Romanzo storico: genere romantico per eccellenza

Il romanzo storico, genere narrativo che si è diffuso in particolare nel secolo XIX, ha reso la storia un elemento di rilievo della narrazione.

Per romanzo storico si intende un’opera narrativa che si svolge nel passato. Per cui non solo la trama, ma anche gli usi e i costumi, i dialoghi e l’atmosfera generale ricalcano quelli dell’epoca scelta, così da consentire al lettore di calarsi in quel periodo.

È un genere tipicamente romantico e si è diffuso in particolare durante l’Ottocento, grazie a una serie di fattori, come ad esempio: l’affermazione del pensiero e del metodo scientifico che incentivò il rinnovamento degli studi storici; il consolidarsi nell’ambito filosofico dell’idea che le esistenze individuali siano condizionate dalla storia; i crescenti sentimenti nazionalisti che spingevano per un recupero sia delle grandezze passate dei popoli sia di figure esemplari da cui trarre ispirazione.

Un romanzo si può definire storico, quando l’autore del testo non era ancora in vita quando i fatti raccontati sono avvenuti o il libro è stato scritto almeno cinquanta anni dopo quello che è raccontato tra le sue pagine.
Si tratta di un genere in grado di abbracciare vari stili: ucronico (“ucronìa” deriva dal greco e significa “nessun tempo“. Il primo a utilizzare questo termine fu il filosofo francese Charles Renouvier (1815 – 1903) in un saggio, “Uchronie”, del 1857; identifica un genere di narrativa fantastica fondata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale); fanta-storico (il fantasy storico è un sottogenere del fantasy che, per alcuni aspetti, può essere avvicinato al romanzo storico); pseudo-storico (pseudostoria, ambito delle teorie o metodologie che pretendono di essere storiche ma che non rispettano regole e convenzioni del metodo storico. Le teorie pseudostoriche solitamente utilizzano come punto di partenza prove inedite, e/o controverse e/o non accettate dalla comunità scientifica/accademica); multitemporale (particolare versione del romanzo storico in cui si raccontano in parallelo o in successione accadimenti ambientati in epoche storiche diverse, ma collegate tra loro da un elemento: un oggetto, un legame di sangue o qualcosa di metafisico).

Chi si dedica alla scrittura del romanzo storico, un genere che si può definire ibrido, può fare riferimento alle vicende di personaggi realmente esistiti oppure può narrare eventi accaduti a personaggi di pura invenzione.

Le ambientazioni storiche non sono una prerogativa ottocentesca, infatti, già prima del XIX secolo, erano state adottate da William Shakespeare (1564 – 1616) in alcuni sui drammi e persino in Italia, nel Seicento, troviamo esempi simili.
Il XVIII secolo poi, ci ha regalato diversi grandi romanzi realistico sociali, purtroppo, gli autori di quel periodo avevano una certa difficoltà a rendere pienamente le ambientazioni passate. Oltretutto, nei generi che anticipano il romanticismo (in particolare il gotico e il picaresco) la storia non era un elemento essenziale della narrazione, piuttosto un elemento statico, uno scenario su cui proiettare l’azione e le gesta dei personaggi.
Nell’Ottocento, la situazione si ribalta: la storia diventa una vera e propria protagonista della narrazione e gli autori studiano e si documentano affinché i loro scritti risultino attendibili, il più possibile.

Tra i romanzi storici preromantici uno si distingue per aver posto il suo eroe in un quadro storico ben definito, sicuramente frutto di accurati studi su fonti e documenti storici. Si tratta di “Memorie di un cavaliere” (1720) di Daniel Defoe (1660 – 1731). Questo romanzo è una sorta di pietra miliare, in quanto ha dato il via in Inghilterra a un genere letterario nuovo e un secolo dopo, influenzò il lavoro di Walter Scott (1771 – 1832).

L’estate in poesia: “Meriggiare pallido e assorto” di Montale

L’estate in poesia Meriggiare pallido e assorto di Montale

Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale fa parte dei miei ricordi scolastici.
La musica delle sue parole mi aveva incantato e continua a incantarmi, ogni volta che alla mente mi sovvengono i suoi versi e mi ritrovo in solitudine a solfeggiarli.

Una poesia che immediatamente mi rimanda all’estate e ai lunghi e assolati pomeriggi della bella stagione è “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale.
Poeta, scrittore, traduttore, giornalista e critico musicale, nato a Genova il 12 ottobre 1896 e morto a Milano, il 12 settembre del 1981, Montale è ritenuto uno tra i massimi poeti italiani del Novecento.

Visse in anni turbolenti, scossi da eventi storici tragici (vide succedersi ben due guerre mondiali), e già nella sua prima raccolta di poesie, “Ossi di seppia”, del 1925, diede voce alle inquietudini del suo tempo e al male di vivere.

Con le raccolte successive, “Occasioni” del 1939 e “La bufera e altro” del 1956, la sua poetica si approfondisce. Invece, nelle ultime raccolte, tra cui “Satura” del 1971 e “Quaderno di quattro anni” del 1977, tutte scritte dopo la morte della moglie, il poeta affronta nuove tematiche e sperimenta nuovi stili.

Meriggiare pallido e assorto fu scritta probabilmente nel 1916 ed è una tra le poesie più significative del primo Montale. I versi del poeta ci trasportano nella sua Liguria e ci ritroviamo immersi in un caldo pomeriggio estivo, assorti pigramente a osservare e ascoltare quanto accade tra un rovente muro d’orto e uno scorcio di mare lontano.

La scena è piena di vita e ha un suo ritmo speciale: quello dettato dai suoni aspri che fanno da pendant all’aridità del paesaggio.
In questa sorta di singolare partitura, i merli “schioccano”, mentre le serpi “frusciano”, forse alla ricerca di un raggio di sole. A impegnarci visivamente poi, ci sono le formiche che si muovono indaffarate nelle fessure della terra e sulle piante, e noi ci ritroviamo a fissare incuriositi le loro fila che si compongono e si sfaldano alla sommità di piccoli cumuli di terra.
Poi, mentre alle orecchie ci giunge il verso aspro delle cicale, ci rendiamo conto che il paesaggio in cui il poeta ci ha condotto è solo una metafora della vita umana, la cui insensatezza e l’impossibilità di sondarne il significato è rappresentato alla perfezione dall’alta muraglia che sulla cima è cosparsa di cocci aguzzi di bottiglia.

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora si intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Il Romanzo, sequenze e procedimenti narrativi #3

Il Romanzo sequenze e procedimenti narrativi 3

Funzioni, sequenze, episodi, sono solo alcuni degli elementi in cui è possibile scomporre un racconto per comprenderne più a fondo la struttura.

Per comprendere ancora meglio la struttura di un romanzo è possibile attuare un’analisi più approfondita: lo smontaggio che consente, come dice la parola stessa, di scomporre in parti più piccole il racconto.
Avremo così le unità o funzioni, cioè delle azioni che sono in relazione con altri elementi della storia e che comportano delle conseguenze nello sviluppo della storia.

Le funzioni non sono tutte uguali, alcune sono più importanti di altre e sono denominate nuclei o cardinali, e si affiancano a quelle secondarie, impiegate per completare e arricchire la narrazione.
In una storia ci sono anche i cosiddetti indizi, una sorta di notazioni integrative che servono a dare informazioni sul carattere o sull’identità del personaggio oppure indicazioni sul tempo o sullo spazio.

L’uso precipuo di uno dei due elementi definisce la classe di appartenenza di un racconto.
Alcuni sono orientati più verso l’utilizzo delle funzioni e per questo si dicono funzionali, ad esempio, i romanzi storici, dove sono narrate molte azioni. Chiaramente indiziali, invece, sono i romanzi psicologici.

Scomponendo ulteriormente il nostro tessuto narrativo, diciamo che le funzioni sono una combinazione di sequenze collegate fra loro. Le sequenze possono essere:

  • descrittive, quando, ad esempio, servono a descrivere il carattere dei personaggi oppure le caratteristiche dell’ambiente
  • narrative, quando sono costituite da azioni e danno vita alla trama
  • riflessive, quando veicolano le opinioni dei personaggi oppure dell’autore in merito alle vicende

Per individuare le sequenze ci sono di aiuto alcune evidenze:

  • un cambiamento di luogo o di tempo
  • l’entrata o l’uscita di un personaggio
  • variazione nel modo di narrare

Le sequenze, inoltre, possono anche raggrupparsi tra loro e dare vita agli episodi o macrosequenze.

Ovviamente, queste regole di scomposizione non si possono applicare in modo rigido e letterale, bensì devono essere adattate al testo che si sta prendendo in esame.

Grand Tour in Italia: fenomeno di costume per i letterati dell’800

Il Grand Tour in Italia tra bellezze artistiche e meraviglie naturali era un’usanza ottocentesca che ha spinto molti letterati aristocratici a viaggiare per attuare un percorso di formazione.

Da sempre meta di viaggiatori in cerca di storia e di bellezze artistiche, l’Italia ha attirato, in particolare, numerosi letterati stranieri nell’800, quando venire nel nostro Paese significava compiere un viaggio formativo, denominato Grand Tour.

Questo singolare viaggio era appannaggio dei rampolli dell’alta società, di solito inglesi. Gli stranieri consideravano il Grand Tour come parte dell’educazione culturale. E quale migliore formazione si poteva sperare, se non visitando la patria dell’arte.

Durante il viaggio, gli scrittori traducevano nei loro diari o epistolari le impressioni suscitate dal viaggio e successivamente, le trasponevano nei romanzi, dove finivano per costituire un implicito invito ai lettori a recarsi in Italia, il meraviglioso belpaese.

Tra gli scrittori che intrapresero felicemente il Grand Tour possiamo citare: Goethe (1749-1832), Dickens (1812-1870), Forster (1879-1970), George Eliot (1819-1880), Louisa May Alcott (1832-1888) e molti altri che come loro hanno riportato nei loro scritti momenti particolari di vita e impressioni varie, muovendosi dal nord al sud del Paese.

Intraprendere un simile viaggio nell’Ottocento non era impresa facile.
Ci si spostava su scomode carrozze che si destreggiavano su strade sconnesse e persino rischiose. Si affrontavano arrampicate su valli alpine “perduti in contemplazione delle nere rocce, delle cime e dei burroni paurosi, degli spazi di neve fresca, formatisi nei crepacci e nelle vallette, e dei torrenti tumultuosi che rombavano giù, a precipizio, nell’abisso profondo“, ci informa Dickens con dovizia di particolari.

Non ci si deve dunque meravigliare se per portare a buon fine questi Grand Tour a volte ci si impiegava degli anni. Per fortuna, rispetto agli odierni viaggi, c’era il vantaggio, per gli avventurosi turisti della cultura, che il costo della vita in Italia era sicuramente meno dispendioso di quello di altri Paesi.

I visitatori, oltre a prendersi tutto il tempo necessario, sceglievano le mete più ambite: Firenze, Venezia, Roma e Napoli, ma non erano disdegnati neppure i laghi e altre città minori.

Certe città lasciavano il segno su alcuni, mentre non avevano alcun effetto su altri.
Ad esempio, Dickens affermò che Milano, completamente occultata dalla nebbia – tanto da far sparire persino il Duomo – poteva essere tranquillamente scambiata per Bombay, mentre George Eliot rimane colpita dalla Galleria di Brera e dalla Biblioteca Ambrosiana.

A impressionare Oscar Wilde (1854-1900) è invece Firenze, con le sue bellezze artistiche e si rammaricherà molto di doversene andare. Però, a lasciarlo letteralmente di stucco fu Venezia, anche se le gondole nere che solcavano le acque della laguna gli richiamavano dei funesti carri funebri.

Non possiamo ovviamente tralasciare, Goethe, turista d’eccezione, che affrontò il suo Grand Tour in Italia tra il 1786 e il 1788.
Il poeta e scrittore attraversò tutto il Paese, da nord a sud, soppesando a ogni sosta monumenti, chiese e ville, e ammirando al contempo i paesaggi e le bellezze naturali delle piccole città. Inoltre resterà affascinato anche dagli abitanti e dalle particolari usanze, come la raccolta delle olive.
Attratto da Roma, resterà però particolarmente colpito dalla Sicilia, pur criticando la sporcizia e la polvere sulle strade.

I Grand Tour e i successivi resoconti dei viaggiatori fecero da cassa di risonanza e spinsero altri viaggiatori a coprire distanze anche considerevoli, per ammirare il Bel Paese, dando vita a quello che in epoche successive fu definito come turismo.

A intraprendere arditamente il Grand Tour non furono però solo gli uomini. Ci sono state diverse viaggiatrici che, sfidando le convezioni sociali, hanno affrontato gli incomodi del viaggio di formazione.
Una donna che viaggiava, soprattutto da sola e in un paese sconosciuto, non era ben vista, quanto meno non doveva essere una donna troppo rispettabile. Nonostante ciò, una schiera di donne coraggiose ha comunque raggiunto l’Italia e goduto delle bellezze artistiche del nostro Paese. Hanno anche annotato, come i loro colleghi uomini, impressioni, valutazioni e critiche e soprattutto, hanno dimostrato un maggior senso pratico e spirito di adattamento.

Tra le avventurose viaggiatrici citiamo: Madame de Staël (1766-1817), George Eliot che si dimostrerà molto critica e che resterà colpita più dalle bellezze naturali che da quelle artistiche.
Louisa May Alcott invece fece un secondo viaggio in Europa nel 1870, dopo il successo del suo libro “Piccole donne”. Insieme alla sorella e a un’amica giunse in Italia, passando per Milano. Nei suoi appunti di viaggio dirà che il Duomo era simile a un grande dolce di nozze, mentre a Roma, più che dalla città fu affascinata dalla campagna romana.

Il Grand Tour in Italia ha lasciato diversi segni.
Nelle città, visitate da questi turisti speciali, sono presenti varie targhe marmoree che testimoniano questa sorta di pellegrinaggio culturale. Ma soprattutto, la memoria di questi viaggi è viva nelle pagine dei libri, dove, in vario modo, ogni scrittore o scrittrice che ha attraversato l’Italia, ha tradotto la propria esperienza di viaggio, descrivendo luoghi e usanze, e più di un personaggio ha visto la sua prima scintilla di vita in un piccolo villaggio o in una grande città del nostro meraviglioso Paese.

In copertina: James Tissot, “London Visitors” (1874 ca.), olio su tela (dimensioni: 160 x 114 cm), conservato presso il Museo d’arte di Toledo

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #3

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #3

Le vicissitudini di Ulisse sembrano non finire mai e ogni tappa del suo lungo viaggio ci mostra con più chiarezza la sua figura e le sue notevoli capacità.

Dopo il terribile ciclope, Ulisse approda sull’isola di Eolo, uomo benvoluto dagli dèi, che comanda i venti. L’eroe e i suoi compagni godono per un mese della sua ospitalità e Odisseo riceve in dono l’otre dei venti, con una raccomandazione: nessuno dovrà aprirlo. Purtroppo, quando sono ormai vicini a Itaca, i compagni di Odisseo, invidiosi del dono, mentre Ulisse dorme, infrangono la promessa e aprono l’otre, scatenando i venti che li riconducono al largo.

La quinta tappa del viaggio vede i nostri eroi giungere presso i Lestrigoni, giganti mostruosi, quasi quanto i ciclopi. Ulisse per colpa loro perderà alcuni compagni, inoltre, i giganti riusciranno ad affondare ben undici navi della flotta; solo quella di Ulisse riuscirà a mettersi in salvo.

Nella tappa successiva, Ulisse finisce sull’isola di Circe, dea seducente che trasforma i compagni di Odisseo in porci. Solo grazie all’aiuto di Ermes, che dà all’eroe una misteriosa erba, come antidoto alla maledizione, Ulisse riuscirà a evitare di finire come i suoi compagni e poi, costringerà la dea a far tornare alle originarie fattezze i suoi uomini.

Ulisse rimane per un anno sull’isola di Circe e poi, dietro sua indicazione, intraprenderà una nuova prova: un viaggio nell’Ade, il regno dei morti. Qui, incontrerà diverse figure: i compagni uccisi durante la guerra di Troia, sua madre e l’indovino Tiresia che gli preannuncerà un ritorno luttuoso e contrastato.

Tornato nel mondo dei vivi, Ulisse verrà istruito da Circe sulla rotta da seguire e su come affrontare sia le Sirene sia Scilla e Cariddi. Inoltre, lo invita a evitare di toccare le vacche del Sole iperionide.

Alla settima tappa, Ulisse deve vedersela con le insidiose sirene. Come gli ha consigliato Circe, tappa le orecchie dei suoi compagni, mentre lui si fa legare all’albero maestro della nave, per poter udire il loro canto, senza però dover morire come tutti coloro che imprudentemente lo hanno ascoltano. Superato lo scoglio delle sirene, Ulisse procede verso lo stretto di Messina.

Ora, Odisseo deve affrontare Scilla e Cariddi. Purtroppo, l’infausto incontro porta ad altre perdite e sciagure: Scilla mangia diversi uomini, mentre Cariddi risucchia le acque.

Dopo aver affrontato i due mostri, i superstiti approdano sull’isola di Trinacria e Odisseo, pur tentando, non riesce a evitare che i suoi compagni banchettino con le invitanti mucche di Elio. Per questo, dovranno affrontare nove giorni in mare, in mezzo a terribili tempeste scatenate da Giove.

Ulisse riesce a salvarsi anche da questa prova e giunge sull’isola di Ogigia, qui incontra Calipso, una ninfa molto bella e immortale. La giovane si innamora perdutamente di lui e cerca di trattenerlo presso di sé. Dopo sette anni di permanenza presso la ninfa, Ulisse riesce finalmente a ripartire, ma a un passo da Itaca, Poseidone lo fermerà. Odisseo avrà però l’aiuto della dea marina Ino e approderà sull’isola dei Feaci.

Di nuovo naufrago, Ulisse incontra ancora una giovane donna, Nausicaa, figlia del re Alcìnoo, che gli fornirà dei vestiti e gli indicherà come raggiungere la reggia del re dei Feaci. In presenza del re, narrerà tutte le sue peripezie e otterrà una nave per tornare a casa. Il giorno successivo al naufragio, il nostro eroe riparte di nuovo, facendo vela verso Itaca.

Finalmente, Ulisse riesce a mettere piede sulla sua isola. Da qui in poi, sarà Atena a guidare i suoi passi verso una piena riconquista dei suoi poteri e della sua carica.

Inizialmente, l’eroe, sotto le mentite spoglie di un mendicante, si farà ospitare da Eumeo. Poi si rivelerà a questi e a suo figlio Telemaco, prima di recarsi alla reggia, sempre nelle vesti di mendicante.

Quando giunge a destinazione, è in preparazione una gara di arco, voluta da Penelope che ha promesso di diventare sposa di chiunque riesca a scoccare una freccia dall’arco del marito, facendola passare per le fessure di dodici scuri allineate.

I Proci, pretendenti al trono, tentano la sorte, ma nessuno di loro riesce anche solo a tendere l’arco. Il mendicante, schernito dai Proci, chiede a sua volta di fare un tentativo e riesce nell’impresa di tendere l’arco e scoccare la freccia.

A questo punto, aiutato da Eumeo, Filezio e il figlio compie la sua vendetta. I Proci sono disarmati e lui li uccide. Nonostante le affermazioni del figlio e di Euriclea, Penelope però non è convinta che suo marito sia davvero tornato, così mette alla prova lo sconosciuto: gli chiede di spostare il loro talamo nuziale. Si tratta di un tranello che Ulisse aggira facilmente. È stato lui a intagliare in un ulivo ancora in vita il letto nuziale e quindi, sa che non può essere spostato dalla stanza in cui si trova. Penelope finalmente riconosce il marito e lo stringe forte, piangendo.

Per un eroe che ha compiuto così tante imprese ipotizzare una sola morte sembra a dir poco riduttivo e infatti, diversi scrittori si sono cimentati in questo compito: letteratura e miti ci forniscono addirittura cinque versioni diverse del tragico evento.

C’è chi lo vuole morto in battaglia, chi in mare dopo terribili naufragi, chi compiendo una profezia per poter morire in pace, chi di semplice vecchiaia.

Il mito di Ulisse ha interessato in vario modo cinema e televisione. La prima trasposizione cinematografica delle sue esperienze avventurose risale al 1911, per opera di Giuseppe de Liguoro.

Nel 1955, l’eroe approda al grande schermo, interpretato da Kirk Douglas.
Nel 1968, l’Odissea diventa uno sceneggiato televisivo Rai, con la regia di Franco Rossi. Questa trasposizione televisiva del poema, a parte poche eccezioni, riassume in modo completo e fedele la storia raccontata da Omero.
Negli anni successivi furono realizzate altre trasposizioni di vario genere, tra cui varie parodie.

La fama di Ulisse, del suo nome e delle sue mitiche gesta sono giunte persino alle stelle: un cratere di 445 km di diametro su Teti è stato denominato Odisseo.

In copertina: Arnold Böcklin, “Ulisse e Calipso” (1882), olio su mogano, dimensioni 149,8 x 103,5 cm, conservato presso il Kunstmuseum Basel

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #2

Ulisse eroe moderno dalle radici mitologiche 2

Ulisse è un eroe dalla mente pronta e ingegnosa, grazie alla quale, dopo tante peripezie riesce a tornare in Patria, nella sua casa, ai suoi affetti familiari.

Per quanto riguarda le vicende legate al cavallo di Troia ci sono parecchie versioni discordanti che vede Ulisse come artefice del progetto, mentre in altre appare come un usurpatore della felice idea di qualcun altro. Diverse sono anche le ipotesi riguardo al cavallo stesso: in un caso, considerato una macchina bellica al servizio dei Greci per distruggere le mura della città; in un altro, ritenuto dai Troiani un dono di Atena.

Nell’Odissea, Ulisse è il protagonista incontrastato della storia, anche se molte figure, a dir poco singolari, compaiono nella vicenda. Il tema conduttore invece, è il tanto sospirato ritorno a casa dell’eroe che in tutto il suo lungo vagare ha un unico desiderio: tornare agli affetti familiari e alla sua Itaca, dopo ben dieci anni passati a Troia a causa della guerra.

A impedire il ritorno a casa di Ulisse è Poseidone, così, se per tornare a casa devi affrontare il mare, avere contro le ire di chi gestisce il regno delle acque non può portare a nulla di buono.
Infatti, il nostro Odisseo si troverà coinvolto in un’infinità di incidenti e incredibili peripezie e solo dopo altri dieci anni, e grazie all’aiuto della dea Atena, potrà di nuovo toccare il suolo natio.

Come le fatiche di Ercole, anche le tappe che tengono impegnato il nostro eroe sono dodici.
Questo numero è ritenuto il più sacro tra i numeri, insieme al tre e al sette. Esso indica la ricomposizione della totalità originaria, cioè la discesa in terra di un modello cosmico di pienezza e di armonia. Il suo significato indica la conclusione di un ciclo compiuto, inoltre, è il simbolo della prova iniziatica fondamentale, prova che consente di passare da un piano ordinario a un piano superiore, sacro. Esso ha un significato esoterico molto forte, in quanto collegato alle prove fisiche e mistiche che deve compire l’iniziato.

Nei “dodici episodi” in cui si struttura la sua avventura, Ulisse incappa in situazioni di ogni genere, accomunate però da due fattori. Ci sono tappe che possono essere raggruppate tra quelle in cui l’insidia è manifesta (mostruosità, aggressione, morte); altre in cui invece l’insidia è solo latente (un’ospitalità che cela un pericolo, un divieto che non si deve infrangere).

Inoltre, il nostro povero Ulisse – ci sarà un motivo per cui di fronte a ostacoli continui e insormontabili sosteniamo che “si è trattato di un’odissea” – non può coronare il suo sogno di raggiungere Itaca, perché Poseidone gli sferra contro venti furiosi; lo costringe a continui naufragi; lo spinge verso approdi perigliosi.

Vediamo in sintesi le dodici tappe affrontate dal nostro impavido eroe.
Appena partito da Troia, si ferma a Ismaro, terra dei Ciconi. Per fare bottino li attacca, ma risparmia Marone, sacerdote di Apollo, che in cambio gli dà del vino forte e dolcissimo, cruciale per la sortita nella grotta di Polifemo.

La seconda tappa vede Ulisse e i suoi uomini approdare nella terra dei Lotofagi (mangiatori di loto). Essi accolgono benevolmente i nuovi arrivati, ma si rivelano degli ospiti insidiosi: offrono infatti ai compagni di Ulisse il loto, un frutto che fa dimenticare il ritorno. Il nostro eroe, per ricondurli alla ragione, si trova costretto a legarli e a trascinarli di peso sulle navi.

La terza tappa ci conduce dritti dritti nella grotta del ciclope Polifemo.
Ulisse, giunto su un’isola abitata dalle ninfe, decide di spostarsi su un’isola vicina, così prende una nave e là si reca con alcuni compagni. Qui finiscono nella grotta di Polifemo che è fuori a pascolare il suo gregge.
Nella grotta ci sono graticci pieni di formaggi enormi e latte appena munto. I compagni di Odisseo suggeriscono di prendere i formaggi e fuggire, ma Ulisse vuole ricevere i doni dell’ospitalità.
Quando Polifemo torna alla grotta, l’eroe e i suoi compagni scoprono che il loro ospite è davvero orrendo: un gigante che possiede un unico occhio in mezzo alla fronte. Quando si accorge della loro presenza, sta preparando la cena, così prende due compagni di Ulisse e li divora. Poi va a dormire, mentre il nostro eroe studia come tirarsi fuori da questo rognoso impiccio.

All’inizio, pensa di ucciderlo con la spada, ma poi capisce che lui e i suoi compagni resterebbero imprigionati all’interno della grotta, e per loro morire sarebbe solo una questione di tempo, in quanto, pur compiendo sforzi sovrumani, non sarebbero in grado di spostare l’enorme macigno che chiude l’accesso alla grotta.
Allora, Ulisse nota un ramo d’ulivo, gigantesco; ordina ai compagni di tagliarne un pezzo, mentre lui lo appuntisce.
La sera successiva. l’eroe offre al ciclope il vino donatogli da Marone. Polifemo è contento del dono e chiede a Ulisse il suo nome; l’eroe gli dice di chiamarsi “Nessuno” (in greco la parola ha assonanza con il nome di Odisseo). Il ciclope si addormenta, ubriaco; Ulisse e i suoi compagni afferrano l’opportunità: prendono il ramo, rendono la sua punta incandescente e poi, accecano Polifemo.
Il gigante urla di dolore; in suo aiuto accorrono i suoi due fratelli, ma ritornano indietro quando il ciclope dice: “Nessuno, amici, mi uccide con l’inganno e non con la forza“.
Il giorno successivo, Polifemo fa uscire a pascolare le pecore. Per far sì che Ulisse e i suoi uomini non scappino, il gigante stende le mani e tocca il vello delle pecore, ma il nostro eroe e i suoi compagni si legano sotto dei montoni e riescono a uscire dalla grotta illesi.

(prosegue)

In copertina: Giovanni Domenico Tiepolo “Processione del cavallo di Troia” (1760 ca.) dimensioni 67×39 cm (National Gallery)

Ulisse, eroe moderno dalle radici mitologiche #1

Ulisse eroe moderno dalle radici mitologiche 1

Le gesta di Ulisse che tenta disperatamente e attraverso mille peripezie di tornare alla sua amata Itaca fanno ormai parte del nostro immaginario e tuttora, restiamo affascinanti dalla sua astuzia e commossi dalla sua perseveranza.

Ulisse oppure Odisseo, figlio di Anticlea e Laerte, e Re di Itaca, è un personaggio della mitologia greca, un eroe acheo, sposo di Penelope e padre di Telemaco, descritto da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, in quest’ultimo poema compare come protagonista.

Del nome Odisseo sono state ipotizzate varie etimologie. La più comune è “iroso”, che però, non rispecchia in alcun modo il carattere del personaggio, almeno per quello che ne sappiamo leggendo il poema di Omero.
In ogni caso, il nome gli fu imposto dal nonno materno, Autolico, che secondo la sua personale interpretazione significava: “odiato dai nemici“, nemici che si sarebbe fatto per le capacità della sua mente.
Un’altra interpretazione del nome di Odisseo è “il piccolo”, quest’ultima definizione aderisce con l’affermazione fatta dall’autore riguardo alla statura di Odisseo: non altissima.

Il nome Ulisse, invece, gli fu dato dai Romani. Il nostro eroe mitologico è la “personificazione” dell’ingegno, del coraggio, della curiosità e dell’abilità manuale.
Passando in rassegna le sue origini, scopriamo che era pronipote di Ermes, mentre già sappiamo che era il marito di Penelope e il padre di Telemaco.
Se prestiamo orecchio a un’altra tradizione, dovremmo valutare l’ipotesi che il vero padre di Ulisse fosse Sisifo, che lo ebbe da Anticlea, prima che lei diventasse la moglie di Laerte.
Dal canto suo, Ulisse sosteneva di discendere per via paterna addirittura dal re degli dèi olimpi, Giove, in quanto il padre di Laerte, Arcesio, sarebbe stato figlio di Giove.

Nell’Iliade, il personaggio di Ulisse era, a detta di Omero, già piuttosto noto ai lettori e il poeta sembra avere contezza di altre favole sull’eroe dell’Odissea, oltre a quelle da lui narrate, al punto che non può togliere il personaggio dal racconto, nonostante Ulisse non abbia nell’Iliade quella parte essenziale che invece hanno personaggi come Agamennone, Menelao e Achille.
Si ipotizza che Ulisse sia una figura mitica anteriore addirittura alla colonizzazione greca oltre l’Egeo, anche se, più verosimile è l’idea che in origine si trattasse di un dio, un dio solare che scende nell’Ade come il sole che va al tramonto, ma che alla fine riesce a liberarsi, grazie all’astuzia, dai mostri del mondo sotterraneo per risorgere al mattino.

Ulisse è ritratto con grande coerenza nei due poemi di Omero. È un guerriero sagace e robusto, ardito in battaglia, oltre che scaltro e abile d’ingegno.
È un uomo che affronta con grande temerarietà e costanza pericoli e vicissitudini, ed è dotato di una notevole presenza di spirito, che lo spinge a cercare per sé e per gli altri possibili vie di salvezza.
Omero lo rappresenta come un uomo che ama profondamente la patria e la famiglia, e di entrambe avverte un’acuta nostalgia, mentre si dibatte tra mille difficoltà.
È chiaramente un uomo giusto: non mostra crudeltà nei confronti dei nemici ed è fedele verso gli amici. Inoltre, è paterno verso i suoi sudditi di Itaca e mostra amorevolezza nei confronti dei servi fedeli, mentre è inflessibile verso chi tradisce la sua fiducia.

Non tutti forse sanno che Ulisse usò la sua arguzia anche prima di allestire la trappola del cavallo di Troia, e lo fece per evitare di tenere fede al giuramento di andare a Troia.
Il nostro eroe aveva i suoi buoni motivi per essere recalcitrante alle richieste di Agamennone, accompagnato da Menelao e Palamede, che si erano recati da lui per convocarlo.
Il motivo della sua ritrosia era semplice: un oracolo gli aveva preannunciato che se fosse andato a Troia, avrebbe fatto ritorno in patria solo dopo vent’anni e in condizioni di miseria.
Ulisse allora pensò bene di mostrarsi pazzo per evitare l’infausta partenza.
Si fece trovare dai tre venuti a convocarlo con un cappello da contadino in testa, mentre arava un campo con un asino e un bue aggiogati insieme, e lanciando sale alle sue spalle.
Purtroppo per lui, Palamede lo superò in astuzia. Per accertarsi del suo vero stato mentale, tolse Telemaco dalle braccia della madre e lo mise a terra, davanti alle zampe delle bestie aggiogate all’aratro. Ulisse arretrò all’istante, tirando le redini e così, la sua follia pretestuosa fu subito smascherata e l’eroe fu costretto ad arruolarsi nella spedizione.

In copertina: Giuseppe Bottani, particolare del dipinto “Atena rivela Itaca a Ulisse” (1775) Pavia (Pinacoteca Malaspina)

(prosegue)

La Discrezione della Servitù: 1° caso per Fulgenzio Marcel dall’Orto

La Discrezione della Servitù 1° caso per Fulgenzio Marcel dall'Orto

Che cosa succede se un parrucchiere abbandona forbici e pettine per risolvere un omicidio?

Lo scoprirete se avrete voglia di avventurarvi tra le pagine dell’ultimo giallo firmato A.J. Evans.
Il protagonista, Fulgenzio Marcel dall’Orto, oltre al nome alquanto singolare, possiede un intuito sopraffino, utile non solo a individuare il miglior taglio o la perfetta acconciatura per ogni vip milanese che frequenta il suo salone, ma anche per condurre un’indagine che lo coinvolge da vicino…

Per altre informazioni, potete leggere l’intervista su questo racconto.

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Il Romanzo, sequenze e procedimenti narrativi #2

Romanzo sequenze e procedimenti narrativi 2

Il romanzo come struttura narrativa può fare conto su strategie che ne indirizzano il percorso, ne caratterizzano l’andamento e ne definiscono lo svolgimento.

Le vicende di qualsiasi romanzo possono evolversi secondo tre principali tipi di sequenza.
La prima è costruita su un miglioramento da ottenere e nella storia può essere previsto un processo di miglioramento oppure no. Se l’autore ha previsto un processo di miglioramento, nel corso della vicenda si potrà raggiungere o meno tale miglioramento.
La seconda, all’inverso della prima, prevede un peggioramento prevedibile. In questo caso, quindi, si avrà o meno un processo di peggioramento. Se nel corso della narrazione è previsto un processo di peggioramento questo potrà condurre a un peggioramento prodotto oppure il peggioramento sarà evitato.
La terza sequenza è un mix delle prime due: il miglioramento e il peggioramento saranno alternati.

Normalmente, un autore inizierà la narrazione con una specifica condizione che, successivamente, si svilupperà in un senso positivo oppure negativo. In effetti, però, le storie lineari sono davvero poche: la norma in un romanzo è l’alternanza tra miglioramento e peggioramento.

Per quanto riguarda i procedimenti narrativi, uno scrittore di romanzi dispone di due procedimenti narrativi fondamentali: quello diretto (gli eventi sono rappresentati come se stessero accadendo davanti ai nostri occhi); quello narrativo (le vicende sono narrate in modo riassuntivo).

Ci si può anche avvalere di un altro procedimento, di sussidio agli altri due, e cioè quello descrittivo.
Questo procedimento non sarà mai usato da solo nel corso di una narrazione, ma sarà sempre associato ad almeno uno degli altri due procedimenti.
La descrizione, inoltre, possiede varie funzioni: mimetica (raffigura un ambiente reale); esornativa (ha un compito a carattere puramente estetico); allegorico-simbolica (esprime verità morali o condizioni psicologiche).

Lo scrittore ha a disposizione anche un altro procedimento, quello argomentativo che è utilizzato al fine di a presentare problemi, fatti e ragionamenti, seguendo un’opinione che, in genere, è quella dell’autore.

A completare il quadro dei modi narrativi su cui lo scrittore può fare affidamento, ci sono anche le varie forme della citazione.
La citazione di parola ha tre forme principali: il monologo (il personaggio parla con un interlocutore presente ma silenzioso); il dialogo (due o più personaggi parlano fra loro); il soliloquio (discorso di un personaggio che si rivolge in modo implicito o esplicito a un destinatario che può essere anche se stesso).

Esiste anche la citazione di pensieri che si avvale di due forme: il monologo interiore; il flusso di coscienza.
Il monologo interiore è innanzitutto in prima persona, al presente, il linguaggio utilizzato è nello stile del personaggio, non prevede un pubblico e neppure un destinatario, l’autore non commenta né interviene in alcun modo.
Il flusso di coscienza è invece dato da un ‘associazione immediata di idee, immagini, sensazioni, privi di legami logici e sintattici.

Conrad, “Cuore di tenebra”: viaggio nell’oscurità dell’animo umano

Conrad Cuore di tenebra viaggio nell’oscurità dell’animo umano

In Cuore di tenebra, Conrad ci conduce nell’Africa più profonda, in un viaggio avventuroso e oscuro, metafora di una discesa negli abissi insondabili dell’animo umano.

In “Heart of Darkness” (Cuore di tenebra), lo scrittore e navigatore polacco naturalizzato britannico, Joseph Conrad (Berdyčiv, 3 dicembre 1857 – Bishopsbourne, 3 agosto 1924), racconta la storia del viaggio compiuto da Charles Marlow, narratore del suo racconto, per risalire il fiume Congo, nel Libero Stato del Congo, al centro dell’Africa.

La storia è concepita da Conrad come il resoconto fatto da Marlow a un gruppo di amici di una sua singolare avventura, vissuta a bordo della sua imbarcazione, la Nellie, che al momento è all’ancora, a valle di Londra, in un’ansa del fiume Tamigi.

La particolare ambientazione scelta da Conrad serve da cornice narrativa, per raccontare un’ossessione, quella del narratore verso il commerciante di avorio Kurtz. Al contempo, gli permette anche di fare un parallelismo tra Londra e l’Africa, accomunate secondo lui dalla medesima oscurità. Inoltre, il suo racconto ci fa riflettere sul fatto che esiste ben poca differenza tra i popoli definiti civilizzati e quelli ritenuti selvaggi, e l’autore, tra le righe della sua storia, si prende anche la libertà di avanzare questioni polemiche sull’imperialismo e sul razzismo.

Inizialmente, la storia fu stampata in tre puntate e comparve nei numeri di febbraio, marzo e aprile del 1899, Vol. 165, della scozzese “Blackwood’s Magazine”, al fine di celebrare la millesima edizione della rivista. Nel 1902, invece, comparve in volume, nella raccolta “Youth, a Narrative and Two Other Stories” (Gioventù e altri due racconti).

Il racconto di Conrad prende il via di sera, quando i cinque membri dell’equipaggio della Nellie stanno aspettando la marea per dirigersi al largo. Uno di loro, Marlow, un maturo marinaio, prende la parola e inizia a raccontare di un viaggio fatto molti anni prima, inseguendo il fortissimo desiderio di conoscere l’Africa nera.

L’attrazione per questo continente ebbe inizio quando il narratore vide nella vetrina di un negozio una carta geografica. Osservandola, fu colpito dal percorso di un grande fiume “somigliante a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare […] la coda perduta nelle profondità del territorio”.
L’aspirazione di Marlow diverrà realtà e l’uomo affronterà proprio l’agognato viaggio lungo il fiume Congo, a bordo di uno sgangherato vaporetto.

Il suo itinerario dalla costa al centro, al luogo nel quale la coda del serpente si perde, sarà per Marlow una sorta di discesa in un’oscurità profonda, di certo più cupa e tenebrosa dell’oscurità che cinge il Tamigi, dove almeno le luci dei fanali consentono di vedere le altre navi transitare e anche il porto, pur se avvolto nella nebbia. La Nellie invece si addentrerà in un paesaggio del tutto sconosciuto.

Marlow giungerà in un primo tempo alla sede della Compagnia – in pratica un cumulo di baracche – per la quale sta lavorando, che è interessata al commercio di avorio.
Il luogo in cui il narratore e il suo equipaggio approdano è inospitale e male organizzato, oltretutto, è gestito da personaggi equivoci.

Nel racconto, il male, rappresentato da vari delitti, si manifesta lungo il percorso, nelle varie stazioni toccate dall’imbarcazione di Marlow e assume la forma di un mistero indecifrabile.
Su questo sfondo oscuro si staglia la figura enigmatica di Kurtz, uomo bianco invidiato da tutti, perché è il solo capace di procurare notevoli e costanti quantità di prezioso avorio.

Attorno alla mitica figura di Kurtz esistono molte leggende maligne che si intrecciano fra loro; all’ombra di questi foschi racconti, Marlow inizia il suo viaggio verso la sua vera destinazione, a bordo di un rattoppato battello a vapore, in compagnia di altri coloni e di indigeni cannibali. Il luogo verso cui sono diretti si trova all’interno dell’ingarbugliata e malsana foresta pluviale e si può raggiungere solo via fiume.

Durante la notte, accompagnato dal profilo delle rupi illuminate dalla Luna e dal misterioso suono cupo di tamburi, il battello risale con grande fatica il fiume. I lettori si ritrovano catapultati in una sorta di discesa agli Inferi, in un tempo e in uno spazio remoti.

Arrivato alla sua meta, il narratore scopre che la base di Kurtz è scena di atroci avvenimenti.
Innanzitutto, i membri dell’equipaggio si dovranno scontrare con l’ostilità primordiale degli indigeni che ritengono Kurtz una sorta di divinità. L’uomo bianco li ha soggiogati con il suo aspetto, con la sua determinazione feroce e, in particolare, con la sua voce che incute in loro venerazione, anche se Kurtz è molto malato e quasi in fin di vita.

Lo stesso Marlow resta affascinato da quest’uomo singolare, fascino di cui non sa darsi una spiegazione logica. Qualunque sentimento o idea il narratore nutra per Kurtz, in ogni caso, la sola decisione possibile per lui al momento è quella di catturarlo, il che sarà possibile, anche se con una certa difficoltà.
Durante il viaggio di ritorno, Kurtz muore. Prima di spirare pronuncia due parole: “L’Orrore! L’Orrore!”, e dà a Marlow un pacco che contiene delle lettere e la foto di una giovane donna.

Tornato a Bruxelles, il narratore va dalla vedova di Kurtz, che in realtà, è stata solo la sua fidanzata. L’uomo però, non se la sente di raccontare alla donna, che nutre un forte rimpianto per Kurtz, la vita malvagia che lui ha condotto in Africa, così le mente, e le dice che le ultime parole del suo amato sono state per lei.

In questo racconto si avverte con forza lo stile di Conrad e delle sue suggestioni.
Leggendo le sue parole, la giungla, custode di un oscuro mistero, sembra prendere vita, mentre la figura selvaggia di Kurtz rifulge di un potere quasi ipnotico e a tratti, pur nella sua crudeltà, ispira un senso di pietà.

Le storie narrate in Cuore di tenebra si ispirano a un viaggio fatto dall’autore nel 1890, a bordo del vaporetto “Roi des Belges”, lungo il fiume Congo. I personaggi, anche essi sono costruiti a partire da figure realmente esistite e incontrate durante tale viaggio.
È anche probabile che, Kurtz sia la raffigurazione letteraria di un agente della Compagnia di nome Klein, morto sul vaporetto. Per lui, Conrad ha fatto riferimento anche da altri avventurieri, incrociati sempre durante il medesimo viaggio.

In copertina: Henri Rousseau, “L’incantatrice di serpenti” (1907), Museo d’Orsay di Parigi