e si è diffuso in particolare durante l’Ottocento, grazie a una serie di fattori, come ad esempio: l’affermazione del pensiero e del metodo scientifico che incentivò il rinnovamento degli studi storici; il consolidarsi nell’ambito filosofico dell’idea che le esistenze individuali siano condizionate dalla storia; i crescenti sentimenti nazionalisti che spingevano per un recupero sia delle grandezze passate dei popoli sia di figure esemplari da cui trarre ispirazione.

Un romanzo si può definire storico, quando l’autore del testo non era ancora in vita quando i fatti raccontati sono avvenuti o il libro è stato scritto almeno cinquanta anni dopo quello che è raccontato tra le sue pagine.
Si tratta di un genere in grado di abbracciare vari stili: ucronico (“ucronìa” deriva dal greco e significa “nessun tempo“. Il primo a utilizzare questo termine fu il filosofo francese Charles Renouvier (1815 – 1903) in un saggio, “Uchronie”, del 1857; identifica un genere di narrativa fantastica fondata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale); fanta-storico (il fantasy storico è un sottogenere del fantasy che, per alcuni aspetti, può essere avvicinato al romanzo storico); pseudo-storico (pseudostoria, ambito delle teorie o metodologie che pretendono di essere storiche ma che non rispettano regole e convenzioni del metodo storico. Le teorie pseudostoriche solitamente utilizzano come punto di partenza prove inedite, e/o controverse e/o non accettate dalla comunità scientifica/accademica); multitemporale (particolare versione del romanzo storico in cui si raccontano in parallelo o in successione accadimenti ambientati in epoche storiche diverse, ma collegate tra loro da un elemento: un oggetto, un legame di sangue o qualcosa di metafisico).

Chi si dedica alla scrittura del romanzo storico, un genere che si può definire ibrido, può fare riferimento alle vicende di personaggi realmente esistiti oppure può narrare eventi accaduti a personaggi di pura invenzione.

Le ambientazioni storiche non sono una prerogativa ottocentesca, infatti, già prima del XIX secolo, erano state adottate da William Shakespeare (1564 – 1616) in alcuni sui drammi e persino in Italia, nel Seicento, troviamo esempi simili.
Il XVIII secolo poi, ci ha regalato diversi grandi romanzi realistico sociali, purtroppo, gli autori di quel periodo avevano una certa difficoltà a rendere pienamente le ambientazioni passate. Oltretutto, nei generi che anticipano il romanticismo (in particolare il gotico e il picaresco) la storia non era un elemento essenziale della narrazione, piuttosto un elemento statico, uno scenario su cui proiettare l’azione e le gesta dei personaggi.
Nell’Ottocento, la situazione si ribalta: la storia diventa una vera e propria protagonista della narrazione e gli autori studiano e si documentano affinché i loro scritti risultino attendibili, il più possibile.

Tra i romanzi storici preromantici uno si distingue per aver posto il suo eroe in un quadro storico ben definito, sicuramente frutto di accurati studi su fonti e documenti storici. Si tratta di “Memorie di un cavaliere” (1720) di Daniel Defoe (1660 – 1731). Questo romanzo è una sorta di pietra miliare, in quanto ha dato il via in Inghilterra a un genere letterario nuovo e un secolo dopo, influenzò il lavoro di Walter Scott (1771 – 1832).

Un evento d’eccezione per i trent’anni del premio Tiberini

Sabato 25 novembre 2023 a San Lorenzo in Campo (PU) si è tenuta la XXX edizione del Premio lirico internazionale Mario Tiberini.

Quest’anno al tradizionale prestigio dell’evento si è aggiunta una singolare novità, che ha reso irripetibile l’appuntamento musicale. Si tratta dell’esecuzione e relativa registrazione in prima mondiale assoluta delle musiche ritrovate da Giosetta Guerra, biografa del tenore Tiberini, composte dal tenore stesso, da suo figlio e da musicisti dell’epoca che le hanno dedicate al tenore.

Nell’accogliente cornice del Teatro Tiberini, in un clima familiare, abbiamo assistito all’esecuzione di 19 brani. Queste eccezionali chicche sonore sono il risultato del lavoro certosino fatto da Giosetta Guerra, che, grazie a una laboriosa attività di ricerca, è riuscita a raccogliere queste musiche inedite per proporle nell’edizione di quest’anno del premio a un folto e interessato pubblico.

Chi, come me, ha assistito allo spettacolo ha potuto appurare che Mario Tiberini (San Lorenzo in Campo 8 settembre 1826 – Reggio Emilia 16 ottobre 1880), non è da celebrare solo per la sua carriera di talentuoso tenore, conteso da tutti i più importanti teatri, ma anche per la sua valenza compositiva.
I brani sono inni, marce militari, stornelli patriottici, ma anche arie da camera di stampo sentimentale. In pratica, in queste composizioni emerge con chiarezza l’impegno politico di Tiberini, che aveva particolarmente a cuore la causa italiana, infatti la sua vita artistica si è saldamente intrecciata alla storia del Risorgimento italiano.

Il nutrito e piacevole programma è stato il seguente:

  1. Speranza Polka (musica di Mario Tiberini padre) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  2. Stornelli patriottici (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  3. Inno ginnastico (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
    insieme al coro Jubilate
  4. Improvvisata (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  5. Il mio bambino lontano (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Francesca Carli
  6. La fata (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  7. Beatrice polka (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  8. Ai fiori (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  9. Di notte – marcia (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  10. Brano per banda “Alla regina Margherita” (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito dal gruppo musicale Tiberini, diretto dal Maestro Daniele Bianchi
  11. Dammi un bacio (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  12. Povero amore (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
  13. Desiderium (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  14. Stornello d’amore (musica di Domenico Lucilla, primo maestro di canto di Tiberini) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  15. Mio povero amor (musica di Bonamici) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
  16. Serenata d’un angelo (musica di Luigi Mancinelli) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  17. Elegia (musica di Bernardi) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  18. Amore (musica di Gaetano Palloni) duetto eseguito dal tenore Enrico Giovagnoli e dal soprano Francesca Carli
  19. Wedding flowers (musica di Mario Tiberini padre) eseguito da Giovanni Scaramuzzino alla chitarra e da Francesco Scaramuzzino al mandolino

Gli interpreti della serata hanno messo in mostra tutte le loro qualità espressive e le loro capacità tecniche.
I brani eseguiti rientravano appieno nel repertorio del belcanto ottocentesco e, pur essendo composizioni di autori non particolarmente noti al grande pubblico, non erano scevri di eleganza e bellezza.
Inoltre, a un ascolto attento, si poteva rilevare che dietro le venature romantiche erano celate notevoli insidie per gli esecutori che hanno superato brillantemente ogni scoglio, lasciandosi trasportare dal pathos dei versi, mettendone in luce le singolarità e cogliendo puntualmente con l’espressione vocale via via i momenti drammatici, quelli gioiosi o giocosi.
In vari brani è emerso anche lo spirito risorgimentale, così come non sono mancati momenti più spensierati o appassionati afflati amorosi.

Il maestro Bavaj si è brillantemente espresso nei brani solistici e come accompagnatore dei cantanti.
I brani solo strumentali sono stati eseguiti in modo impeccabile, lasciando trapelare ogni intento dei vari compositori, mentre i brani di sostegno alle esibizioni vocali hanno visto un accompagnamento puntuale in cui voci e strumento si fondevano o si scambiavano i ruoli in una perfetta e armonica simbiosi.

Piacevole l’esecuzione della banda e del duo Scaramuzzino, padre e figlio (proprio come i Tiberini) che hanno chiuso il gradevolissimo spettacolo musicale.

Alla fine del concerto è stato consegnato il Tiberini d’oro al tenore Enrico Giovagnoli, “per rievocare di Tiberini vocalità e sembianze e per applicare arte scenica e canora all’opera lirica e ad altri generi musicali”.

Per concludere, aggiungo che la serata è stata impreziosita tra un brano e l’altro dagli interventi di Giosetta Guerra che ha raccontato in modo coinvolgente interessanti notizie sulla vita di Tiberini e sulla sua attività.
Da rilevare anche le “intrusioni” in veste di narratore/presentatore di Marcello Moscoloni, che ha introdotto i brani e anticipato i testi, successivamente cantati dai solisti.

Lo spettacolo si è concluso con il saluto di tutti gli artisti e gli organizzatori comprese le autorità sotto una pioggia di fiori e cuori.

Giacomo Leopardi e le sue pillole di infinito

Per la matematica e la fisica, l’infinito è un concetto che fa riferimento a una quantità senza limite o fine. Ben diversa è la sua definizione se ci spostiamo nel campo della letteratura e della poesia.
Leopardi, ad esempio, ne ha dato una sua enunciazione che tuttora ci stupisce, ci emoziona e ci commuove, aprendoci scorci su una straordinaria interiorità.

La poesia “L’infinito”, fu composta nel 1819, e rappresenta un esempio della nuova poesia leopardiana che è concentrata sull’espressione delle emozioni interiori del poeta. Questa lirica è anche una delle testimonianze più elevate del contrasto tra reale e ideale, tipico dell’uomo romantico.

Nei ben noti versi leopardiani, una siepe impedisce al poeta di vedere il paesaggio che altrimenti si aprirebbe davanti ai suoi occhi. Proprio questo ostacolo serve a stimolare la sua immaginazione, consentendogli di spaziare nell’immensità e di conseguire una visione interiore dell’infinito spaziale, nel quale il suo animo si smarrisce, provando un senso di sgomento.

Nei versi successivi, l’improvvisa comparsa del vento tra le fronde degli alberi riconduce Leopardi alla realtà e lo spinge a confrontare l’infinito silenzio di un istante prima – che ha solo immaginato al di là della siepe – alla voce del vento. Questo paragone lo conduce all’idea dell’eternità, del tempo passato e dello scorrere inesorabile del tempo.

Alla conclusione della lirica, dopo aver sperimentato l’infinito spaziale e quello temporale, Leopardi si abbandona dolcemente in questa nuova dimensione evocata dalla poesia, cercando una forma di annullamento della propria identità.

L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Poesia e musica: Anna Achmatova e “Il Ritorno dell’Angelo”

Anna Achmatova il Ritorno dell'Angelo

Il 21 agosto assisteremo allo spettacolo “Il Ritorno dell’Angelo” uno spettacolo tra teatro, poesia e musica, dedicato all’amore; ispirato dalle musiche del maestro Marco Sollini e dalle poesie di Anna Achmatova.

Il 5 marzo 2006 a San Pietroburgo è stato inaugurato un monumento dedicato ad Anna Andreevna Achmatova (Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966). Si tratta di un pezzo di parete con l’effigie della poetessa russa. L’iscrizione, che è incisa in un’immagine speculare, contiene delle parole prese dai versi delle sue poesie “L’ombra mia sulle pareti tue“.

La data di inaugurazione del monumento non è stata scelta a caso: coincide con il 40° anniversario della morte della poetessa, ed è stato collocato nel giardino accanto alla casa della fontana. In questa casa Anna visse per 30 anni ed ora qui, si trova il museo letterario-commemorativo a lei dedicato.
La poetessa definiva il giardino della sua casa magico e diceva che qui arrivavano le ombre della storia pietroburghese.

Nella casa della fontana, palazzo nobiliare appartenuto all’aristocratica e influente famiglia Šeremetev a Leningrado, la Achmatova occupava un piccolo appartamento.
L’edificio tardobarocco aveva un ampio cortile interno e una cancellata di ferro imponente. Dopo la Rivoluzione, era stato suddiviso in minuscole abitazioni e già mostrava i segni di un lento degrado.

L’alloggio di Anna era alla fine di una ripida scala buia; l’arredamento era essenziale: un tavolino, poche sedie, una cassapanca, il divano; alla parete, l’unico disegno del pittore Amedeo Modigliani salvato dall’assedio.

Anna Achmatova è ritenuta tra le maggiori poetesse del secolo in lingua russa. Fu anche una tra le più critiche penne contro lo stalinismo e la sua famiglia pagò duramente la sua opposizione: il suo primo marito fu fucilato, mentre il secondo marito e il figlio furono condannati alla detenzione nei gulag. Lei stessa fu osteggiata in più occasioni e costantemente controllata in ogni sua attività. Solo in tarda età, poco prima della sua morte, ricevette riabilitazione letteraria dalle autorità sovietiche.

A questa famosa poetessa è dedicato un singolare progetto: “Il Ritorno dell’Angelo”, una prova lampante che la musica è in grado di raccontare storie, dato che in essa spesso vivono, latenti, parole e dramma.
Ponendosi in ascolto, dalla musica è possibile estrarre e combinare immagini e visioni, che possono condurre a espressioni differenti, più ampie, grazie all’ausilio del corpo e della voce.

L’idea musicale da cui parte questo progetto, che si muove tra teatro poetico e musica, sono i “24 Piano Works” di Marco Sollini.
I brani, che saranno suonati da Martina Giordani al pianoforte, sono pieni di rimandi e suggestioni, e il progetto è unico nel suo genere.
Sul palcoscenico insieme alla pianista saranno presenti anche due attori: Valentina Pacetti e Francesco Tranquilli.
Tutti e tre gli artisti, il 21 di agosto, presso il castello di Falconara Alta, ci guideranno in un viaggio che parla essenzialmente d’amore. La storia d’amore tra l’Angelo e Vladimir.
Anna è l’angelo, tale appellativo proviene da un suggerimento di Amedeo Modigliani (Livorno, 12 luglio 1884 – Parigi, 24 gennaio 1920), con cui la poetessa russa ebbe una breve ma intensa relazione; il pittore italiano la chiamava “il mio angelo dalla faccia triste”.
Vladimir, invece, simboleggia tre degli uomini che la poetessa russa ha amato e che hanno segnato profondamente la sua vita sentimentale.
Citazioni e versi recitati alla fine di ogni brano musicale sono tratti dalle poesie e dalle lettere di Anna Achmatova.

Per capire come si è arrivati a questa singolare rappresentazione e per approfondire alcuni aspetti dello spettacolo, ho posto alcune domande a due dei protagonisti dello spettacolo.

Allo scrittore, attore e regista Francesco Tranquilli ho rivolto le seguenti domande.

Quale è stata la scintilla che ha dato il via a questo interessante progetto e perché sono stati scelti proprio i “24 Piano Works” di Marco Sollini?
Nell’estate 2021 mi è venuto in mente di scrivere un testo teatrale in poesia su musiche pre-esistenti. Di creare qualcosa che invertisse il percorso “tradizionale”, che parte dal testo e poi sceglie o compone una musica per arricchirlo o accompagnarlo. Io volevo trovare musiche che fossero nate indipendenti, e “usarle” perché mi ispirassero delle parole, dei versi, una storia, così da realizzare uno spettacolo di prosa poetica con musica dove la voce recitante fosse, per così dire, uno strumento aggiunto, ispirato dal testo musicale e non “appoggiato” sopra.
Allora mi sono ricordato dell’album di Sollini del 2018, “The Angel Goes Home”, i cui brani sono stati tutti pubblicati e ristampati nel 2021 (tranne quello del titolo) come “24 Piano Works”. All’epoca Marco si era consultato con me sul titolo da scegliere, che prendeva spunto dal quadro di un pittore greco raffigurante un Angelo ortodosso, riprodotto sulla cover del cd originale. Riascoltando quei brani, tutti molto diversi fra loro, molto evocativi, ispirandomi ai loro ritmi, alle armonie, all’andamento melodico – e anche ai titoli – le parole hanno cominciato ad arrivare, e in un paio di mesi la “storia” dei due poeti era pronta: mancavano però i personaggi e l’intreccio, per fare del “Ritorno dell’Angelo” una narrazione teatrale e non un semplice recital.

Che cosa ha fatto scattare l’associazione tra la musica di Sollini e le poesie di Anna Achmatova?
Tutto è andato a meglio a fuoco quando Marco mi ha comunicato che avremmo avuto in scena una pianista, scelta da lui personalmente, che ha debuttato con noi nell’agosto 2022 per una sola sera. Ora potevo definire meglio i rapporti fra i personaggi: la Poetessa, la Musicista, il Poeta combattuto fra l’una e l’altra, diviso fra un’affinità elettiva con la prima e un’attrazione innegabile per la seconda, che provoca rapidamente una crisi nella relazione dei due protagonisti “recitanti”.
Restava l’Angelo del titolo. Siccome i pezzi per pianoforte di Sollini hanno tutti un retrogusto evidente – e voluto – del pianismo dei primi del Novecento, Rachmaninov non escluso, l’idea di un’ambientazione che alludesse alla Russia di quell’epoca si faceva strada. Allora il nome di Anna Achmatova, l’ “angelo” di Modigliani e l’ “Angelo Nero” del celebre ritratto di Tyrsa, mi è tornato in mente dai tempi dei miei studi universitari. Ho letto diverse sue biografie e ho visto che il “mio” angelo non poteva essere che lei. È seguita una lunga ricerca per trovare, all’interno della sua opera poetica e delle sue lettere, dei versi o delle frasi che potessero collegare i vari quadri di cui si compone il nostro spettacolo, rendendo anche più fluido il racconto di questa storia d’amore travagliata, come quelle di cui è stata protagonista la vera Anna. I versi che io e la bravissima Valentina Pacetti come Anna, recitiamo sulla musica, invece, sono stati composti da me, cercando di rispettare al massimo le partiture originali di Sollini.

Invece, alla pianista e didatta Martina Giordani ho posto i seguenti quesiti.

Che cosa ti ha spinto a partecipare a questo progetto?
Sono stata contattata da Francesco Tranquilli parecchi mesi prima della messa in scena de “Il ritorno dell’angelo”. Mi ha incuriosito questo tipo di spettacolo, in cui parola e musica sono strettamente collegate. Conosco inoltre le musiche del Maestro Sollini e dopo aver letto la trama, ho deciso di prendere parte al progetto. Abbiamo già portato sul palco lo spettacolo a fine maggio, in tre date diverse, nella zona dell’ascolano. Sono lieta che ora l’Angelo approdi anche a Falconara, mio paese d’origine.

Quali sono le sensazioni che hai provato come pianista, associando la musica di Sollini alle poesie di Anna Achmatova?
Le sensazioni sono molteplici. Più di tutte, la cosa che apprezzo in questo spettacolo è il mio ruolo: non sono una mera esecutrice, ma sono parte integrante dello svolgimento della storia; sono un personaggio in scena e, piccola anticipazione, sarò la guastafeste di turno! Per l’occasione infatti mi sono dovuta improvvisare attrice, oltre che pianista. In definitiva, un’esperienza nuova in cui suonare assume un significato ben preciso; ritengo che i brani di Sollini evochino al meglio le atmosfere della storia, ed esaltino i tratti caratteristici della poetessa.

Credi che musica e poesia possano trovare un terreno stabile entro il quale comunicare costantemente e in maniera profonda, senza dover rinunciare ciascuna alle sue particolari prerogative?
Sicuramente il teatro può essere un terreno stabile in tal senso. Ogni arte mantiene la sua “natura” senza perdere dignità; anzi, combinate nella giusta maniera, credo che possano una esaltare l’altra.

Non mi resta che invitarvi allo spettacolo, per vivere in prima persona questa bellissima esperienza e per applaudire calorosamente gli artisti.

Emily Dickinson: tra semplicità ed elaborate metafore

Emily Dickinson tra semplicità ed elaborate metafore

L’opera poetica di Emily Dickinson intensa e intima colpisce per la semplicità, per la singolare lettura degli elementi naturali attraverso i quali la poetessa riflette sul senso profondo della vita.

Emily Dickinson nacque nel 1830 ad Amherst (Massachusetts – USA).
La sua famiglia non era benestante, ma i suoi familiari erano persone in vista nella comunità locale: ebbero un ruolo fondamentale nella vita culturale, sociale e politica statunitense.
Sfogliando lettere e documenti comprendiamo che entrambi i genitori della poetessa erano molto severi, calati nel forte senso religioso e nelle rigide tradizioni puritane propugnate dai primi coloni inglesi che vissero proprio nella zona in cui la poetessa nacque e poi crebbe.

A quanto pare, Emily non soffrì particolarmente del clima rigido in cui visse e già in giovane età è evidente che è brillante e molto intelligente.
I suoi studi iniziali si svolgono all’Accademia di Amherst, poi in una delle scuole più importanti del New England: la Mount Holyoke Female Seminary. Ben presto, però, la Dickinson decise di proseguire gli studi da autodidatta: non sopportava il fatto di dover professare pubblicamente la religione cristiana. Infatti, già in questo periodo, la giovane poetessa aveva una visione piuttosto scettica della religione.
Questo però non escludeva un forte interesse per la sfera spirituale e proprio dal contrasto tra dubbio e ricerca della “verità” nasce e si evolve la particolare intensità della sua attività poetica.

Quando la Dickinson inizia a scrivere siamo intorno al 1850 e in quel periodo, nel New England, si stava profilando un’intensa attività letteraria.
La poesia era un genere molto popolare, anche se in quegli anni, per le donne era difficile intraprendere qualsiasi tipo di professione.

Per quanto riguarda la sua vita, la poetessa statunitense, a un certo punto, iniziò a evitare i contatti sociali e si rinchiuse nella sua camera, arrivando al punto di non uscirne neppure in occasione della morte degli amatissimi genitori.
La Dickinson mantenne contatti con l’esterno, ma solo attraverso una fitta corrispondenza con amici selezionati. Era particolarmente interessata agli eventi storici e alle tendenze culturali più importanti del suo tempo.

Scrisse moltissimo, ma sono davvero poche le poesie uscite dalla sua penna pubblicate quando lei era ancora in vita.
Curiosamente, la poetessa scriveva le sue poesie su dei foglietti che ripiegava con cura e cuciva tra loro con ago e filo e infine, li riponeva in un cassetto della sua stanza. Dopo la sua morte, il 15 maggio 1886, i suoi scritti furono rinvenuti da sua sorella Vinnie.
Nonostante la sua vita priva di eventi, nelle sue poesie la Dickinson mostra un’intensa e toccante immaginazione.

Il periodo più produttivo per la poetessa è quello degli anni della guerra civile americana (1861-1865). Probabilmente, perché molti dei suoi amici e corrispondenti più cari erano lontani.
Le sue poesie non furono comprese e apprezzate dagli editori della sua epoca e solo nel XX secolo, i critici rivalutarono la sua opera e la poetessa fu stimata, insieme con Walt Whitman, come una delle fondatrici della poesia americana.

Le poesie della Dickinson hanno come temi centrali: l’immobilità, la solitudine e il silenzio, e gli spazi a cui fa riferimento nelle sue poesie sono sempre interiori, quelli dell’animo umano, indagati con grande profondità, per rilevare la distanza che esite tra mondo interiore e mondo esterno.

La prima raccolta “Poems by Emily Dickinson” (Poesie di Emily Dickinson), composta da centoquattordici poesie, fu stampata dopo la sua morte, nel 1890. Poi, nel 1891 fu pubblicato “Poems: Second Series”, e nel 1895 “Poems: Third Series”.

Lo stile poetico della Dickinson, originale e lontano dal gusto e dagli eventi del suo tempo, è stato chiaramente influenzato dalle sue variegate letture: William Shakespeare, John Milton, i poeti metafisici, Emily Brontë e altri scrittori suoi contemporanei, il trascendentalismo di Emerson e persino la tradizione puritana del New England.

Le sue poesie sono brevi, composte da quartine con schema metrico: abab oppure abcb.
La Dickinson impiega spesso rime imperfette, utilizzando assonanze e allitterazioni. La sua tecnica poetica così particolare è stata assimilata a quella di un altro grande poeta visionario, William Blake.

Il linguaggio usato dalla poetessa statunitense è apparentemente semplice, mentre la sintassi è insolita. La Dickinson utilizza la punteggiatura in modo del tutto personale. Ad esempio, impiega i trattini al posto dei punti e delle virgole. Fa notevole uso di lettere maiuscole per conferire importanza a specifiche parole. Inoltre, utilizza paradossi e metafore insolite. L’insieme di tutte queste singolarità rende il senso delle poesie della Dickinson ambiguo e di non facile interpretazione.

Uno dei temi ricorrenti nelle poesie della Dickinson sono diversi: la natura, rappresentata in tutte le sue manifestazioni; la morte; la vita dopo la morte; l’eternità e Dio; l’amicizia; l’amore.

Pur trattando temi semplici e quotidiani, la sua poesia è investita da un’intensità e da una potenza suggestiva, che traggono vigore dalla sua profonda sensibilità e lasciano nel lettore un segno indelebile.

In copertina: Emily Dickinson fra il 1846 e il 1847

Crepuscolarismo: tra malinconia e poesie delle “piccole cose”

Crepuscolarismo tra malinconia e poesie delle piccole cose

Il crepuscolarismo è una corrente che nasce e si diffonde all’inizio del Novecento, e rappresenta un’ideale parabola della poesia italiana, che si spegne in un “mite e lunghissimo crepuscolo”.

La corrente letteraria del crepuscolarismo apparve e fiorì in Italia all’inizio del Novecento, grazie ad alcuni poeti tra i quali: Guido Gozzano (1883-1916), Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907), Antonia Pozzi (1912-1938) e Corrado Govoni (1884-1965).
Più che un movimento, si manifestò come una similitudine di stile e di intenti. In particolare, i poeti crepuscolari furono accomunati dal totale rifiuto di qualsiasi forma di poesia eroica o sublime.

Il termine “crepuscolarismo” deriva dal titolo di una recensione apparsa su “La Stampa”, il 1° settembre 1910, firmata da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Il critico utilizzò tale definizione per descrivere le poesie di Marino Moretti, Fausto Maria Martini (1886-1931) e Carlo Chiaves (1882-1919). Il termine passò poi a indicare una categoria letteraria.

L’adozione di questo particolare termine voleva sottolineare una situazione di spegnimento. Infatti, in queste poesie prevalgono i toni tenui e smorzati, e l’emozione preponderante è la malinconia, quella “di non aver nulla da dire e da fare“.

I crepuscolari restano fondamentalmente legati alla tradizione classica, pur essendo coscienti del suo decadimento. Rifiutano l’immagine dell’intellettuale protagonista della storia e svalutano la funzione del poeta. Riprendono Pascoli e le sue poesie “delle piccole cose” e il D’annunzio del “Poema paradisiaco”. Inoltre, nei loro versi si avverte l’influsso di Paul Verlaine (1844-1896) e di altri poeti decadenti francesi e fiamminghi.

I versi dei poeti crepuscolari, liberi da qualsiasi ornamento e privi del peso della tradizione, esprimono un costante bisogno di compianto e confessione.
Nelle liriche di questi autori si avverte la nostalgia per i valori tradizionali perduti e una perenne insoddisfazione che ha come unico obiettivo quello di scovare angoli conosciuti e tranquilli in cui trovare rifugio.

I temi tipici del crepuscolarismo sono facilmente rintracciabili in una dichiarazione epistolare del 1904 di Corrado Govoni, uno dei primi poeti di crepuscolari, indirizzata all’amico Gian Pietro Lucini (1867-1914).
Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie”.

Per quanto riguarda la scelta linguistica, i crepuscolari mostrano una piena coerenza con le tematiche trattate. Le loro poesie sono più vicine alla prosa che alla poesia e i versi, pur essendo animati da un ritmo poetico, spezzano il legame con la metrica tradizionale. Tale inclinazione, priva oltretutto di qualsiasi forma aulica e classicistica, apre la strada al verso libero.

I primi testi del crepuscolarismo compaiono tra il 1899 e il 1904, dall’attività di un gruppo romano, operante attorno a Tito Marrone (1882-1967), Corrado Govoni e Sergio Corazzini, e contemporaneamente, di un gruppo torinese che ha come esponente principale Guido Gozzano.
Accanto a questi due gruppi principali ci sono anche alcuni autori, come Fausto Maria Martini, Marino Moretti e solo per un certo periodo, Aldo Palazzeschi (1885-1974).

L’estate in poesia: “Meriggiare pallido e assorto” di Montale

L’estate in poesia Meriggiare pallido e assorto di Montale

Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale fa parte dei miei ricordi scolastici.
La musica delle sue parole mi aveva incantato e continua a incantarmi, ogni volta che alla mente mi sovvengono i suoi versi e mi ritrovo in solitudine a solfeggiarli.

Una poesia che immediatamente mi rimanda all’estate e ai lunghi e assolati pomeriggi della bella stagione è “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale.
Poeta, scrittore, traduttore, giornalista e critico musicale, nato a Genova il 12 ottobre 1896 e morto a Milano, il 12 settembre del 1981, Montale è ritenuto uno tra i massimi poeti italiani del Novecento.

Visse in anni turbolenti, scossi da eventi storici tragici (vide succedersi ben due guerre mondiali), e già nella sua prima raccolta di poesie, “Ossi di seppia”, del 1925, diede voce alle inquietudini del suo tempo e al male di vivere.

Con le raccolte successive, “Occasioni” del 1939 e “La bufera e altro” del 1956, la sua poetica si approfondisce. Invece, nelle ultime raccolte, tra cui “Satura” del 1971 e “Quaderno di quattro anni” del 1977, tutte scritte dopo la morte della moglie, il poeta affronta nuove tematiche e sperimenta nuovi stili.

Meriggiare pallido e assorto fu scritta probabilmente nel 1916 ed è una tra le poesie più significative del primo Montale. I versi del poeta ci trasportano nella sua Liguria e ci ritroviamo immersi in un caldo pomeriggio estivo, assorti pigramente a osservare e ascoltare quanto accade tra un rovente muro d’orto e uno scorcio di mare lontano.

La scena è piena di vita e ha un suo ritmo speciale: quello dettato dai suoni aspri che fanno da pendant all’aridità del paesaggio.
In questa sorta di singolare partitura, i merli “schioccano”, mentre le serpi “frusciano”, forse alla ricerca di un raggio di sole. A impegnarci visivamente poi, ci sono le formiche che si muovono indaffarate nelle fessure della terra e sulle piante, e noi ci ritroviamo a fissare incuriositi le loro fila che si compongono e si sfaldano alla sommità di piccoli cumuli di terra.
Poi, mentre alle orecchie ci giunge il verso aspro delle cicale, ci rendiamo conto che il paesaggio in cui il poeta ci ha condotto è solo una metafora della vita umana, la cui insensatezza e l’impossibilità di sondarne il significato è rappresentato alla perfezione dall’alta muraglia che sulla cima è cosparsa di cocci aguzzi di bottiglia.

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora si intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Danza: uno spettacolo da ricordare

Grande emozione per lo spettacolo di ieri sera, 22 giugno 2023, organizzato dalla Fondazione Regionale Arte nella danza al teatro Sperimentale di Ancona.

So che cosa significa stare alla sbarra e quanta fatica e sudore costa conquistare maggiore scioltezza e forza. Quanto impegno è richiesto per mantenere una posizione corretta e al contempo sembrare naturali e dare l’impressione a chi guarda che un passo o un movimento sia la cosa più semplice del mondo. Per questo voglio celebrare chi ieri sera mi ha emozionato con la sua fatica, con i sacrifici di ore di lavoro in sala e con tanti batticuori, finché il sipario non si alza e il pubblico diventa visibile dal palcoscenico.

In pratica, ieri sera ho fatto un tuffo nel passato, un tuffo in un mare conosciuto: quello della danza.
Avevo ancora in mente un altro spettacolo organizzato dalla Fondazione Regionale Arte nella danza di Ancona, di diversi anni fa.
Nella mia mente era ancora vivido il ricordo dei colori, della musica e dei costumi e soprattutto, ricordavo gli impeccabili passi di danza. Dopo lo spettacolo di ieri sera, posso dire che avrò altre preziose memorie da serbare.

Lo spettacolo, suddiviso in due parti, si è svolto in due ore, due ore di grandi emozioni, per chi come me ha assistito alle esibizioni di ieri sera.
I danzatori hanno dato vita a una serie di performance coinvolgenti, dove tecnica e interpretazione si sono fuse magnificamente.

Ho apprezzato le scelte musicali e coreografiche, che hanno spaziato sia nel repertorio classico sia in quello moderno.
Magico il gioco delle luci e azzeccatissime le scelte dei costumi, entrambe hanno contribuito favorevolmente a creare uno scenario perfetto in cui esibirsi.

L’unico mio rammarico è per coloro che non sono intervenuti allo spettacolo, perdendo così un’occasione per meravigliarsi.

Il Romanzo, sequenze e procedimenti narrativi #3

Il Romanzo sequenze e procedimenti narrativi 3

Funzioni, sequenze, episodi, sono solo alcuni degli elementi in cui è possibile scomporre un racconto per comprenderne più a fondo la struttura.

Per comprendere ancora meglio la struttura di un romanzo è possibile attuare un’analisi più approfondita: lo smontaggio che consente, come dice la parola stessa, di scomporre in parti più piccole il racconto.
Avremo così le unità o funzioni, cioè delle azioni che sono in relazione con altri elementi della storia e che comportano delle conseguenze nello sviluppo della storia.

Le funzioni non sono tutte uguali, alcune sono più importanti di altre e sono denominate nuclei o cardinali, e si affiancano a quelle secondarie, impiegate per completare e arricchire la narrazione.
In una storia ci sono anche i cosiddetti indizi, una sorta di notazioni integrative che servono a dare informazioni sul carattere o sull’identità del personaggio oppure indicazioni sul tempo o sullo spazio.

L’uso precipuo di uno dei due elementi definisce la classe di appartenenza di un racconto.
Alcuni sono orientati più verso l’utilizzo delle funzioni e per questo si dicono funzionali, ad esempio, i romanzi storici, dove sono narrate molte azioni. Chiaramente indiziali, invece, sono i romanzi psicologici.

Scomponendo ulteriormente il nostro tessuto narrativo, diciamo che le funzioni sono una combinazione di sequenze collegate fra loro. Le sequenze possono essere:

  • descrittive, quando, ad esempio, servono a descrivere il carattere dei personaggi oppure le caratteristiche dell’ambiente
  • narrative, quando sono costituite da azioni e danno vita alla trama
  • riflessive, quando veicolano le opinioni dei personaggi oppure dell’autore in merito alle vicende

Per individuare le sequenze ci sono di aiuto alcune evidenze:

  • un cambiamento di luogo o di tempo
  • l’entrata o l’uscita di un personaggio
  • variazione nel modo di narrare

Le sequenze, inoltre, possono anche raggrupparsi tra loro e dare vita agli episodi o macrosequenze.

Ovviamente, queste regole di scomposizione non si possono applicare in modo rigido e letterale, bensì devono essere adattate al testo che si sta prendendo in esame.

Grand Tour in Italia: fenomeno di costume per i letterati dell’800

Il Grand Tour in Italia tra bellezze artistiche e meraviglie naturali era un’usanza ottocentesca che ha spinto molti letterati aristocratici a viaggiare per attuare un percorso di formazione.

Da sempre meta di viaggiatori in cerca di storia e di bellezze artistiche, l’Italia ha attirato, in particolare, numerosi letterati stranieri nell’800, quando venire nel nostro Paese significava compiere un viaggio formativo, denominato Grand Tour.

Questo singolare viaggio era appannaggio dei rampolli dell’alta società, di solito inglesi. Gli stranieri consideravano il Grand Tour come parte dell’educazione culturale. E quale migliore formazione si poteva sperare, se non visitando la patria dell’arte.

Durante il viaggio, gli scrittori traducevano nei loro diari o epistolari le impressioni suscitate dal viaggio e successivamente, le trasponevano nei romanzi, dove finivano per costituire un implicito invito ai lettori a recarsi in Italia, il meraviglioso belpaese.

Tra gli scrittori che intrapresero felicemente il Grand Tour possiamo citare: Goethe (1749-1832), Dickens (1812-1870), Forster (1879-1970), George Eliot (1819-1880), Louisa May Alcott (1832-1888) e molti altri che come loro hanno riportato nei loro scritti momenti particolari di vita e impressioni varie, muovendosi dal nord al sud del Paese.

Intraprendere un simile viaggio nell’Ottocento non era impresa facile.
Ci si spostava su scomode carrozze che si destreggiavano su strade sconnesse e persino rischiose. Si affrontavano arrampicate su valli alpine “perduti in contemplazione delle nere rocce, delle cime e dei burroni paurosi, degli spazi di neve fresca, formatisi nei crepacci e nelle vallette, e dei torrenti tumultuosi che rombavano giù, a precipizio, nell’abisso profondo“, ci informa Dickens con dovizia di particolari.

Non ci si deve dunque meravigliare se per portare a buon fine questi Grand Tour a volte ci si impiegava degli anni. Per fortuna, rispetto agli odierni viaggi, c’era il vantaggio, per gli avventurosi turisti della cultura, che il costo della vita in Italia era sicuramente meno dispendioso di quello di altri Paesi.

I visitatori, oltre a prendersi tutto il tempo necessario, sceglievano le mete più ambite: Firenze, Venezia, Roma e Napoli, ma non erano disdegnati neppure i laghi e altre città minori.

Certe città lasciavano il segno su alcuni, mentre non avevano alcun effetto su altri.
Ad esempio, Dickens affermò che Milano, completamente occultata dalla nebbia – tanto da far sparire persino il Duomo – poteva essere tranquillamente scambiata per Bombay, mentre George Eliot rimane colpita dalla Galleria di Brera e dalla Biblioteca Ambrosiana.

A impressionare Oscar Wilde (1854-1900) è invece Firenze, con le sue bellezze artistiche e si rammaricherà molto di doversene andare. Però, a lasciarlo letteralmente di stucco fu Venezia, anche se le gondole nere che solcavano le acque della laguna gli richiamavano dei funesti carri funebri.

Non possiamo ovviamente tralasciare, Goethe, turista d’eccezione, che affrontò il suo Grand Tour in Italia tra il 1786 e il 1788.
Il poeta e scrittore attraversò tutto il Paese, da nord a sud, soppesando a ogni sosta monumenti, chiese e ville, e ammirando al contempo i paesaggi e le bellezze naturali delle piccole città. Inoltre resterà affascinato anche dagli abitanti e dalle particolari usanze, come la raccolta delle olive.
Attratto da Roma, resterà però particolarmente colpito dalla Sicilia, pur criticando la sporcizia e la polvere sulle strade.

I Grand Tour e i successivi resoconti dei viaggiatori fecero da cassa di risonanza e spinsero altri viaggiatori a coprire distanze anche considerevoli, per ammirare il Bel Paese, dando vita a quello che in epoche successive fu definito come turismo.

A intraprendere arditamente il Grand Tour non furono però solo gli uomini. Ci sono state diverse viaggiatrici che, sfidando le convezioni sociali, hanno affrontato gli incomodi del viaggio di formazione.
Una donna che viaggiava, soprattutto da sola e in un paese sconosciuto, non era ben vista, quanto meno non doveva essere una donna troppo rispettabile. Nonostante ciò, una schiera di donne coraggiose ha comunque raggiunto l’Italia e goduto delle bellezze artistiche del nostro Paese. Hanno anche annotato, come i loro colleghi uomini, impressioni, valutazioni e critiche e soprattutto, hanno dimostrato un maggior senso pratico e spirito di adattamento.

Tra le avventurose viaggiatrici citiamo: Madame de Staël (1766-1817), George Eliot che si dimostrerà molto critica e che resterà colpita più dalle bellezze naturali che da quelle artistiche.
Louisa May Alcott invece fece un secondo viaggio in Europa nel 1870, dopo il successo del suo libro “Piccole donne”. Insieme alla sorella e a un’amica giunse in Italia, passando per Milano. Nei suoi appunti di viaggio dirà che il Duomo era simile a un grande dolce di nozze, mentre a Roma, più che dalla città fu affascinata dalla campagna romana.

Il Grand Tour in Italia ha lasciato diversi segni.
Nelle città, visitate da questi turisti speciali, sono presenti varie targhe marmoree che testimoniano questa sorta di pellegrinaggio culturale. Ma soprattutto, la memoria di questi viaggi è viva nelle pagine dei libri, dove, in vario modo, ogni scrittore o scrittrice che ha attraversato l’Italia, ha tradotto la propria esperienza di viaggio, descrivendo luoghi e usanze, e più di un personaggio ha visto la sua prima scintilla di vita in un piccolo villaggio o in una grande città del nostro meraviglioso Paese.

In copertina: James Tissot, “London Visitors” (1874 ca.), olio su tela (dimensioni: 160 x 114 cm), conservato presso il Museo d’arte di Toledo