Per la matematica e la fisica, l’infinito è un concetto che fa riferimento a una quantità senza limite o fine. Ben diversa è la sua definizione se ci spostiamo nel campo della letteratura e della poesia. Leopardi, ad esempio, ne ha dato una sua enunciazione che tuttora ci stupisce, ci emoziona e ci commuove, aprendoci scorci su una straordinaria interiorità.
La poesia “L’infinito”, fu composta nel 1819, e rappresenta un esempio della nuova poesia leopardiana che è concentrata sull’espressione delle emozioni interiori del poeta. Questa lirica è anche una delle testimonianze più elevate del contrasto tra reale e ideale, tipico dell’uomo romantico.
Nei ben noti versi leopardiani, una siepe impedisce al poeta di vedere il paesaggio che altrimenti si aprirebbe davanti ai suoi occhi. Proprio questo ostacolo serve a stimolare la sua immaginazione, consentendogli di spaziare nell’immensità e di conseguire una visione interiore dell’infinito spaziale, nel quale il suo animo si smarrisce, provando un senso di sgomento.
Nei versi successivi, l’improvvisa comparsa del vento tra le fronde degli alberi riconduce Leopardi alla realtà e lo spinge a confrontare l’infinito silenzio di un istante prima – che ha solo immaginato al di là della siepe – alla voce del vento. Questo paragone lo conduce all’idea dell’eternità, del tempo passato e dello scorrere inesorabile del tempo.
Alla conclusione della lirica, dopo aver sperimentato l’infinito spaziale e quello temporale, Leopardi si abbandona dolcemente in questa nuova dimensione evocata dalla poesia, cercando una forma di annullamento della propria identità.
L’infinito Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Il 21 agosto assisteremo allo spettacolo “Il Ritorno dell’Angelo” uno spettacolo tra teatro, poesia e musica, dedicato all’amore; ispirato dalle musiche del maestro Marco Sollini e dalle poesie di Anna Achmatova.
Il 5 marzo 2006 a San Pietroburgo è stato inaugurato un monumento dedicato ad Anna Andreevna Achmatova (Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966). Si tratta di un pezzo di parete con l’effigie della poetessa russa. L’iscrizione, che è incisa in un’immagine speculare, contiene delle parole prese dai versi delle sue poesie “L’ombra mia sulle pareti tue“.
La data di inaugurazione del monumento non è stata scelta a caso: coincide con il 40° anniversario della morte della poetessa, ed è stato collocato nel giardino accanto alla casa della fontana. In questa casa Anna visse per 30 anni ed ora qui, si trova il museo letterario-commemorativo a lei dedicato. La poetessa definiva il giardino della sua casa magico e diceva che qui arrivavano le ombre della storia pietroburghese.
Nella casa della fontana, palazzo nobiliare appartenuto all’aristocratica e influente famiglia Šeremetev a Leningrado, la Achmatova occupava un piccolo appartamento. L’edificio tardobarocco aveva un ampio cortile interno e una cancellata di ferro imponente. Dopo la Rivoluzione, era stato suddiviso in minuscole abitazioni e già mostrava i segni di un lento degrado.
L’alloggio di Anna era alla fine di una ripida scala buia; l’arredamento era essenziale: un tavolino, poche sedie, una cassapanca, il divano; alla parete, l’unico disegno del pittore Amedeo Modigliani salvato dall’assedio.
Anna Achmatova è ritenuta tra le maggiori poetesse del secolo in lingua russa. Fu anche una tra le più critiche penne contro lo stalinismo e la sua famiglia pagò duramente la sua opposizione: il suo primo marito fu fucilato, mentre il secondo marito e il figlio furono condannati alla detenzione nei gulag. Lei stessa fu osteggiata in più occasioni e costantemente controllata in ogni sua attività. Solo in tarda età, poco prima della sua morte, ricevette riabilitazione letteraria dalle autorità sovietiche.
A questa famosa poetessa è dedicato un singolare progetto: “Il Ritorno dell’Angelo”, una prova lampante che la musica è in grado di raccontare storie, dato che in essa spesso vivono, latenti, parole e dramma. Ponendosi in ascolto, dalla musica è possibile estrarre e combinare immagini e visioni, che possono condurre a espressioni differenti, più ampie, grazie all’ausilio del corpo e della voce.
L’idea musicale da cui parte questo progetto, che si muove tra teatro poetico e musica, sono i “24 Piano Works” di Marco Sollini. I brani, che saranno suonati da Martina Giordani al pianoforte, sono pieni di rimandi e suggestioni, e il progetto è unico nel suo genere. Sul palcoscenico insieme alla pianista saranno presenti anche due attori: Valentina Pacetti e Francesco Tranquilli. Tutti e tre gli artisti, il 21 di agosto, presso il castello di Falconara Alta, ci guideranno in un viaggio che parla essenzialmente d’amore. La storia d’amore tra l’Angelo e Vladimir. Anna è l’angelo, tale appellativo proviene da un suggerimento di Amedeo Modigliani (Livorno, 12 luglio 1884 – Parigi, 24 gennaio 1920), con cui la poetessa russa ebbe una breve ma intensa relazione; il pittore italiano la chiamava “il mio angelo dalla faccia triste”. Vladimir, invece, simboleggia tre degli uomini che la poetessa russa ha amato e che hanno segnato profondamente la sua vita sentimentale. Citazioni e versi recitati alla fine di ogni brano musicale sono tratti dalle poesie e dalle lettere di Anna Achmatova.
Per capire come si è arrivati a questa singolare rappresentazione e per approfondire alcuni aspetti dello spettacolo, ho posto alcune domande a due dei protagonisti dello spettacolo.
Allo scrittore, attore e regista Francesco Tranquilli ho rivolto le seguenti domande.
Quale è stata la scintilla che ha dato il via a questo interessante progetto e perché sono stati scelti proprio i “24 Piano Works” di Marco Sollini? Nell’estate 2021 mi è venuto in mente di scrivere un testo teatrale in poesia su musiche pre-esistenti. Di creare qualcosa che invertisse il percorso “tradizionale”, che parte dal testo e poi sceglie o compone una musica per arricchirlo o accompagnarlo. Io volevo trovare musiche che fossero nate indipendenti, e “usarle” perché mi ispirassero delle parole, dei versi, una storia, così da realizzare uno spettacolo di prosa poetica con musica dove la voce recitante fosse, per così dire, uno strumento aggiunto, ispirato dal testo musicale e non “appoggiato” sopra. Allora mi sono ricordato dell’album di Sollini del 2018, “The Angel Goes Home”, i cui brani sono stati tutti pubblicati e ristampati nel 2021 (tranne quello del titolo) come “24 Piano Works”. All’epoca Marco si era consultato con me sul titolo da scegliere, che prendeva spunto dal quadro di un pittore greco raffigurante un Angelo ortodosso, riprodotto sulla cover del cd originale. Riascoltando quei brani, tutti molto diversi fra loro, molto evocativi, ispirandomi ai loro ritmi, alle armonie, all’andamento melodico – e anche ai titoli – le parole hanno cominciato ad arrivare, e in un paio di mesi la “storia” dei due poeti era pronta: mancavano però i personaggi e l’intreccio, per fare del “Ritorno dell’Angelo” una narrazione teatrale e non un semplice recital.
Che cosa ha fatto scattare l’associazione tra la musica di Sollini e le poesie di Anna Achmatova? Tutto è andato a meglio a fuoco quando Marco mi ha comunicato che avremmo avuto in scena una pianista, scelta da lui personalmente, che ha debuttato con noi nell’agosto 2022 per una sola sera. Ora potevo definire meglio i rapporti fra i personaggi: la Poetessa, la Musicista, il Poeta combattuto fra l’una e l’altra, diviso fra un’affinità elettiva con la prima e un’attrazione innegabile per la seconda, che provoca rapidamente una crisi nella relazione dei due protagonisti “recitanti”. Restava l’Angelo del titolo. Siccome i pezzi per pianoforte di Sollini hanno tutti un retrogusto evidente – e voluto – del pianismo dei primi del Novecento, Rachmaninov non escluso, l’idea di un’ambientazione che alludesse alla Russia di quell’epoca si faceva strada. Allora il nome di Anna Achmatova, l’ “angelo” di Modigliani e l’ “Angelo Nero” del celebre ritratto di Tyrsa, mi è tornato in mente dai tempi dei miei studi universitari. Ho letto diverse sue biografie e ho visto che il “mio” angelo non poteva essere che lei. È seguita una lunga ricerca per trovare, all’interno della sua opera poetica e delle sue lettere, dei versi o delle frasi che potessero collegare i vari quadri di cui si compone il nostro spettacolo, rendendo anche più fluido il racconto di questa storia d’amore travagliata, come quelle di cui è stata protagonista la vera Anna. I versi che io e la bravissima Valentina Pacetti come Anna, recitiamo sulla musica, invece, sono stati composti da me, cercando di rispettare al massimo le partiture originali di Sollini.
Invece, alla pianista e didatta Martina Giordani ho posto i seguenti quesiti.
Che cosa ti ha spinto a partecipare a questo progetto? Sono stata contattata da Francesco Tranquilli parecchi mesi prima della messa in scena de “Il ritorno dell’angelo”. Mi ha incuriosito questo tipo di spettacolo, in cui parola e musica sono strettamente collegate. Conosco inoltre le musiche del Maestro Sollini e dopo aver letto la trama, ho deciso di prendere parte al progetto. Abbiamo già portato sul palco lo spettacolo a fine maggio, in tre date diverse, nella zona dell’ascolano. Sono lieta che ora l’Angelo approdi anche a Falconara, mio paese d’origine.
Quali sono le sensazioni che hai provato come pianista, associando la musica di Sollini alle poesie di Anna Achmatova? Le sensazioni sono molteplici. Più di tutte, la cosa che apprezzo in questo spettacolo è il mio ruolo: non sono una mera esecutrice, ma sono parte integrante dello svolgimento della storia; sono un personaggio in scena e, piccola anticipazione, sarò la guastafeste di turno! Per l’occasione infatti mi sono dovuta improvvisare attrice, oltre che pianista. In definitiva, un’esperienza nuova in cui suonare assume un significato ben preciso; ritengo che i brani di Sollini evochino al meglio le atmosfere della storia, ed esaltino i tratti caratteristici della poetessa.
Credi che musica e poesia possano trovare un terreno stabile entro il quale comunicare costantemente e in maniera profonda, senza dover rinunciare ciascuna alle sue particolari prerogative? Sicuramente il teatro può essere un terreno stabile in tal senso. Ogni arte mantiene la sua “natura” senza perdere dignità; anzi, combinate nella giusta maniera, credo che possano una esaltare l’altra.
Non mi resta che invitarvi allo spettacolo, per vivere in prima persona questa bellissima esperienza e per applaudire calorosamente gli artisti.
L’opera poetica di Emily Dickinson intensa e intima colpisce per la semplicità, per la singolare lettura degli elementi naturali attraverso i quali la poetessa riflette sul senso profondo della vita.
Emily Dickinson nacque nel 1830 ad Amherst (Massachusetts – USA). La sua famiglia non era benestante, ma i suoi familiari erano persone in vista nella comunità locale: ebbero un ruolo fondamentale nella vita culturale, sociale e politica statunitense. Sfogliando lettere e documenti comprendiamo che entrambi i genitori della poetessa erano molto severi, calati nel forte senso religioso e nelle rigide tradizioni puritane propugnate dai primi coloni inglesi che vissero proprio nella zona in cui la poetessa nacque e poi crebbe.
A quanto pare, Emily non soffrì particolarmente del clima rigido in cui visse e già in giovane età è evidente che è brillante e molto intelligente. I suoi studi iniziali si svolgono all’Accademia di Amherst, poi in una delle scuole più importanti del New England: la Mount Holyoke Female Seminary. Ben presto, però, la Dickinson decise di proseguire gli studi da autodidatta: non sopportava il fatto di dover professare pubblicamente la religione cristiana. Infatti, già in questo periodo, la giovane poetessa aveva una visione piuttosto scettica della religione. Questo però non escludeva un forte interesse per la sfera spirituale e proprio dal contrasto tra dubbio e ricerca della “verità” nasce e si evolve la particolare intensità della sua attività poetica.
Quando la Dickinson inizia a scrivere siamo intorno al 1850 e in quel periodo, nel New England, si stava profilando un’intensa attività letteraria. La poesia era un genere molto popolare, anche se in quegli anni, per le donne era difficile intraprendere qualsiasi tipo di professione.
Per quanto riguarda la sua vita, la poetessa statunitense, a un certo punto, iniziò a evitare i contatti sociali e si rinchiuse nella sua camera, arrivando al punto di non uscirne neppure in occasione della morte degli amatissimi genitori. La Dickinson mantenne contatti con l’esterno, ma solo attraverso una fitta corrispondenza con amici selezionati. Era particolarmente interessata agli eventi storici e alle tendenze culturali più importanti del suo tempo.
Scrisse moltissimo, ma sono davvero poche le poesie uscite dalla sua penna pubblicate quando lei era ancora in vita. Curiosamente, la poetessa scriveva le sue poesie su dei foglietti che ripiegava con cura e cuciva tra loro con ago e filo e infine, li riponeva in un cassetto della sua stanza. Dopo la sua morte, il 15 maggio 1886, i suoi scritti furono rinvenuti da sua sorella Vinnie. Nonostante la sua vita priva di eventi, nelle sue poesie la Dickinson mostra un’intensa e toccante immaginazione.
Il periodo più produttivo per la poetessa è quello degli anni della guerra civile americana (1861-1865). Probabilmente, perché molti dei suoi amici e corrispondenti più cari erano lontani. Le sue poesie non furono comprese e apprezzate dagli editori della sua epoca e solo nel XX secolo, i critici rivalutarono la sua opera e la poetessa fu stimata, insieme con Walt Whitman, come una delle fondatrici della poesia americana.
Le poesie della Dickinson hanno come temi centrali: l’immobilità, la solitudine e il silenzio, e gli spazi a cui fa riferimento nelle sue poesie sono sempre interiori, quelli dell’animo umano, indagati con grande profondità, per rilevare la distanza che esite tra mondo interiore e mondo esterno.
La prima raccolta “Poems by Emily Dickinson” (Poesie di Emily Dickinson), composta da centoquattordici poesie, fu stampata dopo la sua morte, nel 1890. Poi, nel 1891 fu pubblicato “Poems: Second Series”, e nel 1895 “Poems: Third Series”.
Lo stile poetico della Dickinson, originale e lontano dal gusto e dagli eventi del suo tempo, è stato chiaramente influenzato dalle sue variegate letture: William Shakespeare, John Milton, i poeti metafisici, Emily Brontë e altri scrittori suoi contemporanei, il trascendentalismo di Emerson e persino la tradizione puritana del New England.
Le sue poesie sono brevi, composte da quartine con schema metrico: abab oppure abcb. La Dickinson impiega spesso rime imperfette, utilizzando assonanze e allitterazioni. La sua tecnica poetica così particolare è stata assimilata a quella di un altro grande poeta visionario, William Blake.
Il linguaggio usato dalla poetessa statunitense è apparentemente semplice, mentre la sintassi è insolita. La Dickinson utilizza la punteggiatura in modo del tutto personale. Ad esempio, impiega i trattini al posto dei punti e delle virgole. Fa notevole uso di lettere maiuscole per conferire importanza a specifiche parole. Inoltre, utilizza paradossi e metafore insolite. L’insieme di tutte queste singolarità rende il senso delle poesie della Dickinson ambiguo e di non facile interpretazione.
Uno dei temi ricorrenti nelle poesie della Dickinson sono diversi: la natura, rappresentata in tutte le sue manifestazioni; la morte; la vita dopo la morte; l’eternità e Dio; l’amicizia; l’amore.
Pur trattando temi semplici e quotidiani, la sua poesia è investita da un’intensità e da una potenza suggestiva, che traggono vigore dalla sua profonda sensibilità e lasciano nel lettore un segno indelebile.
In copertina: Emily Dickinson fra il 1846 e il 1847
Il crepuscolarismo è una corrente che nasce e si diffonde all’inizio del Novecento, e rappresenta un’ideale parabola della poesia italiana, che si spegne in un “mite e lunghissimo crepuscolo”.
La corrente letteraria del crepuscolarismo apparve e fiorì in Italia all’inizio del Novecento, grazie ad alcuni poeti tra i quali: Guido Gozzano (1883-1916), Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907), Antonia Pozzi (1912-1938) e Corrado Govoni (1884-1965). Più che un movimento, si manifestò come una similitudine di stile e di intenti. In particolare, i poeti crepuscolari furono accomunati dal totale rifiuto di qualsiasi forma di poesia eroica o sublime.
Il termine “crepuscolarismo” deriva dal titolo di una recensione apparsa su “La Stampa”, il 1° settembre 1910, firmata da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Il critico utilizzò tale definizione per descrivere le poesie di Marino Moretti, Fausto Maria Martini (1886-1931) e Carlo Chiaves (1882-1919). Il termine passò poi a indicare una categoria letteraria.
L’adozione di questo particolare termine voleva sottolineare una situazione di spegnimento. Infatti, in queste poesie prevalgono i toni tenui e smorzati, e l’emozione preponderante è la malinconia, quella “di non aver nulla da dire e da fare“.
I crepuscolari restano fondamentalmente legati alla tradizione classica, pur essendo coscienti del suo decadimento. Rifiutano l’immagine dell’intellettuale protagonista della storia e svalutano la funzione del poeta. Riprendono Pascoli e le sue poesie “delle piccole cose” e il D’annunzio del “Poema paradisiaco”. Inoltre, nei loro versi si avverte l’influsso di Paul Verlaine (1844-1896) e di altri poeti decadenti francesi e fiamminghi.
I versi dei poeti crepuscolari, liberi da qualsiasi ornamento e privi del peso della tradizione, esprimono un costante bisogno di compianto e confessione. Nelle liriche di questi autori si avverte la nostalgia per i valori tradizionali perduti e una perenne insoddisfazione che ha come unico obiettivo quello di scovare angoli conosciuti e tranquilli in cui trovare rifugio.
I temi tipici del crepuscolarismo sono facilmente rintracciabili in una dichiarazione epistolare del 1904 di Corrado Govoni, uno dei primi poeti di crepuscolari, indirizzata all’amico Gian Pietro Lucini (1867-1914). “Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie”.
Per quanto riguarda la scelta linguistica, i crepuscolari mostrano una piena coerenza con le tematiche trattate. Le loro poesie sono più vicine alla prosa che alla poesia e i versi, pur essendo animati da un ritmo poetico, spezzano il legame con la metrica tradizionale. Tale inclinazione, priva oltretutto di qualsiasi forma aulica e classicistica, apre la strada al verso libero.
I primi testi del crepuscolarismo compaiono tra il 1899 e il 1904, dall’attività di un gruppo romano, operante attorno a Tito Marrone (1882-1967), Corrado Govoni e Sergio Corazzini, e contemporaneamente, di un gruppo torinese che ha come esponente principale Guido Gozzano. Accanto a questi due gruppi principali ci sono anche alcuni autori, come Fausto Maria Martini, Marino Moretti e solo per un certo periodo, Aldo Palazzeschi (1885-1974).
Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale fa parte dei miei ricordi scolastici. La musica delle sue parole mi aveva incantato e continua a incantarmi, ogni volta che alla mente mi sovvengono i suoi versi e mi ritrovo in solitudine a solfeggiarli.
Una poesia che immediatamente mi rimanda all’estate e ai lunghi e assolati pomeriggi della bella stagione è “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale. Poeta, scrittore, traduttore, giornalista e critico musicale, nato a Genova il 12 ottobre 1896 e morto a Milano, il 12 settembre del 1981, Montale è ritenuto uno tra i massimi poeti italiani del Novecento.
Visse in anni turbolenti, scossi da eventi storici tragici (vide succedersi ben due guerre mondiali), e già nella sua prima raccolta di poesie, “Ossi di seppia”, del 1925, diede voce alle inquietudini del suo tempo e al male di vivere.
Con le raccolte successive, “Occasioni” del 1939 e “La bufera e altro” del 1956, la sua poetica si approfondisce. Invece, nelle ultime raccolte, tra cui “Satura” del 1971 e “Quaderno di quattro anni” del 1977, tutte scritte dopo la morte della moglie, il poeta affronta nuove tematiche e sperimenta nuovi stili.
Meriggiare pallido e assorto fu scritta probabilmente nel 1916 ed è una tra le poesie più significative del primo Montale. I versi del poeta ci trasportano nella sua Liguria e ci ritroviamo immersi in un caldo pomeriggio estivo, assorti pigramente a osservare e ascoltare quanto accade tra un rovente muro d’orto e uno scorcio di mare lontano.
La scena è piena di vita e ha un suo ritmo speciale: quello dettato dai suoni aspri che fanno da pendant all’aridità del paesaggio. In questa sorta di singolare partitura, i merli “schioccano”, mentre le serpi “frusciano”, forse alla ricerca di un raggio di sole. A impegnarci visivamente poi, ci sono le formiche che si muovono indaffarate nelle fessure della terra e sulle piante, e noi ci ritroviamo a fissare incuriositi le loro fila che si compongono e si sfaldano alla sommità di piccoli cumuli di terra. Poi, mentre alle orecchie ci giunge il verso aspro delle cicale, ci rendiamo conto che il paesaggio in cui il poeta ci ha condotto è solo una metafora della vita umana, la cui insensatezza e l’impossibilità di sondarne il significato è rappresentato alla perfezione dall’alta muraglia che sulla cima è cosparsa di cocci aguzzi di bottiglia.
Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora si intrecciano a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Nella poesia “La sera fiesolana” Gabriele d’Annunzio inneggia alla sensualità della natura che si tramuta in donna, mentre il poeta si inebria di suoni e profumi al calare della notte.
“La sera fiesolana” di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938) fu scritta e pubblicata sulla rivista “Nuova Antologia” nel 1899. Essa apre la raccolta “Alcyone” (1903) ed è ritenuta uno dei vertici della vasta produzione poetica di D’Annunzio.
Questa poesia è incentrata sul rapporto di reciproca e costante fusione tra uomo e natura, tema caro a D’Annunzio che con questa lirica tocca la sua massima espressione artistica e mostra una piena maturità umana e creativa, maturità che ha raggiunto negli anni a cavallo fra i due secoli. In questa fase si allontana dai temi politici e patriottici e si rifugia in una poesia più intima.
La sera fiesolana è composta da tre strofe di quattordici versi di varia lunghezza. Al termine di ogni strofa il poeta ha introdotto una laudazione di tre versi. Ogni strofa include tre, o due, o quattro endecasillabi iniziali e un quinario finale, che rima con il primo verso successivo. L’ottavo verso, all’inizio della seconda parte della strofa, è sempre endecasillabo. Il terzetto a fine strofa, concepito in forma di antifona, richiama il “Cantico delle creature di san Francesco” ed è formato da un endecasillabo, dal trisillabo “o Sera” associato a un dodecasillabo, e da un quinario.
Questa poesia dannunziana è un esempio di musicalità che discende da un uso accorto delle rime e delle allitterazioni, ed è esaltata dall’impiego di numerose figure retoriche. Ad esempio: la sinestesia con cui inizia la lirica (“Fresche le mie parole”) che affianca la sensazione uditiva delle parole a quella tattile della freschezza; le similitudini (“come labbra”, “come il fruscio”, ecc.); le metafore (“rosei diti”, “vesti aulenti”, ecc.); l’apostrofe (“O sera“); l’anastrofe (“che fan di santità pallidi i clivi”); il polisindeto (su i gelsi e su gli olmi e su le viti / e su i pini … / e su il grano … / e su ‘l fieno … / e su gli olivi).
Quando compose La sera fiesolana, D’Annunzio viveva insieme alla compagna, Eleonora Duse (1858 – 1924), nella Villa della Capponcina a Settignano, vicino Firenze, dove si era trasferito nel 1898 e dove rimase fino al 1910.
In questo luogo, dove è facile immergersi nella natura e lasciarsi coinvolgere dalle intense sensazioni che essa provoca, il poeta descrive una serata di giugno nella campagna fiesolana, appunto, dopo la pioggia, nel momento in cui si avvicina il crepuscolo. In questa oasi di pace, i sensi liberi viaggiano fra suoni e profumi, mentre l’oscurità della notte avanza. Udito, tatto e olfatto si acuiscono a mano a mano che la vista si affievolisce a causa del buio e si possono così percepire melodie, odori e tutto quello che in condizioni normali non si potrebbe avvertire.
Le immagini che ci presenta D’Annunzio ne La sera fiesolana sono fortemente evocative, di una bellezza impalpabile. La sensazione generale, leggendo questa poesia, è trovarsi in un sogno dalle sfumature mistiche. Il misticismo è in legato in particolare ai tre versi di laude posti a conclusione di ogni strofa.
Il tratto saliente di questa lirica resta comunque la sensualità, tipica di D’Annunzio che nei versi finge di colloquiare con una donna, la Sera dal “viso di perla”, dalle “vesti aulenti” e dai “grandi umidi occhi” o quando intravede nel profilo delle colline fiorentine, illuminate dalla luna, delle labbra, pronte a pronunciare delle parole, ma che per un misterioso motivo sono impedite a emettere voce.
Ne La sera fiesolana l’uomo e un tutt’uno con la natura; paesaggio e stato d’animo si riflettono l’uno nell’altro, in un crescendo di emozioni e sensazioni, scandite dal fruscio delle foglie, dal sorgere della luna e dall’apparizione delle stelle, e così via. Attraverso questa commistione, D’Annunzio dà voce al pensiero decadente che secondo il poeta non è altro che quel processo che conduce la natura ad antropomorfizzarsi e l’uomo a naturalizzarsi.
La sera fiesolana di D’Annunzio
Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace l’acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva tepida e fuggitiva, commiato lacrimoso de la primavera, su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l’aura che si perde, e su ’l grano che non è biondo ancóra e non è verde, e su ’l fieno che già patì la falce e trascolora, e su gli olivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne a l’ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte, o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare le prime stelle!
L’amore è un sentimento complicato, fatto di luci e ombre, come ci hanno fatto comprendere chiaramente Cecilia Cozzi e Martina Giordani con le loro interpretazioni differenti, ma entrambe illuminanti.
Sono arrivata con un discreto anticipo all’appuntamento con Sapere d’estate: “Amore: una sinfonia di luci (e ombre)” che si è svolto ieri, 11 agosto, in piazza del Municipio a Falconara. Ho potuto così assistere agli ultimi ritocchi prima di “andare in scena”, mentre una leggera brezza rendeva ancora più piacevole l’attesa.
Le due mattatrici dello spettacolo sono state: Cecilia Cozzi, in veste di relatrice e Martina Giordani, nel ruolo di pianista. Entrambe sono riuscite nell’intento di incantare e intrattenere il pubblico attento e partecipe. Piacevoli, interessanti e gestite con grande maestria le parole; superbe ed ispirate le esecuzioni di brani piuttosto impegnativi di Schubert, Liszt, Chopin, Rossini e Grieg.
L’amore è stato l’argomento principe della serata, come appunto, già annunciava il titolo dell’evento. Amore che è stato analizzato in tutte le sue declinazioni, passando dagli aspetti più luminosi di questo universale sentimento a quelli più “ombrosi”.
L’analisi si è compiuta attraverso un originale excursus tra i testi degli antichi Greci. Cecilia Cozzi ha letto e commentato versi, aggiungendo al già felice mix una buona dose di argute osservazioni che hanno evidenziato come gli atteggiamenti nei confronti dell’amore, dall’antichità fino a oggi, non abbiano subito sostanziali cambiamenti. Nei versi dei poeti dell’antichità, anche se le espressioni e le parole sono spesso diverse dalle nostre, si è denotato lo stesso ventaglio di emozioni che anche noi oggi sperimentiamo quotidianamente: delusione e rabbia per un amore non corrisposto; gelosia; gioco e leggerezza; tenerezza, ecc.
Anche la musica ha dato la sua personale visione dell’amore, attraverso il percorso sonoro affrontato al pianoforte da Martina Giordani che ci ha consentito di esplorare altre recondite sfumature di questo meraviglio e complicato sentimento.
Le spiegazioni fornite per ogni brano, nonché la notevole bravura esecutiva e interpretativa della pianista sono state il completamento perfetto di una serata magnifica, certamente da ripetere.
Cardarelli ha espresso nei suoi versi le emozioni create dal passare del tempo, dall’avvicendarsi delle stagioni, dal trascorrere dei giorni e delle ore. Due delle sue poesie più famose sono dedicate a Venezia, qui i versi che descrivono la città si fondono con le emozioni del poeta.
Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, 1° maggio 1887 – Roma, 18 giugno 1959), il cui vero nome era Nazareno Caldarelli, è stato un poeta, scrittore e giornalista italiano. A Corneto Tarquinia, Vincenzo trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Due periodi della sua vita particolarmente duri, segnati dall’assenza della madre, che lasciò la famiglia quando il poeta era ancora piccolo, dalla solitudine e da problemi di salute.
Cardarelli compì studi irregolari e per la maggior parte, come autodidatta. A diciassette anni scappò di casa e si recò a Roma, per mantenersi si dedicò ai più svariati mestieri, poi nel 1909, intraprese la carriera giornalistica, iniziando a collaborare con vari quotidiani e riviste. Nel 1916, diede alle stampe la sua prima raccolta di poesie, “Prologhi”. Da quel momento, l’attività giornalistica si intrecciò con quella poetica.
Vincenzo Cardarelli è famoso per le numerose raccolte poetiche, ma anche per le prose autobiografiche di costume e di viaggio: “Prologhi” (1916), “Viaggi nel tempo” (1920), “Favole e memorie” (1925), “Il sole a picco” (1929), “Il cielo sulle città” (1939), “Lettere non spedite” (1946), “Villa Tarantola” (1948). I suoi punti di riferimento letterari furono: Charles Baudelaire (1821-1867), Friedrich Nietzsche (1844-1900), Giacomo Leopardi (1798-1837), Blaise Pascal (1623-1662). Grazie a loro riuscì a dare forma alle proprie passioni incastonandole in una cornice razionale. La sua poesia era essenzialmente descrittiva, connessa ai ricordi: di paesaggi, di animali, di persone e di stati d’animo. Il poeta utilizzava un linguaggio discorsivo ma al contempo, passionale e profondo.
La vita di Cardarelli fu essenzialmente un’esistenza isolata; per similitudini poetiche, caratteriali e anche per problemi di salute (soffriva del morbo di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare) fu accostato a Leopardi. Morì a Roma, il 18 giugno 1959, e il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca, come da lui specificatamente richiesto nel testamento.
La sua opera poetica si colloca tra l’avanguardia del primo decennio del Novecento e la restaurazione classicista degli anni venti. Dello spirito avanguardistico restò sempre un’eco nella poesia di Cardarelli, anche quando formalmente se ne distaccò. Nelle poesie più vicine a quella corrente il poeta aderiva a particolari scelte espressive, come frammentismo ed espressionismo linguistico, e utilizzava argomenti, quali lo sradicamento, la perdita di identità, l’adolescenza, il viaggio. Il ritorno all’ordine, dopo le pulsioni avanguardiste, si verificò intorno agli anni Venti e fu la conseguenza di un’incertezza psicologica, causata dalla crisi della funzione sociale dell’intellettuale. Questo clima restaurativo fu accolto con entusiasmo da Cardarelli che reputò tale ritorno al passato e alla tradizione, come un’occasione per rilanciare l’identità del letterato e dell’intellettuale.
I versi di Cardarelli manifestano una grande chiarezza logica e limpidezza linguistica; lo stile è elegante e rigoroso. Il poeta nelle sue liriche ha sempre aspirato alla compostezza, a un tono colloquiale e a un atteggiamento distaccato, muovendosi sempre tra due poli contrastanti, quello dell’impulso trasgressivo e quello del desiderio di autocontrollo. Tra i due estremi, solitamente, prevaleva la moderazione che sfociava in un garbo formale.
Nelle poesie di Cardarelli, i temi ricorrenti sono il trascorrere delle stagioni, i ricordi dell’infanzia e dei paesaggi collegati a quel periodo. Il poeta esplorava allo stesso modo la vitalità estiva e il disfacimento malinconico dell’autunno. Per lui, il passare del tempo era l’emblema delle vicissitudini della vita.
Tra le due Guerre mondiali, Cardarelli visse tra Toscana, Lombardia e Veneto. Il Veneto sembra aver dato le ali alla sua ispirazione, specialmente la città di Venezia alla quale il poeta ha dedicato due tra le sue poesie più note.
La prima poesia sulla città veneta è: “Settembre a Venezia” che compare per la prima volta nella raccolta “Poesie”, del 1936. Il poeta raffigura la città lagunare durante un crepuscolo di settembre; gli ultimi raggi del sole fanno brillare gli ori dei mosaici di San Marco, mentre la luna sorge sulle Procuratie vecchie. Il componimento poetico è diviso in due parti. Nella prima, il poeta descrive gli effetti del tramonto sulla città; nella seconda, riflette sulle impressioni che susciterà in lui il ricordo, quando le immagini davanti ai suoi occhi si saranno sedimentate, diventando finalmente sue. I versi di questa lirica sono liberi, ci sono soltanto due casi di rima (vv.8 e 11; 20 e 22), mentre ci sono allitterazioni e rispondenze interne.
Settembre a Venezia
Già di settembre imbrunano a Venezia i crepuscoli precoci e di gramaglie vestono le pietre. Dardeggia il sole l’ultimo suo raggio sugli ori dei mosaici ed accende fuochi di paglia, effimera bellezza. E cheta, dietro le Procuratìe, sorge intanto la luna. Luci festive ed argentate ridono, van discorrendo trepide e lontane nell’aria fredda e bruna. Io le guardo ammaliato. Forse più tardi mi ricorderò di queste grandi sere che son leste a venire, e più belle, più vive le lor luci, che ora un po’ mi disperano (sempre da me così fuori e distanti!) torneranno a brillare nella mia fantasia. E sarà vera e calma felicità la mia.
L’altra poesia dedicata da Cardarelli alla città lagunare è: “Autunno veneziano”. Fu pubblicata nel 1942, nella raccolta “Poesie”. In questi versi, il poeta illustra un autunno fatto di morte e di disfacimento, privo di suoni e velato di una malinconia venefica.
Autunno veneziano
L’alito freddo e umido m’assale di Venezia autunnale, Adesso che l’estate, sudaticcia e sciroccosa, d’incanto se n’è andata, una rigida luna settembrina risplende, piena di funesti presagi, sulla città d’acque e di pietre che rivela il suo volto di medusa contagiosa e malefica. Morto è il silenzio dei canali fetidi, sotto la luna acquosa, in ciascuno dei quali par che dorma il cadavere d’Ofelia: tombe sparse di fiori marci e d’altre immondizie vegetali, dove passa sciacquando il fantasma del gondoliere. O notti veneziane, senza canto di galli, senza voci di fontane, tetre notti lagunari cui nessun tenero bisbiglio anima, case torve, gelose, a picco sui canali, dormenti senza respiro, io v’ho sul cuore adesso più che mai. Qui non i venti impetuosi e funebri del settembre montanino, non odor di vendemmia, non lavacri di piogge lacrimose, non fragore di foglie che cadono. Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore su un davanzale è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali non son che luci smarrite, luci che sognano la buona terra odorosa e fruttifera. Solo il naufragio invernale conviene a questa città che non vive, che non fiorisce, se non quale una nave in fondo al mare.
Venezia ha avuto un’eco nella vita e nella produzione poetica di Cardarelli. Mentre risiedeva nella città veneta, il poeta diede corpo al suo fascino, attraverso versi dotati di sensibilità ed eleganza. Le sue parole la raffigurano sospesa in un magico equilibrio tra decadenza e antichi splendori bizantini. Il punto di partenza di Cardarelli, anche nel caso delle due liriche dedicate a Venezia, è lo stesso che ricorre in tutta la sua poetica: una stagione, un ricordo, un’emozione.
Come vi muovete in città? Camminate senza guardarvi intorno, infilando un passo dietro l’altro? Per raggiungere la vostra meta percorrete solo le vie più brevi o quelle che conoscete meglio? O siete, invece, degli inguaribili “flâneur”?
Flâneur, come avrete già intuito, è un termine francese, a coniarlo e renderlo famoso fu il poeta simbolista Charles Baudelaire (1821-1867; oltre che poeta, critico letterario, critico d’arte, giornalista, filosofo, aforista, saggista e traduttore). Il termine flâneur indica il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie della città, senza alcuna fretta. Il suo girovagare ha come unico scopo quello di sperimentare e provare emozioni, osservando il paesaggio. Se volessimo tradurre l’arte del flâneur in italiano, potremmo dire: “andare a zonzo“.
Baudelaire usò il termine flâneur per definire l’artista la cui mente è indipendente, imparziale e appassionata, “che il linguaggio può solo definire maldestramente“. “Per il perfetto flâneur, per l’osservatore appassionato, è un piacere immenso prendere la residenza nel numeroso, nell’ondulato, nel mobile, nel fugace e infinito. Essere lontano da casa, eppure sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo, e rimanere nascosto al mondo“.
Sotto l’influenza di Georg Simme (1858-1918; sociologo e filosofo tedesco), Walter Benjamin (1892 – 1940; filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco, fu un pensatore eclettico che si occupò di estetica, sociologia e materialismo storico), che tradusse Baudelaire, sviluppò la nozione di flâneur e spesso nella sua opera ricorre tale termine. Molti altri pensatori, dopo di lui, ripresero il concetto di flâneur e lo collegarono alla modernità, alle metropoli, all’urbanismo e al cosmopolitismo. Con il passare del tempo, esso assunse un notevole peso sia in architettura sia urbanistica.
Negli anni intorno al 1850, Baudelaire teorizzava che la figura dell’artista a lui contemporaneo dovesse avere un atteggiamento diverso dal passato, un atteggiamento cioè in sintonia con le nuove dinamiche e le complicazioni introdotte dalla vita moderna che aveva subito parecchi cambiamenti sia a livello sociale sia a livello economico, principalmente legati al processo di industrializzazione.
Secondo il poeta, l’artista doveva immergersi nella città e trasformarsi in “un botanico del marciapiede“, in qualcuno che conoscesse a fondo il tessuto urbano. “Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come volete; ma sarete certamente portati, per caratterizzare questo artista, a gratificarlo di un epiteto che non potreste applicare al pittore di cose eterne, o almeno più durature, di cose eroiche o religiose. A volte è un poeta; più spesso è più vicino al romanziere o al moralista; è il pittore della circostanza e di tutto ciò che suggerisce dell’eternità“.
I termini flâneur e flânerie (bighellonare, passeggiare, vagare) furono creati da Baudelaire, pensando in particolare ai parigini; per lui, le città ideali in cui vagare erano Parigi e Napoli, in quanto idonee all’esplorazione condotta in tutta calma e senza pianificazioni. L’atteggiamento del flâneur è bene definito dalla frase: “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie di Parigi“, che definisce il suo vagare volutamente pigro e senza ombra di urgenza.
Il filosofo Benjamin afferrò il concetto di flâneur come mezzo di analisi e stile di vita. Lo stile di vita che derivava dalla vita moderna e dalla rivoluzione industriale. Il flâneur per Benjamin è un borghese dilettante e lui stesso ne vestì i panni: faceva lunghe passeggiate per le strade di Parigi e da queste escursioni urbane traeva osservazioni sociali ed estetiche.
In architettura e urbanistica contemporanea, la progettazione è per il flâneur una maniera per avvicinarsi ai risvolti psicologici della costruzione di edifici. Ad esempio, l’architetto americano, Jon Jerde (1940-2015), concepì il suo Horton Plaza a San Diego e l’Universal CityWalk di Los Angeles, in modo da sorprendere e distrarre potenziali passeggiatori.
Secondo Baudelaire, per il perfetto flâneur “è un piacere immenso prendere dimora nel numero, nell’ondulazione, nel movimento, nel fugace e nell’infinito. Essere lontano da casa, e tuttavia sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo e rimanere nascosto al mondo, questi sono alcuni dei piaceri minimi di quegli spiriti indipendenti, appassionati, imparziali che il linguaggio può solo maldestramente definire. L’osservatore è un principe che si gode il suo incognito ovunque. […] Può anche essere paragonato a uno specchio immenso come questa folla; a un caleidoscopio dotato di coscienza che, con ciascuno dei suoi movimenti, rappresenta la vita multipla e la grazia mobile di tutti gli elementi della vita. È un sé insaziabile del non sé, che in ogni momento lo rende e lo esprime in immagini più vivide della vita stessa, che è sempre instabile e fugace”.
E voi, alla luce di queste parole, vi potete definire dei perfetti flâneur? Vivete la vostra città appieno oppure per voi le città sono solo luoghi nati per soddisfare bisogni pratici e urgenti necessità?
In copertina: Gustave Caillebotte, “Strada di Parigi in un giorno di pioggia” (Rue de Paris, temps de pluie) (1877), Art Institute of Chicago
L’8 febbraio del 1888 nasceva Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1° giugno 1970), poeta, scrittore, traduttore, giornalista e accademico italiano. Le sue poesie hanno lasciato un segno profondo nella letteratura italiana del XX secolo.
Ungaretti e in generale la poesia ermetica, che il famoso poeta ha anticipato, hanno sempre fatto risuonare in me delle profonde emozioni. Il primo incontro con le poesie di Ungaretti è stato di ordine scolastico ed è stato un colpo di fulmine. C’è stato anche un secondo incontro, altrettanto forte, musicale stavolta: quando con il coro abbiamo affrontato una versione musicale della sua poesia “La madre”.
I versi di Ungaretti hanno il potere di toccare l’anima e la loro bellezza risiede in ciò che riescono a suggerire e nella loro capacità di far vibrare corde segrete nell’animo di chi legge.
In questo, a prima vista, scarno mondo poetico si avverte, sotto la superficie, un mondo di sentimenti e di emozioni espressi con poche essenziali parole, che però riescono a far percepire il tutto, anche e soprattutto, il non detto, perché ciò che sembra mancare è presente dentro di noi e si manifesta attraverso risonanze profonde. Le parole di Ungaretti sono una sorta di richiamo che ci consente, leggendo le sue poesie, di recuperare un mondo sommerso.
Giuseppe Ungaretti è stato una tra le voci più rilevanti nel panorama letterario italiano del XX secolo. Mosse i primi passi, seguendo il simbolismo francese e in un primo tempo, produsse componimenti poetici stringati, limitati a poche parole e animati da analogie originali. Successivamente, le sue poesie acquisirono una maggiore complessità, mentre i concetti si facevano più ardui.
La sua poetica subì un’importante evoluzione indotta in particolare dal dolore per la morte del figlio. Le poesie di questo periodo assumono una veste meditativa e sono concentrate su un’intensa riflessione sul destino umano. Negli ultimi anni di vita, nei versi di Ungaretti spiccano la saggezza raggiunta dal poeta ormai giunto a un’età avanzata e un senso di tristezza e distacco.
Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto, da genitori italiani. Il padre morì due anni dopo la nascita del poeta e fu la madre, gestendo un forno di proprietà, a garantire i migliori studi al figlio che poté frequentare le più prestigiose scuole. Proprio durante il periodo scolastico, il poeta iniziò ad avvicinarsi alla poesia, giovandosi degli stimoli che provenivano sia dalle antiche tradizioni sia dalle novità, garantite dalla multietnicità del suo luogo di nascita. Fu particolarmente vicino alla letteratura francese ma anche a quella italiana: lesse le opere di Rimbaud, Mallarmé, Baudelaire, ma anche di Leopardi e persino di Nietzsche.
Dopo una breve esperienza lavorativa nel settore commerciale, il poeta si trasferì a Parigi per frequentare l’università. In questi anni conoscerà diverse importanti personalità del panorama artistico, quali: Guillaume Apollinaire, Georges Braque, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Pablo Picasso, Giorgio de Chirico, Amedeo Modigliani; iniziò anche a collaborare alla rivista “Lacerba”, pubblicando alcuni suoi componimenti poetici e liriche.
Nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale e quando l’Italia entrò nel conflitto, il poeta decise di arruolarsi. Durante gli anni di guerra, Ungaretti teneva con sé un taccuino, su cui appuntava le sue poesie che furono stampate nel 1916, con il titolo: “Il porto sepolto”. Proprio di questi anni sono le sue poesie più famose: “Mattina” scritta il 26 gennaio del 1917 e “Soldati” nel mese di luglio del 1918.
Negli anni che seguirono la prima guerra mondiale e precedettero la seconda, il poeta rimase a Parigi e fu, dapprima, corrispondente del giornale “Il Popolo d’Italia”, poi fu impiegato dell’ufficio stampa all’ambasciata italiana.
Nel 1920, conobbe Jeanne Dupoix e la sposò; l’anno successivo si trasferì a Marino (Roma), dove collaborò all’ufficio stampa del Ministero degli Esteri, mentre si dedicava a una fitta attività letteraria su riviste e quotidiani francesi. Nello stesso periodo, viaggiò molto e ottenne parecchi riconoscimenti ufficiali.
Dal 1931, Ungaretti divenne inviato speciale de “La Gazzetta del Popolo” e per tale incarico fu in Egitto, in Corsica, nei Paesi Bassi e in Italia meridionale. Nel 1933, il poeta è all’apice della sua celebrità; dal 1936 al 1942 lo troviamo con la famiglia in Brasile, dove si era trasferito per ricoprire la cattedra di letteratura italiana, all’Università di San Paolo del Brasile.
Tornato in Italia, Ungaretti fu nominato Accademico d’Italia. Caduto il fascismo, nel luglio del 1944, il poeta fu sospeso dall’insegnamento e fu reintegrato solo nel febbraio del 1947; mantenne il ruolo di docente universitario fino al 1958 e fuori ruolo fino al 1965.
Dal 1942, Mondadori incominciò a pubblicare l’opera omnia del poeta, con il titolo “Vita di un uomo”. Inoltre, Ungaretti stesso, a partire dal secondo dopoguerra, mandò in stampa nuove raccolte poetiche e ricevette diversi premi. Nel 1958, il poeta perse sua moglie Jeanne che morì dopo una lunga malattia. Il 1° gennaio del 1970, Ungaretti scrisse la sua ultima poesia, “L’Impietrito e il Velluto” e nello stesso anno fece un viaggio a New York, dove ritirò il premio internazionale dall’Università dell’Oklahoma. Morì all’età di 82 anni, nella notte tra il 1° e il 2 giugno 1970, a Milano, di broncopolmonite; fu seppellito nel Cimitero del Verano, a Roma, accanto alla moglie Jeanne.
Per quanto riguarda la poetica di Ungaretti, una delle sue raccolte di poesie: “L’allegria” rappresenta un momento fondamentale per la storia della letteratura italiana. Le poesie, scritte in gran parte tra il 1914 e il 1919, manifestano i sentimenti del poeta nei confronti di ciò che ha vissuto durante la prima guerra mondiale: c’è il dolore, ma sono presenti anche valori quali umanità e fratellanza e il desiderio di riscoprire un’armonia con il cosmo, come appare chiaramente nella poesia “Mattina”. Nelle opere successive si delineerà sempre più, non solo una particolare cura della parola, ma anche l’idea che la poesia sia l’unico mezzo per l’uomo o uno dei pochi per salvarsi dall’ “universale naufragio”. Inoltre, emerge anche uno “slancio vitale”, rafforzato dalla precarietà della vita e dalla visione della morte legate all’esperienza della guerra.
Non tutti furono concordi nell’affermare la grandezza della poesia di Ungaretti, infatti, oltre agli estimatori, ci furono anche molti critici, una condizione normale per qualsiasi precursore e riformatore. Ad apprezzare in particolare i suoi versi furono i poeti dell’ermetismo che videro in lui un maestro e un iniziatore della poesia “pura”.
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