Autografi e tanta emozione in libreria

Scrivere è un mestiere solitario. Lo dicono i grandi scrittori e io, umilmente, condivido.

Condivido l’aspetto della solitudine, ma soprattutto, il fatto che fare lo scrittore è praticare un mestiere. Infatti, se cercate la voce “mestiere” nel vocabolario Treccani troverete: “attività, di carattere prevalentemente manuale e appresa, in genere, con la pratica e il tirocinio, che si esercita quotidianamente”, e in effetti, questa è l’attività principale di chi come me si ritrova a fare questo lavoro.

Inoltre, mi sento di aggiungere che per scrivere è necessaria anche una quotidiana ricerca. Documentarsi, infatti, è parte integrante del mestiere di scrittore e l’aspetto della manualità, almeno per me, è prendere appunti, a mano, per studiare l’eventuale location oppure per caratterizzare i personaggi o ancora, per registrare la cronologia degli eventi e fissare la trama.

Ogni giorno sento la necessità di scrivere, aggiungo, tolgo, leggo, studio e mi documento, ma la parte più difficile resta sempre quella: il romanzo è pronto e deve essere inviato a una casa editrice. È la parte più difficile perché in questa fase si concentrano le speranze e spesso si sperimentano le frustrazioni.

Quando ho spedito il giallo “Presente sospeso” alla “Golem Edizioni”, una casa editrice indipendente di Torino, mi sono giocata il tutto per tutto. Se avessi subìto un rifiuto, avrei “appeso le scarpe al chiodo”.

Il mio più grande desiderio era quello di tornare in libreria, per godere di quella particolare emozione che solo chi ama aggirarsi curioso tra scaffali pieni di libri può capire. Perché chi scrive deve amare anche leggere e la lettura ha i suoi rituali, e i libri sono oggetti quasi sacri e chi li ama, adora toccarli, annusarli, sfogliarli e magari desidera in qualche modo di interagire con loro.

A me, per esempio, capita di lasciare un libro sul comodino o accanto alla poltrona preferita, in attesa del momento in cui posso dedicarmi alla lettura.
Dopo una giornata frenetica di lavoro o piena di incombenze, leggere è un toccasana, una terapia per l’anima, e io tengo conto di ciò quando presto le parole ai protagonisti dei miei romanzi.

Scrivere poi, può essere paragonato a viaggiare e il viaggio è quello che ogni autore fa con se stesso, magari accompagnato dai suoi personaggi e dalle emozioni che loro trasmettono.

Molti dei miei personaggi sono nati per dare voce a chi in vita non ne ha avuta una, perché magari non ha trovato il coraggio oppure non ha avuto il tempo per raccontare la propria storia.

Per quanto riguarda il pubblico dei lettori, quando ho la possibilità di incontrarlo, come nel firmacopie di Presente sospeso – cosa che non mi capitava da un po’, avendo scelto negli ultimi anni l’autopubblicazione – il calore e l’emozione che si provano sono qualcosa di incredibile, che non si riesce a descrivere.

In certi momenti poi, si pensa a chi ti ha sempre sostenuto e ha creduto in te, e allora si ricordano in particolare coloro che non ci sono più, ma che sono comunque presenti e sai che vegliano su di te.

In memoria di Adria Pannelli
Sconosciute onde ti culleranno nel tuo amato mare.

“Presente sospeso” di Elisabetta Rossi. Firmacopie in Ancona

Ancona, sabato 27 aprile, presso la libreria Mondadori, c.so Mazzini 31, dalle ore 17:00 ci sarà il firmacopie del giallo “Presente sospeso” di Elisabetta Rossi. Siete tutti invitati.

Manhattan. Terrazza di un grattacielo. Una donna si risveglia. Non ricorda il suo nome e non sa di essere già morta.

Con lei c’è un uomo che condivide il suo stesso destino.
Una sanguinosa rapina è appena avvenuta nel quartiere di Chelsea, su cui indaga l’ispettore Michael Cox dell’11° Distretto della Polizia di New York e la sua squadra.

Il caso diventa sempre più complicato, ma due delle vittime colpite a morte durante la rapina prendono coscienza di quanto accaduto e a loro modo affiancano l’ispettore nelle indagini per assicurare alla giustizia il loro assassino.

Cox riuscirà a ricostruire che la rapina finita nel sangue, racchiude tanti lati oscuri che si intrecciano con il mercato e lo spaccio della droga, in un quartiere dove mettersi contro criminali come Billy Miller, può costare la vita.

Crepuscolarismo: tra malinconia e poesie delle “piccole cose”

Crepuscolarismo tra malinconia e poesie delle piccole cose

Il crepuscolarismo è una corrente che nasce e si diffonde all’inizio del Novecento, e rappresenta un’ideale parabola della poesia italiana, che si spegne in un “mite e lunghissimo crepuscolo”.

La corrente letteraria del crepuscolarismo apparve e fiorì in Italia all’inizio del Novecento, grazie ad alcuni poeti tra i quali: Guido Gozzano (1883-1916), Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907), Antonia Pozzi (1912-1938) e Corrado Govoni (1884-1965).
Più che un movimento, si manifestò come una similitudine di stile e di intenti. In particolare, i poeti crepuscolari furono accomunati dal totale rifiuto di qualsiasi forma di poesia eroica o sublime.

Il termine “crepuscolarismo” deriva dal titolo di una recensione apparsa su “La Stampa”, il 1° settembre 1910, firmata da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Il critico utilizzò tale definizione per descrivere le poesie di Marino Moretti, Fausto Maria Martini (1886-1931) e Carlo Chiaves (1882-1919). Il termine passò poi a indicare una categoria letteraria.

L’adozione di questo particolare termine voleva sottolineare una situazione di spegnimento. Infatti, in queste poesie prevalgono i toni tenui e smorzati, e l’emozione preponderante è la malinconia, quella “di non aver nulla da dire e da fare“.

I crepuscolari restano fondamentalmente legati alla tradizione classica, pur essendo coscienti del suo decadimento. Rifiutano l’immagine dell’intellettuale protagonista della storia e svalutano la funzione del poeta. Riprendono Pascoli e le sue poesie “delle piccole cose” e il D’annunzio del “Poema paradisiaco”. Inoltre, nei loro versi si avverte l’influsso di Paul Verlaine (1844-1896) e di altri poeti decadenti francesi e fiamminghi.

I versi dei poeti crepuscolari, liberi da qualsiasi ornamento e privi del peso della tradizione, esprimono un costante bisogno di compianto e confessione.
Nelle liriche di questi autori si avverte la nostalgia per i valori tradizionali perduti e una perenne insoddisfazione che ha come unico obiettivo quello di scovare angoli conosciuti e tranquilli in cui trovare rifugio.

I temi tipici del crepuscolarismo sono facilmente rintracciabili in una dichiarazione epistolare del 1904 di Corrado Govoni, uno dei primi poeti di crepuscolari, indirizzata all’amico Gian Pietro Lucini (1867-1914).
Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie”.

Per quanto riguarda la scelta linguistica, i crepuscolari mostrano una piena coerenza con le tematiche trattate. Le loro poesie sono più vicine alla prosa che alla poesia e i versi, pur essendo animati da un ritmo poetico, spezzano il legame con la metrica tradizionale. Tale inclinazione, priva oltretutto di qualsiasi forma aulica e classicistica, apre la strada al verso libero.

I primi testi del crepuscolarismo compaiono tra il 1899 e il 1904, dall’attività di un gruppo romano, operante attorno a Tito Marrone (1882-1967), Corrado Govoni e Sergio Corazzini, e contemporaneamente, di un gruppo torinese che ha come esponente principale Guido Gozzano.
Accanto a questi due gruppi principali ci sono anche alcuni autori, come Fausto Maria Martini, Marino Moretti e solo per un certo periodo, Aldo Palazzeschi (1885-1974).

Il Romanzo, sequenze e procedimenti narrativi #3

Il Romanzo sequenze e procedimenti narrativi 3

Funzioni, sequenze, episodi, sono solo alcuni degli elementi in cui è possibile scomporre un racconto per comprenderne più a fondo la struttura.

Per comprendere ancora meglio la struttura di un romanzo è possibile attuare un’analisi più approfondita: lo smontaggio che consente, come dice la parola stessa, di scomporre in parti più piccole il racconto.
Avremo così le unità o funzioni, cioè delle azioni che sono in relazione con altri elementi della storia e che comportano delle conseguenze nello sviluppo della storia.

Le funzioni non sono tutte uguali, alcune sono più importanti di altre e sono denominate nuclei o cardinali, e si affiancano a quelle secondarie, impiegate per completare e arricchire la narrazione.
In una storia ci sono anche i cosiddetti indizi, una sorta di notazioni integrative che servono a dare informazioni sul carattere o sull’identità del personaggio oppure indicazioni sul tempo o sullo spazio.

L’uso precipuo di uno dei due elementi definisce la classe di appartenenza di un racconto.
Alcuni sono orientati più verso l’utilizzo delle funzioni e per questo si dicono funzionali, ad esempio, i romanzi storici, dove sono narrate molte azioni. Chiaramente indiziali, invece, sono i romanzi psicologici.

Scomponendo ulteriormente il nostro tessuto narrativo, diciamo che le funzioni sono una combinazione di sequenze collegate fra loro. Le sequenze possono essere:

  • descrittive, quando, ad esempio, servono a descrivere il carattere dei personaggi oppure le caratteristiche dell’ambiente
  • narrative, quando sono costituite da azioni e danno vita alla trama
  • riflessive, quando veicolano le opinioni dei personaggi oppure dell’autore in merito alle vicende

Per individuare le sequenze ci sono di aiuto alcune evidenze:

  • un cambiamento di luogo o di tempo
  • l’entrata o l’uscita di un personaggio
  • variazione nel modo di narrare

Le sequenze, inoltre, possono anche raggrupparsi tra loro e dare vita agli episodi o macrosequenze.

Ovviamente, queste regole di scomposizione non si possono applicare in modo rigido e letterale, bensì devono essere adattate al testo che si sta prendendo in esame.

Grand Tour in Italia: fenomeno di costume per i letterati dell’800

Il Grand Tour in Italia tra bellezze artistiche e meraviglie naturali era un’usanza ottocentesca che ha spinto molti letterati aristocratici a viaggiare per attuare un percorso di formazione.

Da sempre meta di viaggiatori in cerca di storia e di bellezze artistiche, l’Italia ha attirato, in particolare, numerosi letterati stranieri nell’800, quando venire nel nostro Paese significava compiere un viaggio formativo, denominato Grand Tour.

Questo singolare viaggio era appannaggio dei rampolli dell’alta società, di solito inglesi. Gli stranieri consideravano il Grand Tour come parte dell’educazione culturale. E quale migliore formazione si poteva sperare, se non visitando la patria dell’arte.

Durante il viaggio, gli scrittori traducevano nei loro diari o epistolari le impressioni suscitate dal viaggio e successivamente, le trasponevano nei romanzi, dove finivano per costituire un implicito invito ai lettori a recarsi in Italia, il meraviglioso belpaese.

Tra gli scrittori che intrapresero felicemente il Grand Tour possiamo citare: Goethe (1749-1832), Dickens (1812-1870), Forster (1879-1970), George Eliot (1819-1880), Louisa May Alcott (1832-1888) e molti altri che come loro hanno riportato nei loro scritti momenti particolari di vita e impressioni varie, muovendosi dal nord al sud del Paese.

Intraprendere un simile viaggio nell’Ottocento non era impresa facile.
Ci si spostava su scomode carrozze che si destreggiavano su strade sconnesse e persino rischiose. Si affrontavano arrampicate su valli alpine “perduti in contemplazione delle nere rocce, delle cime e dei burroni paurosi, degli spazi di neve fresca, formatisi nei crepacci e nelle vallette, e dei torrenti tumultuosi che rombavano giù, a precipizio, nell’abisso profondo“, ci informa Dickens con dovizia di particolari.

Non ci si deve dunque meravigliare se per portare a buon fine questi Grand Tour a volte ci si impiegava degli anni. Per fortuna, rispetto agli odierni viaggi, c’era il vantaggio, per gli avventurosi turisti della cultura, che il costo della vita in Italia era sicuramente meno dispendioso di quello di altri Paesi.

I visitatori, oltre a prendersi tutto il tempo necessario, sceglievano le mete più ambite: Firenze, Venezia, Roma e Napoli, ma non erano disdegnati neppure i laghi e altre città minori.

Certe città lasciavano il segno su alcuni, mentre non avevano alcun effetto su altri.
Ad esempio, Dickens affermò che Milano, completamente occultata dalla nebbia – tanto da far sparire persino il Duomo – poteva essere tranquillamente scambiata per Bombay, mentre George Eliot rimane colpita dalla Galleria di Brera e dalla Biblioteca Ambrosiana.

A impressionare Oscar Wilde (1854-1900) è invece Firenze, con le sue bellezze artistiche e si rammaricherà molto di doversene andare. Però, a lasciarlo letteralmente di stucco fu Venezia, anche se le gondole nere che solcavano le acque della laguna gli richiamavano dei funesti carri funebri.

Non possiamo ovviamente tralasciare, Goethe, turista d’eccezione, che affrontò il suo Grand Tour in Italia tra il 1786 e il 1788.
Il poeta e scrittore attraversò tutto il Paese, da nord a sud, soppesando a ogni sosta monumenti, chiese e ville, e ammirando al contempo i paesaggi e le bellezze naturali delle piccole città. Inoltre resterà affascinato anche dagli abitanti e dalle particolari usanze, come la raccolta delle olive.
Attratto da Roma, resterà però particolarmente colpito dalla Sicilia, pur criticando la sporcizia e la polvere sulle strade.

I Grand Tour e i successivi resoconti dei viaggiatori fecero da cassa di risonanza e spinsero altri viaggiatori a coprire distanze anche considerevoli, per ammirare il Bel Paese, dando vita a quello che in epoche successive fu definito come turismo.

A intraprendere arditamente il Grand Tour non furono però solo gli uomini. Ci sono state diverse viaggiatrici che, sfidando le convezioni sociali, hanno affrontato gli incomodi del viaggio di formazione.
Una donna che viaggiava, soprattutto da sola e in un paese sconosciuto, non era ben vista, quanto meno non doveva essere una donna troppo rispettabile. Nonostante ciò, una schiera di donne coraggiose ha comunque raggiunto l’Italia e goduto delle bellezze artistiche del nostro Paese. Hanno anche annotato, come i loro colleghi uomini, impressioni, valutazioni e critiche e soprattutto, hanno dimostrato un maggior senso pratico e spirito di adattamento.

Tra le avventurose viaggiatrici citiamo: Madame de Staël (1766-1817), George Eliot che si dimostrerà molto critica e che resterà colpita più dalle bellezze naturali che da quelle artistiche.
Louisa May Alcott invece fece un secondo viaggio in Europa nel 1870, dopo il successo del suo libro “Piccole donne”. Insieme alla sorella e a un’amica giunse in Italia, passando per Milano. Nei suoi appunti di viaggio dirà che il Duomo era simile a un grande dolce di nozze, mentre a Roma, più che dalla città fu affascinata dalla campagna romana.

Il Grand Tour in Italia ha lasciato diversi segni.
Nelle città, visitate da questi turisti speciali, sono presenti varie targhe marmoree che testimoniano questa sorta di pellegrinaggio culturale. Ma soprattutto, la memoria di questi viaggi è viva nelle pagine dei libri, dove, in vario modo, ogni scrittore o scrittrice che ha attraversato l’Italia, ha tradotto la propria esperienza di viaggio, descrivendo luoghi e usanze, e più di un personaggio ha visto la sua prima scintilla di vita in un piccolo villaggio o in una grande città del nostro meraviglioso Paese.

In copertina: James Tissot, “London Visitors” (1874 ca.), olio su tela (dimensioni: 160 x 114 cm), conservato presso il Museo d’arte di Toledo

Il Romanzo, sequenze e procedimenti narrativi #2

Romanzo sequenze e procedimenti narrativi 2

Il romanzo come struttura narrativa può fare conto su strategie che ne indirizzano il percorso, ne caratterizzano l’andamento e ne definiscono lo svolgimento.

Le vicende di qualsiasi romanzo possono evolversi secondo tre principali tipi di sequenza.
La prima è costruita su un miglioramento da ottenere e nella storia può essere previsto un processo di miglioramento oppure no. Se l’autore ha previsto un processo di miglioramento, nel corso della vicenda si potrà raggiungere o meno tale miglioramento.
La seconda, all’inverso della prima, prevede un peggioramento prevedibile. In questo caso, quindi, si avrà o meno un processo di peggioramento. Se nel corso della narrazione è previsto un processo di peggioramento questo potrà condurre a un peggioramento prodotto oppure il peggioramento sarà evitato.
La terza sequenza è un mix delle prime due: il miglioramento e il peggioramento saranno alternati.

Normalmente, un autore inizierà la narrazione con una specifica condizione che, successivamente, si svilupperà in un senso positivo oppure negativo. In effetti, però, le storie lineari sono davvero poche: la norma in un romanzo è l’alternanza tra miglioramento e peggioramento.

Per quanto riguarda i procedimenti narrativi, uno scrittore di romanzi dispone di due procedimenti narrativi fondamentali: quello diretto (gli eventi sono rappresentati come se stessero accadendo davanti ai nostri occhi); quello narrativo (le vicende sono narrate in modo riassuntivo).

Ci si può anche avvalere di un altro procedimento, di sussidio agli altri due, e cioè quello descrittivo.
Questo procedimento non sarà mai usato da solo nel corso di una narrazione, ma sarà sempre associato ad almeno uno degli altri due procedimenti.
La descrizione, inoltre, possiede varie funzioni: mimetica (raffigura un ambiente reale); esornativa (ha un compito a carattere puramente estetico); allegorico-simbolica (esprime verità morali o condizioni psicologiche).

Lo scrittore ha a disposizione anche un altro procedimento, quello argomentativo che è utilizzato al fine di a presentare problemi, fatti e ragionamenti, seguendo un’opinione che, in genere, è quella dell’autore.

A completare il quadro dei modi narrativi su cui lo scrittore può fare affidamento, ci sono anche le varie forme della citazione.
La citazione di parola ha tre forme principali: il monologo (il personaggio parla con un interlocutore presente ma silenzioso); il dialogo (due o più personaggi parlano fra loro); il soliloquio (discorso di un personaggio che si rivolge in modo implicito o esplicito a un destinatario che può essere anche se stesso).

Esiste anche la citazione di pensieri che si avvale di due forme: il monologo interiore; il flusso di coscienza.
Il monologo interiore è innanzitutto in prima persona, al presente, il linguaggio utilizzato è nello stile del personaggio, non prevede un pubblico e neppure un destinatario, l’autore non commenta né interviene in alcun modo.
Il flusso di coscienza è invece dato da un ‘associazione immediata di idee, immagini, sensazioni, privi di legami logici e sintattici.

Conrad, “Cuore di tenebra”: viaggio nell’oscurità dell’animo umano

Conrad Cuore di tenebra viaggio nell’oscurità dell’animo umano

In Cuore di tenebra, Conrad ci conduce nell’Africa più profonda, in un viaggio avventuroso e oscuro, metafora di una discesa negli abissi insondabili dell’animo umano.

In “Heart of Darkness” (Cuore di tenebra), lo scrittore e navigatore polacco naturalizzato britannico, Joseph Conrad (Berdyčiv, 3 dicembre 1857 – Bishopsbourne, 3 agosto 1924), racconta la storia del viaggio compiuto da Charles Marlow, narratore del suo racconto, per risalire il fiume Congo, nel Libero Stato del Congo, al centro dell’Africa.

La storia è concepita da Conrad come il resoconto fatto da Marlow a un gruppo di amici di una sua singolare avventura, vissuta a bordo della sua imbarcazione, la Nellie, che al momento è all’ancora, a valle di Londra, in un’ansa del fiume Tamigi.

La particolare ambientazione scelta da Conrad serve da cornice narrativa, per raccontare un’ossessione, quella del narratore verso il commerciante di avorio Kurtz. Al contempo, gli permette anche di fare un parallelismo tra Londra e l’Africa, accomunate secondo lui dalla medesima oscurità. Inoltre, il suo racconto ci fa riflettere sul fatto che esiste ben poca differenza tra i popoli definiti civilizzati e quelli ritenuti selvaggi, e l’autore, tra le righe della sua storia, si prende anche la libertà di avanzare questioni polemiche sull’imperialismo e sul razzismo.

Inizialmente, la storia fu stampata in tre puntate e comparve nei numeri di febbraio, marzo e aprile del 1899, Vol. 165, della scozzese “Blackwood’s Magazine”, al fine di celebrare la millesima edizione della rivista. Nel 1902, invece, comparve in volume, nella raccolta “Youth, a Narrative and Two Other Stories” (Gioventù e altri due racconti).

Il racconto di Conrad prende il via di sera, quando i cinque membri dell’equipaggio della Nellie stanno aspettando la marea per dirigersi al largo. Uno di loro, Marlow, un maturo marinaio, prende la parola e inizia a raccontare di un viaggio fatto molti anni prima, inseguendo il fortissimo desiderio di conoscere l’Africa nera.

L’attrazione per questo continente ebbe inizio quando il narratore vide nella vetrina di un negozio una carta geografica. Osservandola, fu colpito dal percorso di un grande fiume “somigliante a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare […] la coda perduta nelle profondità del territorio”.
L’aspirazione di Marlow diverrà realtà e l’uomo affronterà proprio l’agognato viaggio lungo il fiume Congo, a bordo di uno sgangherato vaporetto.

Il suo itinerario dalla costa al centro, al luogo nel quale la coda del serpente si perde, sarà per Marlow una sorta di discesa in un’oscurità profonda, di certo più cupa e tenebrosa dell’oscurità che cinge il Tamigi, dove almeno le luci dei fanali consentono di vedere le altre navi transitare e anche il porto, pur se avvolto nella nebbia. La Nellie invece si addentrerà in un paesaggio del tutto sconosciuto.

Marlow giungerà in un primo tempo alla sede della Compagnia – in pratica un cumulo di baracche – per la quale sta lavorando, che è interessata al commercio di avorio.
Il luogo in cui il narratore e il suo equipaggio approdano è inospitale e male organizzato, oltretutto, è gestito da personaggi equivoci.

Nel racconto, il male, rappresentato da vari delitti, si manifesta lungo il percorso, nelle varie stazioni toccate dall’imbarcazione di Marlow e assume la forma di un mistero indecifrabile.
Su questo sfondo oscuro si staglia la figura enigmatica di Kurtz, uomo bianco invidiato da tutti, perché è il solo capace di procurare notevoli e costanti quantità di prezioso avorio.

Attorno alla mitica figura di Kurtz esistono molte leggende maligne che si intrecciano fra loro; all’ombra di questi foschi racconti, Marlow inizia il suo viaggio verso la sua vera destinazione, a bordo di un rattoppato battello a vapore, in compagnia di altri coloni e di indigeni cannibali. Il luogo verso cui sono diretti si trova all’interno dell’ingarbugliata e malsana foresta pluviale e si può raggiungere solo via fiume.

Durante la notte, accompagnato dal profilo delle rupi illuminate dalla Luna e dal misterioso suono cupo di tamburi, il battello risale con grande fatica il fiume. I lettori si ritrovano catapultati in una sorta di discesa agli Inferi, in un tempo e in uno spazio remoti.

Arrivato alla sua meta, il narratore scopre che la base di Kurtz è scena di atroci avvenimenti.
Innanzitutto, i membri dell’equipaggio si dovranno scontrare con l’ostilità primordiale degli indigeni che ritengono Kurtz una sorta di divinità. L’uomo bianco li ha soggiogati con il suo aspetto, con la sua determinazione feroce e, in particolare, con la sua voce che incute in loro venerazione, anche se Kurtz è molto malato e quasi in fin di vita.

Lo stesso Marlow resta affascinato da quest’uomo singolare, fascino di cui non sa darsi una spiegazione logica. Qualunque sentimento o idea il narratore nutra per Kurtz, in ogni caso, la sola decisione possibile per lui al momento è quella di catturarlo, il che sarà possibile, anche se con una certa difficoltà.
Durante il viaggio di ritorno, Kurtz muore. Prima di spirare pronuncia due parole: “L’Orrore! L’Orrore!”, e dà a Marlow un pacco che contiene delle lettere e la foto di una giovane donna.

Tornato a Bruxelles, il narratore va dalla vedova di Kurtz, che in realtà, è stata solo la sua fidanzata. L’uomo però, non se la sente di raccontare alla donna, che nutre un forte rimpianto per Kurtz, la vita malvagia che lui ha condotto in Africa, così le mente, e le dice che le ultime parole del suo amato sono state per lei.

In questo racconto si avverte con forza lo stile di Conrad e delle sue suggestioni.
Leggendo le sue parole, la giungla, custode di un oscuro mistero, sembra prendere vita, mentre la figura selvaggia di Kurtz rifulge di un potere quasi ipnotico e a tratti, pur nella sua crudeltà, ispira un senso di pietà.

Le storie narrate in Cuore di tenebra si ispirano a un viaggio fatto dall’autore nel 1890, a bordo del vaporetto “Roi des Belges”, lungo il fiume Congo. I personaggi, anche essi sono costruiti a partire da figure realmente esistite e incontrate durante tale viaggio.
È anche probabile che, Kurtz sia la raffigurazione letteraria di un agente della Compagnia di nome Klein, morto sul vaporetto. Per lui, Conrad ha fatto riferimento anche da altri avventurieri, incrociati sempre durante il medesimo viaggio.

In copertina: Henri Rousseau, “L’incantatrice di serpenti” (1907), Museo d’Orsay di Parigi

Il Romanzo, un genere narrativo variegato e affascinante #1

Il Romanzo un genere narrativo variegato e affascinante 1

Il romanzo, un genere letterario che tutti conoscono, ma quanti conoscono la sua struttura o la sua lunga e fortunata storia?

Che cos’è che possiamo racchiudere nel termine romanzo?
Qual è la storia di questo genere letterario?

Il romanzo, innanzitutto, è una forma narrativa scritta che nasce nel Medio Evo.
Come genere si differenzia dagli altri per la maggiore ampiezza e per il carattere fantastico degli argomenti che tratta, distinguendosi così dalle biografie, autobiografie, racconti di viaggi, opere storiche.

Sin dai suoi albori, il romanzo si è distinto da altri generi, come ad esempio, la novella che, in epoca medievale, aveva un carattere realistico. Per rintracciare la netta distinzione che esisteva tra i due si può fare riferimento alla lingua inglese e al differente uso dei due vocaboli: “romance”, per indicare la narrazione fantastica e “novel”, per la narrazione realistica.
Questa distinzione la troviamo solo nella lingua inglese, in tutte le altre lingue non c’è alcuna differenza nell’impiego dei due termini.

Nel corso dei secoli, il romanzo ha sempre avuto una certa fortuna che lo ha condotto a essere una tra le forme narrative più diffuse. La sua notorietà è legata in particolare al fatto che offriva e offre ai lettori sia l’opportunità di evadere dal grigiore della vita quotidiana, vivendo le avventure dei personaggi e degli eroi delle storie, sia di vedere la loro realtà riflessa nelle pagine scritte e, attraverso questa, spingersi ad analizzare e interpretare la propria vita.

Il romanzo ebbe una diffusione maggiore a cominciare dal Settecento, trovando condizioni più favorevoli, quali: la scolarizzazione che comportò una maggiore diffusione della cultura; l’industrializzazione e il corrispondente miglioramento del tenore di vita, che consentiva di avere più tempo per leggere; lo sviluppo dell’editoria; il costo ridotto delle pubblicazioni.

Nel tempo, l’incremento del numero dei lettori condusse a un proficuo scambio tra loro e gli scrittori di romanzi, ciò portò a profondi cambiamenti sia nel contenuto sia nella struttura di questo genere narrativo.
Tali mutamenti sono particolarmente evidenti tra Ottocento e Novecento e hanno dato il via a una notevole attività critica che ha analizzato il romanzo in base a varie chiavi di lettura: sociologica, semiologico-strutturale, storicistica, stilistica, estetica, ecc.

L’opera d’arte e quindi, anche il romanzo, almeno secondo la semiotica (scienza che studia i vari sistemi di segni elaborati dagli uomini per comunicare tra loro), è una forma di messaggio indirizzato da un mittente, lo scrittore, a un destinatario, il lettore.

Il rapporto tra scrittore e lettore è fondato sulla condivisione di un discorso, di un intreccio, in cui sono indicati i motivi della storia, secondo l’ordine scelto dall’autore, che può essere impostato in base a una successione logico-cronologica personale, ad esempio: i fatti possono essere narrati a ritroso oppure muovendosi avanti e indietro nel tempo, sfruttando il cosiddetto flashback.

Per quanto riguarda la storia, solitamente, in un romanzo sono presenti più episodi; a quello principale si accostano altre vicende e lo scrittore può utilizzare varie tecniche per inserire nell’intreccio episodi secondari.
Ad esempio, può utilizzare la concatenazione. In questo caso, le storie sono narrate dai vari personaggi, in ordine di successione oppure, lo scrittore può avvalersi dell’alternanza. In questo secondo caso, due o più storie sono narrate contemporaneamente, interrompendo ora l’una ora l’altra.
Un’altra tecnica è quella dell’incastro: una storia è inserita all’interno di un’altra. Per concludere, c’è poi anche la schidionata o infilzamento, quando un protagonista compare in vari filoni del racconto o gli episodi si intrecciano con i casi accaduti ai personaggi principali.

Arsenio Lupin: il popolare ladro trasformista dalle buone maniere

Arsenio Lupin il popolare ladro trasformista dalle buone maniere

Arsenio Lupin è un altro singolare eroe uscito dalle pagine della letteratura. Tra giallo e avventura, Leblanc, il suo autore, ci racconta le gesta di un ladro gentiluomo che commette furti con raffinatezza ed eleganza.

Arsenio Lupin (Arsène Lupin), personaggio immaginario, scaturito dalla fantasia di Maurice Marie Émile Leblanc (Rouen, 11 dicembre 1864 – Perpignano, 6 novembre 1941; scrittore francese), fa parte della schiera dei criminali che godono del favore del pubblico.
Vero artista del furto e ladro gentiluomo possiede uno straordinario talento per i travestimenti che gli consentono di camuffarsi e assumere molteplici identità, per commettere i suoi crimini, ma anche per venire a capo di enigmi criminali.

Lupin è uno sportivo, nonché un combattente esperto. Abile e astuto è anche dotato di una natura infantile, affascinante e a volte beffarda. È avvolto da un alone di mistero e possiede un carattere tormentato, tutte caratteristiche che hanno contribuito a renderlo molto popolare.

Nelle pagine di Leblanc emergono con chiarezza anche altre caratteristiche del personaggio, come le sue idee politiche che coincidono con quelle del suo autore e mutano con il passare degli anni: simpatie anarchiche nei primi romanzi e deciso patriottismo durante la Grande Guerra.

Arsenio Lupin appare per la prima volta nel racconto “L’Arrestation d’Arsène Lupin”, pubblicato nel luglio 1905 nella rivista “Je sais tout”. Maurice Leblanc incluse questo racconto nella raccolta “Arsène Lupin, ladro gentiluomo”, che fu pubblicata lo stesso anno.

Il notevole successo riscosso dal personaggio presso i lettori garantì un lavoro continuativo al suo autore dalla prima uscita nel 1905 sino al 1941, anno in cui Leblanc morì.
Le avventure dell’affascinante ladro sono racchiuse in ben diciotto romanzi, trentanove racconti e cinque opere teatrali.
La crescente notorietà di Lupin anche all’estero vide le sue avventure finire, in America, sul grande schermo; in Giappone, sulle strisce di famosi manga.

La popolarità raggiunta dal raffinato ladro francese ha visto persino nascere un neologismo a lui dedicato: “lupinologia”, termine che designa lo studio delle avventure di Lupin da parte degli ammiratori dei romanzi di Maurice Leblanc, sull’esempio della “holmesologia”, termine che in questo caso fa riferimento all’altrettanto famoso personaggio uscito dalla penna dello scrittore e drammaturgo scozzese Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859 – Crowborough, 7 luglio 1930).

Gran parte delle storie che compongono il ciclo di “Lupin” costituiscono un insieme coerente, dove emergono date ed eventi relativi alla vita del protagonista, che consentono di tracciare dei riferimenti con altre storie, ma nelle opere di Leblanc esistono contraddizioni che portano a concludere che anche le cronologie più complete si discostano su vari punti, perciò non è possibile fissare una cronologia rigorosa e definitiva.

Se la cronologia è incerta, abbiamo almeno delle indicazioni sulla genealogia di Arsenio Lupin. Il suo primo antenato noto è il suo bisnonno: un generale dell’Impero, che prese parte alla battaglia di Montmirail (11 febbraio 1814), dove le armate di Napoleone I vinsero contro le truppe russe del generale Osten-Sacken e i prussiani del generale Johann Yorck.

Arsenio Lupin nacque nel 1874, probabilmente nel Pays de Caux (regione naturale della Normandia appartenente al bacino parigino; è un altopiano delimitato a sud dalla Senna, a ovest e a nord dalle falesie della Côte d’Albâtre e a est dalle alture che dominano le valli dei fiumi Varenne e Austreberthe. Il suo territorio occupa l’intera parte occidentale del dipartimento Seine-Maritime), da Henriette d’Andrésy e Théophraste Lupin.
Il matrimonio tra i due non fu ben accolto dalla famiglia aristocratica di lei, perché Théophraste era un uomo comune, privo di un patrimonio, che di professione faceva l’insegnante di ginnastica, scherma e pugilato.

A causa delle sue particolari origini, Arsenio Lupin visse sempre in una sorta di curiosa ambivalenza: uomo del popolo, per parte di padre; aristocratico per lato materno. Tale ambivalenza è un leitmotiv di tutte le sue avventure.

L’idillio fra Henriette e Théophraste comunque non durò a lungo: la donna ripudiò il marito, appena scoprì che era un truffatore. L’uomo sarà poi imprigionato negli Stati Uniti, dove sembra sia anche deceduto.

Nel 1880, Arsenio vive con sua madre a Parigi. La donna, rifiutata dai genitori, indignati per il suo matrimonio, fu accolta in casa di un lontano cugino, il duca di Dreux-Soubise, come serva di sua moglie.
All’età di soli sei anni, Lupin commette proprio in questa casa il suo primo furto: sottrae la preziosa collana della regina di Dreux-Soubise. A essere sospettata del furto è però sua madre, per questo entrambi saranno cacciati di casa e costretti a rifugiarsi in Normandia; sei anni dopo, Henriette morirà, lasciando suo figlio orfano a soli 12 anni.

Per André-François Ruaud (1963; scrittore, saggista, antologista ed editore francese), Théophraste, il padre di Arsenio non è morto, vive ancora in Francia e controlla suo figlio. Sarebbe lui la mente del furto della collana della regina, e successivamente, sarà lui a consentire al figlio di studiare.

In effetti, Arsenio studierà parecchio. La sua preparazione copre vari rami dello scibile: studi classici, poi medicina e legge, e infine, una formazione alle Beaux-Arts. Fu anche attore e insegnante di lotta giapponese; si interessò alla prestidigitazione e per sei mesi lavorò anche con un illusionista.

Attività furfantesca e relazioni amorose si intrecciano nel suo percorso esistenziale, mentre, con il passare degli anni, la sua fama di abile scassinatore lo farà conoscere al grande pubblico che segue le sue imprese sui giornali.
Nel corso delle sue avventure, assistiamo anche a una graduale trasformazione: Lupin lascia la professione di ladro e scassinatore per dedicarsi a quella di investigatore, pur commettendo qualche furto di passaggio.

Smesso del tutto di pensare ai furti, Lupin finirà per imborghesirsi: si ritirerà in campagna con sua moglie, a coltivare tranquillamente i suoi fiori e a godersi la sua ricchezza.
Tornerà sul campo solo per fermare le azioni di un usurpatore che firma i suoi crimini con il suo nome e poi, per aiutare giovani in difficoltà.

Lupin vive le sue mirabolanti avventure in generale in Francia, durante la Belle Époque e i ruggenti anni Venti. Il mondo in cui si muove è quello della borghesia dell’inizio del Novecento, in una fase in cui è di norma, per chi può permetterselo, la seconda casa, i viaggi in automobile e la società è sempre più orientata a ciò che pubblicizzano i media e avviata al consumismo.

Lupin ha una doppia vita: mondana e rispettabile di giorno, fatta di attività illecite di notte.
Tendenzialmente, lo si può descrivere come un ladro dalle buone maniere, galante e rispettoso delle donne; un non violento che ripudia l’omicidio. Si può dire che i suoi crimini rispecchiano la sua posizione sociale, sono cioè attuati con eleganza e raffinatezza.

Il personaggio di Leblanc si contraddistingue per una profonda moralità. Infatti, i suoi furti spesso colpiscono individui che si sono arricchiti in modo illegale o immorale. Ama compiere furti dalla spiccata teatralità, con il desiderio narcisista di “impressionare la galleria” e sfida apertamente polizia e investigatori. Gli unici avversari che riescono a tenergli testa sono curiosamente sempre donne.

La fama di Lupin è concentrata in particolare sulla sua abilità nel travestirsi e sulla sua capacità di rubare le identità. È presentato come “l’uomo dai mille travestimenti” e per una buona ragione: è in grado di usare tutti i criteri fisici e sociali per trasformarsi, come età, classe sociale, professione, nazionalità.
Prestidigitazione e illusionismo sono arti che conosce bene, cui ha associato lo studio della dermatologia all’ospedale Saint-Louis, che gli è risultato utile per modificare l’aspetto del suo viso, anche se, essendo stato anche uomo di teatro, preferisce di gran lunga impiegare accurati make-up.

In ogni caso, lo scopo di Lupin è essere irriconoscibile in ogni circostanza.
Lo stesso Leblanc ammette la sua difficoltà ad attribuirgli un volto preciso: “Venti volte ho visto Arsène Lupin, e venti volte mi è apparso un essere diverso… o meglio, lo stesso essere di cui venti specchi mi avrebbero restituito altrettante immagini distorte, ognuna con i suoi occhi particolari, la sua forma particolare di figura, il suo gesto, la sua silhouette e il suo carattere“.

Va anche ricordato che, il nome di Lupin è legato in particolare alla cittadina francese di Étretat, in Normandia, al centro di diverse sue avventure, tra cui “L’ago cavo” che ha contribuito al mito che circonda il luogo.

Romanzo gotico: tra cupe atmosfere e personaggi misteriosi

Il romanzo gotico è un genere molto particolare che ebbe grande successo di pubblico. Terrore, turbamento, ambientazioni fosche e personaggi ambigui, a suo tempo, hanno sorpreso e affascinato un gran numero di lettori della media borghesia.

Il romanzo gotico, genere narrativo che ha fuso elementi del romanticismo con sfumature dell’orrore, nasce in seguito alla crescente alfabetizzazione della media borghesia, che nella letteratura cercava occasioni di evasione, e si evolve dalla seconda metà del XVIII secolo.
Le storie di questo particolare filone sono ambientate in epoca medievale. I luoghi dell’azione preferiti sono castelli diroccati, sotterranei e altri ambienti cupi e tetri.

Gli argomenti più trattati nel romanzo gotico, definito successivamente “romanzo nero” (attualmente è chiamato così il genere noir), sono l’amore perduto, i conflitti interiori e il soprannaturale.

Il termine “gotico” fu coniato con intento spregiativo da Giorgio Vasari (1511 – 1574; pittore, architetto e storico dell’arte italiano) nel Cinquecento, come sinonimo di barbarico e spaventoso, e faceva riferimento allo stile artistico e architettonico che nacque in Francia nel 1100 e si diffuse in Europa tra il Trecento e il Quattrocento.
Solo più avanti tale termine fu rivalutato e adottato per definire il genere narrativo che ebbe origine in Inghilterra dalla metà del Settecento e fu anticipatore del romanticismo.
Inoltre, nell’Ottocento, il romanzo gotico trovò un altro parallelo architettonico, quello con lo stile neogotico, che si affermò in contrasto con quello neoclassico, ed ebbe una certa fortuna proprio come il suo omologo letterario.

Per quanto riguarda le caratteristiche del romanzo gotico esso mostra innanzitutto amore per la fantasia e il sogno. Questo genere, che si allaccia per vari aspetti alla fiaba anche se i suoi finali sono generalmente amari, si ammanta di tutto ciò che terrificante, abnorme, mostruoso, inverosimile, soprannaturale. Inoltre, il soprannaturale può assumere varie sembianze: quelle di un fantasma oppure di un animale, o ancora di un oggetto. Quello che contava per gli autori di queste storie era provocare sorpresa, angoscia, terrore e un turbamento profondo nei lettori.

Il capostipite dei romanzi gotici è ritenuto “Il castello di Otranto”, romanzo breve del 1764 di Horace Walpole (1717-1797). Questo testo è ritenuto il primo racconto fantastico della letteratura inglese moderna ed è un’opera innovativa nel panorama letterario dell’epoca.
L’autore, conscio della novità del suo romanzo e temendo di coprirsi di ridicolo, se il libro non avesse incontrato il favore del pubblico, presentò la sua storia come la traduzione di un antico manoscritto, stampato a Napoli nel 1529 e trovato causalmente nella biblioteca di un’antica famiglia cattolica del nord Inghilterra.
La storia si svolge nella Puglia medievale, più precisamente nel Regno di Sicilia del re Manfredi (Manfredi di Hohenstaufen o Manfredi di Svevia o Manfredi di Sicilia, 1232 – 1266; ultimo sovrano della dinastia sveva del Regno di Sicilia). Questo romanzo che divenne un modello cui fecero riferimento nei secoli molti intellettuali, è una miscela ben riuscita di realismo e grottesco. Inoltre, l’autore non ha lesinato su misteri da svelare, passaggi segreti e minacce. Queste ultime in genere provengono dall’autorità politica e religiosa, come è possibile rilevare in alcune opere in particolare, quali: “L’italiano, o il confessionale dei penitenti neri” (1797) di Ann Radcliffe e “Il monaco” (1795) di Matthew Lewis.

Walpole temeva inutilmente il ridicolo: il suo romanzo ebbe un immediato successo, al punto che lo scrittore decise di far uscire, a soli due mesi di distanza dalla prima edizione, una seconda edizione.
In questa nuova pubblicazione, al sottotitolo “story”, fu aggiunto l’aggettivo “gothic” (a gothic story).

L’uso del termine “gotico” non era casuale e neppure limitato al raffronto con l’architettura omonima, esso includeva il forte interesse che nella seconda metà del Settecento si afferma nei confronti del Medioevo e di tutto ciò che è medievale: espressioni artistiche, oggetti dell’epoca, come: collezioni di monete, armature, antiche ballate. Tanto che l’aggettivo “gotico” finì per definire non solo lo stile architettonico, ma anche il periodo cui faceva riferimento e ben presto fu utilizzato come sinonimo di “medievale”.
Simbolo di questa nuova tendenza e del recupero dell’epoca antica è Strawberry Hill, la casa di campagna che Walpole comprò nel 1747 e che trasformò secondo il gusto gotico, fino a farla diventare una fortezza nei pressi di Londra.

A fare compagnia a Walpole nell’Inghilterra della seconda metà del Settecento ci sono altri scrittori di questo genere narrativo, come: Clara Reeve (1729-1807), William Beckford (1760-1844), Matthew Lewis (1775-1818), Charles Robert Maturin (1782-1824) e John William Polidori (1795-1821).

Dopo Walpole e Clara Reeve, le storie gotiche, pur svolgendosi sempre in ambientazioni fosche e tenebrose, videro ridursi gli eventi soprannaturali.
Fu Ann Radcliffe (1764 – 1823; popolare scrittrice inglese, pioniera della letteratura dell’orrore e in particolare, del romanzo gotico) a inaugurare questa nuova direzione del genere e importante in questo senso fu anche il romanzo epistolare “Dracula” (1897) di Bram Stoker (1847 – 1912; scrittore irlandese, noto in particolare per essere l’assistente personale dell’attore Henry Irving e il direttore economico del Lyceum Theatre di Londra) che rese popolare il personaggio del vampiro.

A livello temporale, il romanzo gotico è collocato preferibilmente in epoca medievale oppure nell’Ottocento. I temi più gettonati sono la morte, le antiche profezie e la possessione demoniaca, mentre le storie sono calate in un clima di terrore e di conflitti interiori senza soluzione.

Gli scrittori di romanzi gotici fanno a gara per destare nei lettori un senso di turbamento e di allarme costante, non si lasciano neppure sfuggire l’occasione di inserire scene violente, sangue e morti truculente.
Anche i personaggi si allineano a tutto il resto, spesso misteriosi e ambigui sono tormentati da pene d’amore e soggetti a passioni violente.

Immancabile poi in questo genere narrativo è una certa tipologia di donna: la vergine perseguitata (vedi il romanzo epistolare “Clarissa Richardson” di Samuel Richardson, pubblicato nel 1748, Lewis, la Radcliffe e il già citato Walpole). Queste giovani donne sono spesso vittime delle loro stesse pulsioni e spesso in fuga da seduttori malvagi o da terribili creature, come vampiri, fantasmi e stregoni. Possono anche essere imprigionate o essere affette da turbe psichiche che impediscono loro di distinguere la realtà dall’immaginazione.
A completare il quadretto idillico e richiamando scene consuete nei film horror, i personaggi dei romanzi gotici in generale vivono in luoghi isolati, lontani dai centri abitati oppure il loro isolamento è di matrice sociale, sono cioè degli emarginati.

In copertina: particolare del ritratto di Horace Walpole di Sir Joshua Reynolds (1756)