Un evento d’eccezione per i trent’anni del premio Tiberini

Sabato 25 novembre 2023 a San Lorenzo in Campo (PU) si è tenuta la XXX edizione del Premio lirico internazionale Mario Tiberini.

Quest’anno al tradizionale prestigio dell’evento si è aggiunta una singolare novità, che ha reso irripetibile l’appuntamento musicale. Si tratta dell’esecuzione e relativa registrazione in prima mondiale assoluta delle musiche ritrovate da Giosetta Guerra, biografa del tenore Tiberini, composte dal tenore stesso, da suo figlio e da musicisti dell’epoca che le hanno dedicate al tenore.

Nell’accogliente cornice del Teatro Tiberini, in un clima familiare, abbiamo assistito all’esecuzione di 19 brani. Queste eccezionali chicche sonore sono il risultato del lavoro certosino fatto da Giosetta Guerra, che, grazie a una laboriosa attività di ricerca, è riuscita a raccogliere queste musiche inedite per proporle nell’edizione di quest’anno del premio a un folto e interessato pubblico.

Chi, come me, ha assistito allo spettacolo ha potuto appurare che Mario Tiberini (San Lorenzo in Campo 8 settembre 1826 – Reggio Emilia 16 ottobre 1880), non è da celebrare solo per la sua carriera di talentuoso tenore, conteso da tutti i più importanti teatri, ma anche per la sua valenza compositiva.
I brani sono inni, marce militari, stornelli patriottici, ma anche arie da camera di stampo sentimentale. In pratica, in queste composizioni emerge con chiarezza l’impegno politico di Tiberini, che aveva particolarmente a cuore la causa italiana, infatti la sua vita artistica si è saldamente intrecciata alla storia del Risorgimento italiano.

Il nutrito e piacevole programma è stato il seguente:

  1. Speranza Polka (musica di Mario Tiberini padre) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  2. Stornelli patriottici (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  3. Inno ginnastico (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
    insieme al coro Jubilate
  4. Improvvisata (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  5. Il mio bambino lontano (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Francesca Carli
  6. La fata (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  7. Beatrice polka (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  8. Ai fiori (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  9. Di notte – marcia (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  10. Brano per banda “Alla regina Margherita” (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito dal gruppo musicale Tiberini, diretto dal Maestro Daniele Bianchi
  11. Dammi un bacio (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  12. Povero amore (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
  13. Desiderium (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  14. Stornello d’amore (musica di Domenico Lucilla, primo maestro di canto di Tiberini) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  15. Mio povero amor (musica di Bonamici) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
  16. Serenata d’un angelo (musica di Luigi Mancinelli) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  17. Elegia (musica di Bernardi) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  18. Amore (musica di Gaetano Palloni) duetto eseguito dal tenore Enrico Giovagnoli e dal soprano Francesca Carli
  19. Wedding flowers (musica di Mario Tiberini padre) eseguito da Giovanni Scaramuzzino alla chitarra e da Francesco Scaramuzzino al mandolino

Gli interpreti della serata hanno messo in mostra tutte le loro qualità espressive e le loro capacità tecniche.
I brani eseguiti rientravano appieno nel repertorio del belcanto ottocentesco e, pur essendo composizioni di autori non particolarmente noti al grande pubblico, non erano scevri di eleganza e bellezza.
Inoltre, a un ascolto attento, si poteva rilevare che dietro le venature romantiche erano celate notevoli insidie per gli esecutori che hanno superato brillantemente ogni scoglio, lasciandosi trasportare dal pathos dei versi, mettendone in luce le singolarità e cogliendo puntualmente con l’espressione vocale via via i momenti drammatici, quelli gioiosi o giocosi.
In vari brani è emerso anche lo spirito risorgimentale, così come non sono mancati momenti più spensierati o appassionati afflati amorosi.

Il maestro Bavaj si è brillantemente espresso nei brani solistici e come accompagnatore dei cantanti.
I brani solo strumentali sono stati eseguiti in modo impeccabile, lasciando trapelare ogni intento dei vari compositori, mentre i brani di sostegno alle esibizioni vocali hanno visto un accompagnamento puntuale in cui voci e strumento si fondevano o si scambiavano i ruoli in una perfetta e armonica simbiosi.

Piacevole l’esecuzione della banda e del duo Scaramuzzino, padre e figlio (proprio come i Tiberini) che hanno chiuso il gradevolissimo spettacolo musicale.

Alla fine del concerto è stato consegnato il Tiberini d’oro al tenore Enrico Giovagnoli, “per rievocare di Tiberini vocalità e sembianze e per applicare arte scenica e canora all’opera lirica e ad altri generi musicali”.

Per concludere, aggiungo che la serata è stata impreziosita tra un brano e l’altro dagli interventi di Giosetta Guerra che ha raccontato in modo coinvolgente interessanti notizie sulla vita di Tiberini e sulla sua attività.
Da rilevare anche le “intrusioni” in veste di narratore/presentatore di Marcello Moscoloni, che ha introdotto i brani e anticipato i testi, successivamente cantati dai solisti.

Lo spettacolo si è concluso con il saluto di tutti gli artisti e gli organizzatori comprese le autorità sotto una pioggia di fiori e cuori.

“Salonmusik”, musica da salotto: genere prediletto dalla borghesia

Salonmusik musica da salotto genere prediletto dalla borghesia

Nell’Ottocento e fino a inizio Novecento si diffonde la cosiddetta musica da salotto.
Espressione musicale tipica della borghesia, consentiva ad abili dilettanti di divertirsi facendo musica insieme, e a un pubblico scelto di ascoltare eccellenti esecuzioni in ambiti domestici.

La musica in casa e la musica in salotto erano una piacevole abitudine ottocentesca.
Per i borghesi del tempo, la musica costituiva un’opportunità di affermazione sociale che si manifestava non solo attraverso le consuete esibizioni pubbliche, ma anche in quelle praticate nell’intimità delle case private.
Per assecondare questa particolare inclinazione musicale, nel corso del secolo, aumentarono i dilettanti esecutori e al contempo, il pianoforte divenne l’arredo indispensabile di un salotto borghese.

Parlando di “musica domestica” (Hausmusik) e “musica da salotto” (Salonmusik) ci troviamo di fronte a termini abbastanza simili, però, la prima espressione comprende un ambito più vasto, include cioè, sia la musica che era eseguita tra le pareti domestiche sia quella realizzata appositamente per essere suonata in casa.
I fruitori di questo specifico repertorio, nonché gli esecutori di tale musica erano i dilettanti o i familiari e gli amici che amavano suonare insieme.

Per quanto riguarda invece la seconda definizione (musica da salotto) siamo dinanzi a un termine con un senso più definito: si tratta della produzione musicale appositamente realizzata per essere eseguita nei salotti europei dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, più o meno sino alla prima guerra mondiale.

I due repertori, quello della Hausmusik e della Salonmusik, si differenziano anche per il carattere: il primo aveva, tendenzialmente, un carattere intimistico; il secondo, invece, era il più delle volte sentimentale e brillante.

La borghesia europea tra Settecento e Ottocento ambiva a diventare la classe sociale predominante e la musica si prestava agevolmente all’affermazione di tale ambizione.
Mentre il concerto pubblico si diffonde, in contrapposizione a quello privato di ascendenza aristocratica, si viene affermando anche l’uso di suonare in casa sia per divertimento sia a scopo formativo.

La musica da salotto si avvalse anche vantaggiosamente della pratica della trascrizione che consentì alla borghesia di esperire la letteratura musicale in toto, spaziando dalla musica sinfonica a quella operistica.
L’usanza di fare musica in salotto proseguì sino al primo Novecento, poi l’avvento del grammofono e della radio ne decreteranno la lenta estinzione.

Nel XVII secolo, la Hausmusik prima di rappresentare uno specifico costume musicale era un termine usato come titolo di raccolte di Lieder di matrice luterana, destinate all’esecuzione domestica.
Nel XVIII secolo, invece, il termine compare in pochissime occasioni, nonostante ci sia una grande quantità di musica pensata e realizzata proprio per i dilettanti.
Fu a cominciare dalla metà del XIX secolo che la musica domestica diventò piuttosto frequente, quando cioè aumentò la divergenza tra musica d’arte, destinata ai professionisti, e musica d’uso, composta per gli amatori.

Il problema della difficoltà, infatti, era legato alla possibilità o meno di tale musica di essere eseguita tra le pareti domestiche da dilettanti. Nel momento in cui la complessità di tali composizioni aumentò, quando cioè, iniziarono ad affermarsi brani come Lieder, quartetti e trii di genere più impegnativo, fu necessario possedere capacità interpretative di un livello superiore e quindi, ai semplici dilettanti subentrarono musicisti professionisti che si dedicarono a un’attività concertistica vera e propria.
A metà Ottocento, proprio in seguito all’affermazione di questo divario esecutivo, compositori ed editori iniziarono a specificare nei titoli delle opere la destinazione domestica di alcuni brani.

Lo strumento principe della musica da salotto era indubbiamente il pianoforte.
Per tutto il XIX secolo dilagò in Europa e in America, una vera e propria “mania” per questo strumento, accresciuta dall’idea che lo studio del pianoforte e l’insegnamento del canto fossero una irrinunciabile prassi da includere nell’educazione delle ragazze di buona famiglia.
Inoltre, la diffusione di questo particolare strumento fu incrementata dall’introduzione nel mercato di svariati modelli economici di pianoforte, perfetti per un uso domestico, come il “pianino” (attuale pianoforte verticale), introdotto nel 1811.

Fu proprio la duttilità del pianoforte a far sì che assumesse un ruolo predominante.
L’accompagnamento di questo strumento era utilizzato per sostenere diversi generi vocali e strumentali, ma spesso era impiegato anche come solista oppure per eseguire brani a quattro mani. Questo ultimo tipo di esecuzione favoriva la socialità, era un modo semplice di suonare insieme e per questo conservò un ruolo speciale nelle abitudini musicali della borghesia europea. Consentì anche di preservare la tradizione della Hausmusik, almeno fino ai primi decenni del XX secolo, quando già generi cameristici più impegnativi si erano già trasferiti nelle sale da concerto.

Oltre al pianoforte, altri strumenti prediletti della Hausmusik erano: la chitarra, l’arpa, il mandolino, il flauto, il violino e il violoncello.

In copertina: James Tissot, “Hush!” (Silenzio!) olio su tela (1875 ca. – dimensioni: 73.7 x 112.2 cm), conservato presso Manchester City Art Galleries (Manchester)

Appuntamento con la musica classica: 3 Sonate per piano e violino

Appuntamento con la musica classica 3 Sonate per piano e violino

Il 22 settembre all’Auditorium “Marini” di Falconara Marittima si terrà un concerto di musica classica.
Sonate di Mozart, Beethoven e Saint-Saëns per violino e pianoforte saranno eseguite da due interpreti d’eccezione: Davide Alogna e Martina Giordani.

Il 22 settembre Davide Alogna al violino e Martina Giordani al pianoforte ci intratterranno con delle sonate brillanti e tecnicamente molto impegnative.
Grazie a loro, passeremo dalla leggerezza arguta e raffinata delle note di Mozart, all’energia delle costruzioni razionali e appassionate di Beethoven, fino ad approdare alla levigatezza e alle fantastiche elaborazioni tematiche di Saint-Saëns.

Il programma della serata prevede l’esecuzione di tre brani:

In attesa del concerto esploriamo le composizioni che verranno eseguite, spaziando dalla loro realizzazione a qualche cenno sulla loro struttura.

Sonata n. 18 in Sol maggiore K 301

Il primo brano a essere eseguito è la “Sonata n. 18 in Sol maggiore K 301” di Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791), composta nel marzo del 1778, a Mannheim (Germania) e denominata “Palatina”, come le altre quattro dell’Opus 1, dedicate a Elisabetta Maria Aloisia Augusta (1721 – 1794), moglie dell’elettore del Palatinato, Carlo Teodoro di Wittelsbach (1724 – 1799).

Nell’agosto del 1777, Mozart era partito con sua madre da Salisburgo, alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Dapprima fu ad Augusta, poi a Mannheim, a Parigi e infine a Monaco di Baviera.
A Mannheim, il musicista fu ispirato dal clima fecondo della città e compose cinque sonate per violino. La sua musica trasse notevoli vantaggi da questo soggiorno, ma purtroppo, non riuscì nel suo intento di trovare un impiego in città, così il 14 marzo 1778 partì alla volta di Parigi.

La Sonata n. 18 K 301 vide la luce poco prima della partenza per la capitale francese, dove fu poi stampata. Essa è suddivisa in due soli movimenti (Allegro con Spirito e Allegro). Tale scelta si rifà a una tradizione antecedente che considerava questo tipo di composizioni dei duetti stringati e sobri fra pianoforte e violino (in certi casi sostituito dal flauto).

Nelle composizioni mozartiane per pianoforte e violino degli anni 1763-64 il pianista (o cembalista) aveva un ruolo preminente, mentre al violino era assegnato un ruolo secondario. Queste “sonate con accompagnamento d’un violino” erano molto diffuse in tutta Europa e rispondevano alle richieste sempre più considerevoli dei dilettanti. A coltivarle, in particolare, erano musicisti come: Johann Schobert (c. 1720, 1735 or 1740 – 1767), Johann Christian Bach (1735 – 1782) e Muzio Clementi (1752 – 1832).

La Sonata K 301 è diversa dalle sue antecedenti, essa appartiene a una nuova fase della parabola compositiva di Mozart sia per il ruolo paritario che il musicista conferisce a entrambi gli strumenti sia per l’abile contrappunto che disciplina le sovrapposizioni delle loro voci.

Il primo Allegro della Sonata K 301 ha un impianto classico tripartito. Ai due tempi principali (tonica e dominante) sono affiancati degli spunti secondari. Lo sviluppo tematico è vivacizzato da cromatismi e inversioni.
In questo primo movimento è il violino a detenere il ruolo principale, mentre il pianoforte si farà sentire solo più avanti, svolgendo il tema principale e dando vita a un dialogo vivace con varie iniziative melodiche.
La varietà in questo movimento proviene dall’abbondanza dell’inventiva di Mozart nel creare temi e dalla sua capacità di suddividere equamente l’interesse melodico tra i due esecutori che si alternano nel proporre il tema o nel ruolo di accompagnatori.

Il secondo movimento, un Allegro in 3/8, ha la forma di rondò variato, dal sapore francese, caratterizzato da una grande naturalezza di idee che sgorgano spontanee, richiamando lo stile di Franz Joseph Haydn (1732 – 1809).
Mozart ha impiegato motivi vivaci e popolari che fanno da cornice alla parte centrale che, per creare una varietà, si muove in una tonalità minore.

La scelta del violino, quale comprimario in una sonata, per Mozart fu quasi una scelta obbligata, infatti, il musicista, oltre al pianoforte e all’organo, suonava anche il violino. Inoltre, il suo incarico di Konzertmeister a Salisburgo comprendeva, oltre alla direzione d’orchestra, anche il ruolo di primo violino.

Per quanto riguarda invece lo stile delle sonate, sappiamo che, nell’autunno del 1777, a Monaco, Mozart conobbe i duetti per clavicembalo e violino di Joseph Schuster (1748 – 1812) e al padre scrisse: “Non sono cattivi se mi fermerò, ne scriverò io stesso nel medesimo stile, dato che essi sono molto popolari quaggiù“.
Ed è proprio quello che fece, creando qualcosa di diverso.

Sonata per pianoforte e violino in La maggiore n. 9, op. 47

Il secondo brano in programma è la “Sonata per pianoforte e violino in La maggiore n. 9, op. 47” di Ludwig van Beethoven (1770 – 1827), più conosciuta come “Sonata a Kreutzer”.
Fu composta tra il 1802 e il 1803 e pubblicata nel 1805, con una dedica al violinista e compositore francese Rodolphe Kreutzer (1766 – 1831).

Questa Sonata ha una durata di circa 40 minuti; è la più lunga e difficile fra le composizioni realizzate da Beethoven per violino e fu scritta piuttosto in fretta.
Lo stile utilizzato dal compositore è concertante, ai due strumenti è dato identico peso e l’obiettivo del musicista era quello di introdurre elementi di conflitto dinamico, in quello che era il genere più prettamente da salotto.
Le novità presenti in quest’opera sono tali da infrangere le regole delle sonate per pianoforte e violino. Questo brano, dallo stile brillante e quasi da concerto, rappresenta l’inizio di un nuovo percorso per Beethoven.

La sonata è suddivisa in tre movimenti:

  • Adagio sostenuto – Presto – Adagio – Tempo I
  • Andante con variazioni I-IV
  • Finale. Presto

Inizialmente, questa Sonata aveva una dedica diversa. Beethoven voleva farne omaggio al suo amico, nonché virtuoso di violino, George Augustus Polgreen Bridgetower (1779 – 1860), che eseguì insieme al compositore, per la prima volta in assoluto la Sonata, il 24 Maggio 1803, a Vienna, nella sala da concerti dell’Augarten (un caffè del Prater).

Beethoven compose la Sonata op. 47 tra il 1802 e il 1803 e come prima cosa scrisse il finale, mentre i primi due tempi furono realizzati nel 1803.
Il carattere “brillante” o “molto concertante” di questa composizione sembra dipendere proprio da Bridgetower. Il violinista aveva un padre nero (un lacchè del principe Esterhàzy) e madre tedesca; aveva studiato composizione con Haydn e poi era andato in Inghilterra, dove era diventato violinista del principe di Galles.

Nel 1802, Bridgetower si esibì a Dresda e poi giunse a Vienna. Era un esecutore che si faceva notare. Le sue esibizioni erano ardite e stravaganti, e sicuramente, Beethoven rimase colpito dal suo modo di suonare.
A titolo di curiosità, sappiamo che il violinista non ebbe il tempo di studiare le variazioni dell’op. 47, perché il compositore le finì solo alla vigilia del concerto, quindi, Bridgetower dovette arrangiarsi a leggere la parte del violino sul manoscritto e, durante la prova, improvvisò due cadenze virtuosistiche che spinsero Beethoven ad abbracciarlo.

Bridgetower, quindi, si era meritato sotto tutti i punti di vista la dedica della Sonata. Ma quando Beethoven la pubblicò, il dedicatario divenne Kreutzer che il compositore conobbe nel 1798, all’ambasciata francese di Vienna, e che ammirava per “la sua semplicità e naturalezza”.
Diversi anni più tardi, Bridgetower sostenne che questo mutamento di intenti da parte di Beethoven fosse dovuta a una controversia amorosa sorta tra loro: entrambi si erano innamorati di una donna che però aveva scelto Bridgetower. Questa dichiarazione fu riportata dal direttore del “Musical World”, J. W. Thirlwall, nel suo giornale, il 4 dicembre 1888, ma il violinista era morto nel 1860, per cui la singolare rivelazione, non confermata da altre fonti, potrebbe essere solo un’abile trovata giornalistica.
Quello che è certo è che Rodolphe Kreutzer non suonò mai la Sonata op. 47, perché la riteneva “outrageusemente inintelligible” (scandalosamente incomprensibile), e altrettanto fecero altri violinisti, per lo meno in pubblico – delle esecuzioni private si sa ben poco.

Anche uno dei più autorevoli periodici del XIX secolo, l’ “Allgemeine musikalische Zeitung” (Giornale musicale generale) sostenne che, il compositore avesse “spinto la ricerca dell’originalità fino al grottesco” e definiva Beethoven addirittura come “l’adepto di un terrorismo artistico”.

La Sonata ottenne una meritata popolarità dalla seconda metà del secolo, dopo che fu eseguita da Joseph Joachim (1831 – 1907; violinista, direttore d’orchestra, compositore e insegnante ungherese) e Clara Schumann (1819 – 1896; pianista e compositrice tedesca).
L’ultimo passo verso la notorietà per la composizione di Beethoven fu compiuto grazie alla letteratura. Nel 1889, Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) pubblicò il romanzo breve, “Sonata a Kreutzer”; lo scrittore russo pare apprezzasse solo il primo tempo della composizione, perché fa affermare al suo protagonista che, il secondo tempo è “bello ma comune e non nuovo, con ignobili variazioni”, mentre il terzo è “assolutamente debole”.

Beethoven creò la Sonata op. 47 in un periodo in cui si stava dedicando in modo particolare alla sperimentazione, soprattutto delle forme; non uscì dagli schemi della tradizione, ma ne dilatò le dimensioni architettoniche. Basti pensare al primo tempo che è composto da ben 601 battute (776 con il ritornello dell’esposizione), un numero davvero elevato per quei tempi e per i suoi contemporanei.
Oltre alle nuove dimensioni, nella sonata Beethoven utilizza per la prima volta un’introduzione in movimento lento che aveva già adottato nelle Sonate per pianoforte e per pianoforte e violoncello, ma non ancora nelle Sonate per pianoforte e violino.

Inoltre, questa Sonata detiene un posto particolare rispetto alle altre Sonate non solo per le proporzioni, ma anche per il rapporto esistente fra i due strumenti e per le ambizioni espressive.
Già nelle prime Sonate violinistiche, Beethoven, seguendo Mozart, aveva conferito al violino un ruolo alla pari con il pianoforte, ed entrambi gli strumenti sono concepiti come entità contrapposte, con un’evidente individualità. Il contenuto espressivo, però, era ancora “disimpegnato” e volto all’intrattenimento. Diversa è la situazione della Sonata op. 47, dove il compositore mette in atto nuove ambizioni.

Introduzione e Rondò Capriccioso op. 28

Il terzo brano della serata è una composizione del 1863 di Camille Saint-Saëns (1835 – 1921), “Introduzione e Rondò Capriccioso op. 28”. La sua prima esecuzione avvenne a Parigi, al Théâtre des Champs-Élysées il 4 aprile 1867.
Inizialmente, il compositore la concepì come un movimento conclusivo, da introdurre in un’opera più ampia e solo successivamente diventò un brano autonomo.
Saint-Saëns fu un protagonista del secondo romanticismo francese, eppure guardò sempre con diffidenza all’estetica romantica, mentre la sua ammirazione andava alle regole classiche di costruzione e difatti, le sue opere in generale sono dotate di chiarezza e ordine, pur essendo profondamente innovative nel panorama della musica francese.

L’opera 28, però, è un’eccezione, in quanto si rifà al filone più brillante ed estroverso dell’età romantica.
Primo esecutore e dedicatario del brano fu il violinista Pablo de Sarasate (1844 – 1908) che all’epoca era agli inizi della sua carriera. Fu il talento di Saraste a ispirare a Saint-Saëns la sua composizione che infatti, presenta chiare allusioni stilistiche spagnoleggianti, in particolar modo nel rondò.

Il brano fu stampato nel 1875, nella sua versione originale per violino concertante e orchestra da Durand (Marie-August Durand, 1830 – 1909; editore e critico musicale, e organista), mentre già nel 1870, Georges Bizet (1838 – 1875) si era occupato di tradurlo per violino e pianoforte; questa versione nel tempo divenne molto popolare. Anche Claude Debussy (1862 – 1918) fu conquistato dal brano di Saint-Saëns, tanto da studiarne una trascrizione per due pianoforti, tra il 1889 e il 1890.

L’opera 28 si compone di due movimenti: Andante malinconico, l’Introduzione; Allegro ma non troppo, il Rondò.
L’Introduzione ha un umore riflessivo; il violino espone una melodia malinconica e cantabile e il movimento si chiude con una breve cadenza brillante.
Il Rondò propone il tema principale caratterizzato da un motivo in tempo di habanera, scattante e brillante, vivacizzato da abbellimenti e spostamenti di accento.
Il ricorso al folklore spagnolo diventò di moda e fu assunto come uno degli elementi base del violinismo della seconda metà del secolo. Questo motivo brillante si alterna a episodi diversificati che spaziano dal lirismo a raffinati espedienti tecnici. Entrambi gli strumenti assumono a turno il ruolo di guida melodica o di accompagnamento. La conclusione è affidata a una brillante e trascinante coda.

L’Amore va in scena: tra luci e ombre, e tra parole e suoni

L’amore è un sentimento complicato, fatto di luci e ombre, come ci hanno fatto comprendere chiaramente Cecilia Cozzi e Martina Giordani con le loro interpretazioni differenti, ma entrambe illuminanti.

Sono arrivata con un discreto anticipo all’appuntamento con Sapere d’estate: “Amore: una sinfonia di luci (e ombre)” che si è svolto ieri, 11 agosto, in piazza del Municipio a Falconara.
Ho potuto così assistere agli ultimi ritocchi prima di “andare in scena”, mentre una leggera brezza rendeva ancora più piacevole l’attesa.

Le due mattatrici dello spettacolo sono state: Cecilia Cozzi, in veste di relatrice e Martina Giordani, nel ruolo di pianista.
Entrambe sono riuscite nell’intento di incantare e intrattenere il pubblico attento e partecipe.
Piacevoli, interessanti e gestite con grande maestria le parole; superbe ed ispirate le esecuzioni di brani piuttosto impegnativi di Schubert, Liszt, Chopin, Rossini e Grieg.

L’amore è stato l’argomento principe della serata, come appunto, già annunciava il titolo dell’evento.
Amore che è stato analizzato in tutte le sue declinazioni, passando dagli aspetti più luminosi di questo universale sentimento a quelli più “ombrosi”.

L’analisi si è compiuta attraverso un originale excursus tra i testi degli antichi Greci.
Cecilia Cozzi ha letto e commentato versi, aggiungendo al già felice mix una buona dose di argute osservazioni che hanno evidenziato come gli atteggiamenti nei confronti dell’amore, dall’antichità fino a oggi, non abbiano subito sostanziali cambiamenti.
Nei versi dei poeti dell’antichità, anche se le espressioni e le parole sono spesso diverse dalle nostre, si è denotato lo stesso ventaglio di emozioni che anche noi oggi sperimentiamo quotidianamente: delusione e rabbia per un amore non corrisposto; gelosia; gioco e leggerezza; tenerezza, ecc.

Anche la musica ha dato la sua personale visione dell’amore, attraverso il percorso sonoro affrontato al pianoforte da Martina Giordani che ci ha consentito di esplorare altre recondite sfumature di questo meraviglio e complicato sentimento.

Le spiegazioni fornite per ogni brano, nonché la notevole bravura esecutiva e interpretativa della pianista sono state il completamento perfetto di una serata magnifica, certamente da ripetere.

“I Buddenbrook” di Thomas Mann: una complessa partitura fatta di parole

“I Buddenbrook” è il primo romanzo di Thomas Mann, dove l’autore segue le vicende di una famiglia per ben quattro generazioni.
L’opera è una sorta di complessa partitura musicale, dove i personaggi sono gli strumenti. Nella parte finale, lo scrittore, attraverso l’improvvisazione al pianoforte di Hanno, ci fa assaporare in modo concreto la sua grande musica fatta di parole.

Paul Thomas Mann, più conosciuto come Thomas Mann (Lubecca, 6 giugno 1875 – Zurigo, 12 agosto 1955), è stato uno scrittore e saggista tedesco.
All’inizio, la sua vita professionale sembra essere orientata verso il settore commerciale, ma la scrittura è una forte tentazione, tanto che ben presto finirà per dedicarsi solo alla letteratura.
La sua affermazione come scrittore avviene nel primo dopoguerra e, passando di successo in successo, Mann finirà per diventare il massimo rappresentante della letteratura tedesca e nel 1929, vincerà persino il Premio Nobel.

Una delle opere più famose di Thomas Mann è il romanzo, “I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia”, pubblicato nel 1901, è il primo romanzo dello scrittore tedesco.
Nel libro è narrata la progressiva rovina di una famiglia benestante della borghesia mercantile di Lubecca. E la vicenda che si svolge tra il 1835 e il 1877, abbraccia ben quattro generazioni.

Per costruire il complesso intreccio de “I Buddenbrook”, Mann si ispirò alla sua storia familiare e, al contempo, si profuse in letture e studi di opere simili alla sua, che trattavano saghe familiari, ad esempio, Il ciclo de “I Rougon-Macquart” di Émile Zola; le opere di Jonas Lie e Alexander Kielland, che trattavano vicende di famiglie di estrazione borghese. Inoltre, furono di ispirazione anche i libri dei fratelli Jules e Edmond de Goncourt e quelli di Paul Bourget.

Mann consegnò il manoscritto de “I Buddenbrook” il 15 agosto 1900 all’editore Fischer, che lo considerò di lunghezza eccessiva. La prima edizione del romanzo, uscì nell’agosto del 1901.
Il successo dell’opera arrivò più tardi, con la stampa di un’edizione economica che a Lubecca letteralmente spopolò: c’era una forte curiosità, per il fatto che il figlio di un senatore aveva messo in piazza la vita della sua famiglia.

Le novità che Mann introduce con questo romanzo sono: la scrupolosa ricostruzione sociale e il minuzioso approfondimento delle componenti psicologiche dei personaggi.
La storia si dipana in un lungo arco di tempo e, ovviamente, non c’è un solo protagonista. Lo scrittore si sofferma sui vari componenti della famiglia, spostandosi di generazione in generazione, prestando particolare attenzione ad alcuni più che ad altri.

La parte finale de “I Buddenbrook” è ad esempio dedicata quasi completamente ad Hanno, l’ultimo erede maschio della famiglia.
Hanno ha un carattere sensibile, è timido e fragile, tutto l’opposto dell’erede che avrebbe voluto avere suo padre, Thomas Buddenbrook, che considera la spiccata sensibilità dell’animo di suo figlio, una debolezza che si aggiunge a quella fisica.

Uno dei pochi svaghi che Hanno si concede è la musica, suonando il pianoforte di casa.
La musica consente al ragazzo di essere se stesso, di esprimere i più profondi moti del suo animo, soprattutto, quando si concede delle improvvisazioni alla tastiera.

Se il padre cerca inutilmente di instradarlo verso il mondo degli affari, senza riuscirvi, questo tentativo, destinato all’insuccesso, non rappresenta nell’economia del romanzo una sconfitta, bensì una vittoria: perché Hanno segue la sua passione artistica e non si sacrifica alla volontà della famiglia. Questo personaggio è riuscito a raggiungere, a differenza degli altri, una dimensione più alta della vita.

Anche per Thomas Mann la musica aveva una notevole importanza e lo si percepisce dalla cura con cui descrive il monologo sonoro improvvisato da Hanno al pianoforte.
Il ragazzo rimasto solo nel salone dà liberamente sfogo alla sua interiorità e lo scrittore delinea con grande precisione ogni passaggio, dal comparire di una melodia, un tema di breve respiro che si evolve in variazioni sempre nuove, mentre il ritmo incalza.
Seguendo le parole dello scrittore, possiamo quasi udire la musica prendere vita, dipanarsi dalle mani di Hanno.

Se nei primi due terzi del romanzo la musica ha un ruolo secondario, nell’ultimo terzo de “I Buddenbrook”, il soggetto musicale diventa centrale e addirittura fondamentale per gli sviluppi e per la conclusione della storia.

I Buddenbrook: musica e letteratura, due muse allo specchio

I Buddenbrook: la saga di una famiglia e non solo

Ho letto I Buddenbrook di Thomas Mann diversi anni fa e già allora i passi dedicati alla musica mi avevano colpito, uno in particolare: quello in cui Hanno Buddenbrook improvvisa al pianoforte.

Non è la prima volta che Mann si lascia sedurre dalla musica e la rende un elemento essenziale delle sue narrazioni: anche nel Doctor Faustus il protagonista, Adrian Leverkùn, è un compositore ed è chiaramente ispirato alla figura di Arnold Schoenberg (1874-1951), il famoso musicista padre della dodecafonia.

Non stupisce, quindi, trovare nei Buddenbrook una coinvolgente descrizione musicale, dove è immediatamente rilevabile che chi scrive è un fine intenditore di musica, visto l’utilizzo di un lessico esperto per descrivere l’improvvisazione del ragazzo al pianoforte. Inoltre, lo scrittore attraverso la sua narrazione ci fornisce la precisa sensazione di assistere a questa singolare esibizione.

Il motivo era semplicissimo, un nulla, il frammento di una melodia inesistente, un tema di una battuta e mezzo; e quando, con una forza di cui non lo si sarebbe ritenuto capace, lo fece risuonare per la prima volta nel basso, come voce singola, quasi dovesse essere annunciato da trombe unanimi e imperiose come primo elemento e origine di tutto ciò che verrà, non si poteva ancora capirne il senso profondo. Ma quando lo ripeté armonizzato in chiave di violino, con un timbro di pallido argento, fu palese che consisteva essenzialmente in un’unica risoluzione, un appassionato doloroso trapasso da una tonalità all’altra… era un’invenzione modesta, di poco respiro, ma la risolutezza preziosa e solenne con cui era formulata e presentata le conferiva un raro valore, denso di mistero e di significato. Seguirono poi passaggi agitati, un affannoso andare e venire di sincopi, erranti, cercanti, lacerata da gridi, come se un’anima fosse angosciata da ciò che aveva udito, e che non voleva tacere, ma si ripeteva in armonie sempre diverse, interrogando, gemendo, smorendo, voglioso e promettente. E le sincopi diventeranno sempre più forti, sospinte e incalzate da terzine impetuose; ma le grida di terrore che vi eran frammiste presero forma, si fusero, divennero melodia, finché, come un canto implorante e fervido di strumenti a fiato, prevalsero umili e forti insieme ed ebbero il dominio. Vinto, ammutolito era l’incalzare instabile, l’ondeggiare vagabondo e sfuggente; e il ritmo semplice e risoluto del corale s’alzò in una preghiera contrita e infantile… E terminò come un canto liturgico” (Thomas Mann, I Buddenbrook, parte XI, capitolo II).

Thomas Mann in questo brano mette a confronto due arti: quella letteraria e quella musicale che si fronteggiano, in un incessante gioco di rimandi il cui unico limite è il potere definitorio della parola e l’ineffabilità della musica.