Un evento d’eccezione per i trent’anni del premio Tiberini

Sabato 25 novembre 2023 a San Lorenzo in Campo (PU) si è tenuta la XXX edizione del Premio lirico internazionale Mario Tiberini.

Quest’anno al tradizionale prestigio dell’evento si è aggiunta una singolare novità, che ha reso irripetibile l’appuntamento musicale. Si tratta dell’esecuzione e relativa registrazione in prima mondiale assoluta delle musiche ritrovate da Giosetta Guerra, biografa del tenore Tiberini, composte dal tenore stesso, da suo figlio e da musicisti dell’epoca che le hanno dedicate al tenore.

Nell’accogliente cornice del Teatro Tiberini, in un clima familiare, abbiamo assistito all’esecuzione di 19 brani. Queste eccezionali chicche sonore sono il risultato del lavoro certosino fatto da Giosetta Guerra, che, grazie a una laboriosa attività di ricerca, è riuscita a raccogliere queste musiche inedite per proporle nell’edizione di quest’anno del premio a un folto e interessato pubblico.

Chi, come me, ha assistito allo spettacolo ha potuto appurare che Mario Tiberini (San Lorenzo in Campo 8 settembre 1826 – Reggio Emilia 16 ottobre 1880), non è da celebrare solo per la sua carriera di talentuoso tenore, conteso da tutti i più importanti teatri, ma anche per la sua valenza compositiva.
I brani sono inni, marce militari, stornelli patriottici, ma anche arie da camera di stampo sentimentale. In pratica, in queste composizioni emerge con chiarezza l’impegno politico di Tiberini, che aveva particolarmente a cuore la causa italiana, infatti la sua vita artistica si è saldamente intrecciata alla storia del Risorgimento italiano.

Il nutrito e piacevole programma è stato il seguente:

  1. Speranza Polka (musica di Mario Tiberini padre) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  2. Stornelli patriottici (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  3. Inno ginnastico (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
    insieme al coro Jubilate
  4. Improvvisata (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  5. Il mio bambino lontano (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Francesca Carli
  6. La fata (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  7. Beatrice polka (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  8. Ai fiori (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  9. Di notte – marcia (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  10. Brano per banda “Alla regina Margherita” (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito dal gruppo musicale Tiberini, diretto dal Maestro Daniele Bianchi
  11. Dammi un bacio (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  12. Povero amore (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
  13. Desiderium (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  14. Stornello d’amore (musica di Domenico Lucilla, primo maestro di canto di Tiberini) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  15. Mio povero amor (musica di Bonamici) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
  16. Serenata d’un angelo (musica di Luigi Mancinelli) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  17. Elegia (musica di Bernardi) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  18. Amore (musica di Gaetano Palloni) duetto eseguito dal tenore Enrico Giovagnoli e dal soprano Francesca Carli
  19. Wedding flowers (musica di Mario Tiberini padre) eseguito da Giovanni Scaramuzzino alla chitarra e da Francesco Scaramuzzino al mandolino

Gli interpreti della serata hanno messo in mostra tutte le loro qualità espressive e le loro capacità tecniche.
I brani eseguiti rientravano appieno nel repertorio del belcanto ottocentesco e, pur essendo composizioni di autori non particolarmente noti al grande pubblico, non erano scevri di eleganza e bellezza.
Inoltre, a un ascolto attento, si poteva rilevare che dietro le venature romantiche erano celate notevoli insidie per gli esecutori che hanno superato brillantemente ogni scoglio, lasciandosi trasportare dal pathos dei versi, mettendone in luce le singolarità e cogliendo puntualmente con l’espressione vocale via via i momenti drammatici, quelli gioiosi o giocosi.
In vari brani è emerso anche lo spirito risorgimentale, così come non sono mancati momenti più spensierati o appassionati afflati amorosi.

Il maestro Bavaj si è brillantemente espresso nei brani solistici e come accompagnatore dei cantanti.
I brani solo strumentali sono stati eseguiti in modo impeccabile, lasciando trapelare ogni intento dei vari compositori, mentre i brani di sostegno alle esibizioni vocali hanno visto un accompagnamento puntuale in cui voci e strumento si fondevano o si scambiavano i ruoli in una perfetta e armonica simbiosi.

Piacevole l’esecuzione della banda e del duo Scaramuzzino, padre e figlio (proprio come i Tiberini) che hanno chiuso il gradevolissimo spettacolo musicale.

Alla fine del concerto è stato consegnato il Tiberini d’oro al tenore Enrico Giovagnoli, “per rievocare di Tiberini vocalità e sembianze e per applicare arte scenica e canora all’opera lirica e ad altri generi musicali”.

Per concludere, aggiungo che la serata è stata impreziosita tra un brano e l’altro dagli interventi di Giosetta Guerra che ha raccontato in modo coinvolgente interessanti notizie sulla vita di Tiberini e sulla sua attività.
Da rilevare anche le “intrusioni” in veste di narratore/presentatore di Marcello Moscoloni, che ha introdotto i brani e anticipato i testi, successivamente cantati dai solisti.

Lo spettacolo si è concluso con il saluto di tutti gli artisti e gli organizzatori comprese le autorità sotto una pioggia di fiori e cuori.

Opera al nero #6: Otello di Verdi, dramma della gelosia

Opera al nero 6 Otello di Verdi dramma della gelosia

L’Otello di Verdi rientra appieno nella definizione di opera al nero.
Inoltre, il dramma, sotteso alla musica, tratta un tema molto discusso attualmente: il femminicidio. Infatti, la vittima, Desdemona, moglie del protagonista, muore soffocata dal marito accecato dalla gelosia.

Otello, penultima opera di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), fu musicata su libretto di Arrigo Boito (1842 – 1918; letterato, librettista e compositore) e fu eseguita per la prima volta a Milano, il 5 febbraio 1887, durante la stagione di Carnevale e Quaresima del Teatro alla Scala. La storia è tratta dall’omonima tragedia di William Shakespeare (1564 – 1616).

A livello di ambientazione, Verdi e Boito hanno strutturato l’Otello in modo da creare una sorta di crescente effetto claustrofobico. Lo spazio si restringe inesorabile: passiamo dalla prima scena, quella della tempesta, ad ambiti sempre più ristretti fino ad approdare nel quarto atto alla stanza di Desedmona, dove si consuma il dramma.

La prima scena del libretto di Boito vede il popolo raccolto sul piazzale esterno al castello del governatore dell’isola di Cipro. Si attende l’arrivo della nave di Otello, che al momento sta affrontando il mare in tempesta.
La gente prega perché il generale possa scendere a terra sano e salvo (“Dio, fulgor della bufera”).
La preghiera ha buon esito: Otello, compare sugli spalti del castello e proclama la sua vittoria contro i musulmani, cantando il famoso “Esultate!

Il condottiero è accolto dalla folla festante (“Fuoco di gioia”). Gli unici a non festeggiare il vincitore sono Roderigo, innamorato di Desdemona, e l’alfiere Jago, che odia Otello, e sta già tramando contro di lui e contro il suo favorito, Cassio.
La prima mossa di Jago è far ubriacare Cassio (“Innaffia l’ugola”). Il giovane, perduto il senno a causa dell’alcol, ferisce in duello Montano. Jago intanto scatena una rissa che sarà placata dall’intervento di Otello che degraderà Cassio e poi si allontanerà con la sua sposa, intrecciando un duetto amoroso (“Già nella notte densa”).

Nell’atto secondo, Jago passa alla fase successiva del suo piano malvagio. L’alfiere sollecita Cassio a rivolgersi a Desdemona per poter tornare nelle grazie di Otello. Poi, in un monologo (“Credo in un Dio crudel”) feroce riflette sul suo destino.
Successivamente, l’alfiere incontra Otello e inizia a instillare in lui il dubbio che la sua consorte non gli sia fedele, ma che abbia una relazione con Cassio, proprio mentre i due sono a colloquio, in un angolo del giardino, così, quando la donna intercede a favore del capitano da poco degradato, l’ira del Moro si acutizza.
Desdemona è sconvolta dalla reazione di Otello e lascia cadere un fazzoletto, non un fazzoletto qualunque, bensì il primo pegno d’amore donatole dal marito; Jago lo afferra dalle mani di sua moglie, Emilia, dama di compagnia di Desdemona, e progetta di usarlo per i suoi fini diabolici. La sua intenzione è quella di nasconderlo nella dimora di Cassio.

Desdemona chiede perdono ad Otello (“Dammi la dolce e lieta / parola del perdono”), mentre in lui si va consolidando l’idea che tutte le certezze in cui finora confidava si stanno sgretolando, travolte dal dubbio lacerante (“Ora è per sempre addio, sante memorie”). Jago intanto gli promette una prova inconfutabile del tradimento: il fazzoletto che lui ha donato a sua moglie in mano a Cassio. Inoltre, lo inganna ulteriormente, raccontandogli di aver udito il rivale che in sogno pronunciava frasi d’amore rivolte a Desdemona (“Era la notte, Cassio dormiva”); Otello risponde, giurando vendetta (“Sì pel ciel marmoreo giuro”).

Nell’atto terzo, che si svolge nel salone d’onore del castello, giunge un araldo che annuncia l’arrivo degli ambasciatori veneziani. Nel frattempo, Jago dice a Otello che presto porterà Cassio al suo cospetto. Arriva Desdemona che perora di nuovo la causa del giovane capitano (“Dio ti giocondi, o sposo dell’alma mia sovran”).
In risposta, Otello le chiede di mostrare il fazzoletto che lui le ha regalato, al diniego della donna reagisce con furia e Desdemona si allontana disperata e sconvolta.
Otello si sente ferito e sfoga in un monologo la sua amarezza (“Dio, mi potevi scagliare”), poi Jago lo fa nascondere per ascoltare, non veduto, il dialogo tra lui e Cassio. Il giovane ex capitano mostrerà, istigato dal malvagio alfiere, il fazzoletto che ha trovato in casa sua e che lui ritiene l’omaggio di una corteggiatrice anonima (“Questa è una ragna”).
Otello è ormai convinto dell’infedeltà della moglie, in quel momento, di sentono degli squilli di tromba, che annunciano l’arrivo delle navi veneziane; Cassio si allontana e il Moro confida a Jago la sua decisione: ucciderà i colpevoli.

Successivamente, sulla scena compaiono: Lodovico, Montano, Desdemona e i dignitari.
Mentre legge il messaggio del Doge che lo vuole a Venezia, Otello perde la ragione e insulta la moglie. Desdemona piange e viene consolata dai presenti (“A terra, … sì … nel livido / Fango … percossa … io giaccio”). Jago intanto suggerisce le prossime mosse a Otello e a Roderigo. Il Moro, sconvolto e distrutto, sviene.
Tutti si allontanano terribilmente scossi per la scena cui hanno assistito, Jago, invece, contempla il suo trionfo, mentre da fuori risuonano inni in onore di Otello.

Nell’atto quarto siamo trasportati nella camera di Desdemona.
La donna è triste quando congeda Emilia e dopo aver pregato (“Ave Maria”), si prepara per la notte, in attesa dell’arrivo di suo marito.
Otello entra nella stanza e senza troppi indugi la soffoca, nonostante la donna protesti disperata la sua innocenza. Emilia dà l’allarme, ma troppo tardi; arriva Cassio, che ha appena ucciso Roderigo che gli aveva teso un agguato, seguito da Lodovico, Montano e Jago che fugge, appena si rende conto che le sue malefatte sono state svelate.
A questo punto, Otello, dopo aver dato l’addio alla vita (“Niun mi tema”), estrae un pugnale e si trafigge. Mentre sta morendo intona: “Pria d’ucciderti … sposa … ti baciai“, poi appoggia le labbra su quelle della moglie e muore.

Giuseppe Verdi musicò l’Otello dopo una lunga assenza dalle scene, dopo l’Aida che era stata rappresentata nel 1871.
In questa nuova opera si rilevano diversi elementi innovativi. Innanzitutto, Verdi si affrancò ancora di più dalle forme chiuse che nell’Otello sono sempre meno individuabili, alla ricerca di un flusso musicale continuo che alcuni accostano all’esperienza wagneriana. In effetti, però, questa particolare tendenza era già evidente in altri operisti italiani di quel periodo.

Per quanto riguarda i pezzi chiusi o i rimandi alla tradizione, Verdi non li disdegna del tutto, ma il loro svolgimento diventa imprevedibile.
Tra i pezzi chiusi più significativi ci sono: il dialogo in forma di recitativo tra Jago e Roderigo; la cabaletta “Sì pel ciel marmoreo giuro” che conclude il secondo atto; il grande concertato del finale del terzo atto. E non sono gli unici.

Quello che risulta innovativo in Otello, rispetto alle opere precedenti, è il modo adottato dal musicista per collegare i singoli episodi. In pratica, il passaggio dall’uno all’altro non è determinato da interruzioni nette: il tessuto musicale è in continua evoluzione, grazie soprattutto all’uso sapiente dell’orchestra, che ha il ruolo di sfondo unificante.

Nella transizione tra le varie scene, poi, Verdi riprende i materiali tematici appena ascoltati, in questo modo crea delle transizioni perfette, come ad esempio, quella che conduce dalla scena del duello tra Cassio e Montano al duetto d’amore che conclude il primo atto.
Verdi trasforma anche dei brani che all’apparenza sembrano in forma chiusa in passaggi dialogici (il “Credo” di Jago; il monologo di Otello “Dio, mi potevi scagliar”).

Verdi mostra nell’Otello tutta la sua incredibile abilità a giocare a rimpiattino con le convenzioni: prima le evoca e poi le stravolge. Un esempio illuminante è il brano con cui il protagonista irrompe in scena, poco dopo l’inizio dell’opera: il famoso “Esultate!” che è gestito come una specie di minuscola cavatina, solo dodici battute.

Per il teatro verdiano, Otello rappresenta il punto di arrivo di un percorso personale che dallo sfoggio di idealismi risorgimentali e dalla rappresentazione di eroi romantici giunge a sondare, sempre più a fondo, gli abissi dell’animo umano, rivelandone anche gli aspetti più nascosti.
Otello è quindi un dramma psicologico inquietante, dove il motore dell’azione sono le passioni assolute e devastanti, che condurranno alla rovina dei personaggi.
Per poter tratteggiare i protagonisti della sua opera e per mostrarne i più intimi moti dell’animo, il compositore dovette creare uno stile vocale nuovo e adeguato alle sue esigenze, uno stile che oscilla senza posa tra recitativo, arioso e aperture cantabili di una certa ampiezza.

Otello sta a una notevole distanza dalle opere che avevano garantito a Verdi una grande notorietà. Questa nuova opera è lontana dalle forme tradizionali del melodramma italiano e per questo da alcuni fu criticata: chi tacciò il compositore di aver smorzato la sua vena melodica; chi gli imputò un eccessivo intervento dell’orchestra. Per fortuna, sia la critica sia la parte colta del pubblico riconobbe l’eccezionalità di Otello e valutò che il suo distacco dallo stile corrente nell’opera italiana dell’epoca avesse condotto Verdi a nuovi esiti artistici.

In copertina: l’artista William Mulready ritrae l’attore americano Ira Aldridge nel ruolo di Otello – Walters Art Museum (particolare del dipinto)

Opera al nero #4. Rigoletto: tra innovazione e potenza drammatica

Opera al nero 4 Rigoletto tra innovazione e potenza drammatica

Il Rigoletto di Giuseppe Verdi rientra nella schiera delle opere al nero, grazie a diversi crimini perpetrati tra una nota e l’altra. In questo melodramma, in specifico, assistiamo a un rapimento e a un omicidio.

Rigoletto (1851), opera in tre atti di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), è ricavata dal dramma di Victor Hugo (1802 – 1885) “Le Roi s’amuse” (Il re si diverte); l’autore del libretto è Francesco Maria Piave (1810 – 1876). Quest’opera insieme con “Il trovatore” (1853) e “La traviata” (1853) costituisce la cosiddetta “trilogia popolare” verdiana.

La scelta del testo di Hugo si deve a Verdi.
Il compositore leggeva moltissimo e si teneva informato sulle novità letterarie, sempre alla ricerca dell’intreccio drammaturgico ideale da mettere in musica e che fosse il più possibile vicino alle sue esigenze espressive. Purtroppo in varie occasioni, i testi da cui il musicista era attratto cozzavano contro la ferrea censura dell’epoca. A riprova di ciò, lo stesso Rigoletto fu inizialmente oggetto delle attenzioni della censura austriaca.

Anche il testo originale, quello di Hugo, “Le Roi s’amuse” (1832) fu bloccato dalla censura e solo 50 anni dopo la prima fu possibile riproporlo.
Il dramma dello scrittore francese non fu gradito al pubblico e neppure alla critica, principalmente perché nel testo sono descritte, senza tanti peli sulla lingua, le dissolutezze della corte francese e al centro della storia c’è addirittura il libertinaggio di Francesco I (1494 – 1547), re di Francia.
L’opera di Verdi subì ugualmente l’invadenza della censura. Le prime modifiche necessarie per superare il veto dei censori furono lo spostamento dell’azione dalla Francia alla corte di Mantova e mettere al posto del re un ben più modesto duca.

Il più delle volte, è grazie alla corrispondenza di Verdi con i suoi editori o con i librettisti che cogliamo dal vivo delle sue parole le vicissitudini in cui spesso incorrevano le sue opere.
A proposito di Rigoletto, il musicista scrisse a Piave: “il titolo deve essere necessariamente La maledizione di Vallier, ossia per essere più corto La maledizione. Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande”.
Alla fine, per il titolo si optò per il nome del protagonista che dall’originale “Triboletto” (Triboulet per Hugo), divenne “Rigoletto” (dal francese “rigoler”, che significa scherzare).

Verdi aveva deciso di musicare il testo di Hugo perché aveva tutti i requisiti che un dramma dovrebbe possedere per essere tradotto in musica, almeno secondo lui: era un intenso dramma di passione, tradimento, amore filiale e vendetta. Questa amalgama di sentimenti ed emozioni era il materiale perfetto da tradurre in ricchezza melodica e potenza drammatica.

La tragica vicenda di Rigoletto si svolge nel XVI secolo a Mantova e dintorni.
Rigoletto, il protagonista della storia è un gobbo, buffone di corte presso il duca di Mantova. A causa delle sue beffe feroci si è guadagnato l’odio dei cortigiani che non aspettano altro che vendicarsi di lui.
Rigoletto ha una figlia, Gilda, la cui esistenza cerca di mantenere segreta. La ragazza si è invaghita di un povero studente che in realtà è il duca di Mantova, uomo superficiale e libertino.
Intanto, i cortigiani del duca scoprono l’esistenza di Gilda; la credono l’amante di Rigoletto e per vendicarsi di lui la rapiscono e la portano a palazzo ducale. Qui, la giovane, sedotta dal duca, si tormenta per la sua sorte, mentre Rigoletto giura di vendicare l’onta subita. Il buffone decide per una soluzione drastica e incarica un sicario, Sparafucile, di uccidere il duca, ma all’ultimo momento, sua figlia, ancora innamorata del suo seduttore, prende il suo posto e muore pugnalata.

L’opera inizia con un preludio cupo e disperato che preannuncia la tragedia che sta per consumarsi. Poi dalle note siamo sbalzati al centro di una festa che si tiene al palazzo ducale di Mantova. Tra lazzi e risate, con note rapide e allegre inizia l’opera vera e propria, e la sensazione è quella di essere stati catapultati dentro un’opera buffa.

Il contrasto tra il preludio e questa scena vivace e scanzonata è decisamente marcato e ha uno scopo preciso: la leggerezza di questo momento prepara gli spettatori “alla semina della tragedia“.
Nelle sale del palazzo ducale cavalieri e dame danzano. Verdi applica in questa scena una soluzione che Mozart aveva già impiegato nel primo atto del suo “Don Giovanni”: mescolare temi e melodie anche dal punto di vista narrativo. Così sentiamo provenire delle sonorità dall’orchestra in buca, cui si uniscono i suoni prodotti da una banda posizionata all’interno e quelli di un gruppo di archi che accompagnano le danze sul palcoscenico.

I balli sfrenati e il variare costante delle melodie delineano il carattere libertino dei personaggi. Il culmine di tale spirito licenzioso è poi manifestato dalla prima aria, cantata dal duca di Mantova, “Questa o quella per me pari sono”: manifesto deliberato della volubilità del personaggio che con questo brano esprime a Borsa la propria indifferenza verso l’identità delle donne che corteggia e seduce.
Nel terzo atto, invece, cantando “La donna è mobile” dichiarerà l’opposto. Per giustificare il suo comportamento, sosterrà che è il genere femminile a essere volubile, probabilmente, perché è incapace di provare sentimenti veri e di conseguenza, è convinto che anche le donne con cui si intrattiene siano come lui: incapaci di amare.

Parole e musica ci presentano il Duca come un seduttore seriale, frivolo e superficiale che pianifica abilmente le proprie conquiste, ma non è un manipolatore e in buona parte dell’opera è ignaro di ciò che accade attorno a lui. Non è il motore degli eventi che accadranno, che invece si sviluppano per mano altrui.

Ad esempio, il Duca è all’oscuro del rapimento della figlia di Rigoletto, Gilda, da parte dei cortigiani e ignora le oscure macchinazioni ordite contro di lui dal buffone di corte con Sparafucile. Non saprà neppure di essere sfuggito a un attentato alla propria vita.
In effetti, il Duca non è il cattivo della storia. È solo un uomo che soddisfa i suoi istinti senza troppi scrupoli e la musica sostiene questa interpretazione del personaggio: le sue bellissime arie risultano semplicemente delle ballate orecchiabili.

Se il Duca pecca in leggerezza e vacuità, i cortigiani e lo stesso Rigoletto sono crudeli.
Gilda, invece, è un personaggio che matura nel corso dell’opera e se all’inizio è impegnata in melodie dallo stile datato, concepite allo scopo di mostrare la sua ingenuità, successivamente, sarà capace di ben altre linee musicali, sempre più elaborate, a mano a mano che prenderà coscienza delle ingiustizie del mondo.

Se per il Duca Verdi ha utilizzato melodie incantevoli ma disimpegnate, per il vero protagonista dell’opera, Rigoletto, ha intessuto fosche e tragiche sonorità.
A differenza del Duca, il buffone è un personaggio complesso che possiede mille sfaccettature. Nel corso dell’opera, lo vediamo preso dai sensi di colpa e dagli scrupoli; ossessionato, afferrato da un profondo amore paterno, folle nella ricerca di un’atroce vendetta.

Rigoletto è ambivalente: la sua personalità è divisa tra l’acre malignità e il cinismo, che non perde occasione di mostrare alla corte ducale, e l’affetto sincero e delicato che mostra per sua figlia, affetto nel quale si rivela la sua natura di uomo, opposta alla maschera del buffone.

Verdi amava il personaggio di Rigoletto, in un suo scritto dice di lui: “Io trovo […] bellissimo. Rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore”.
Il compositore è anche riuscito a rappresentare la dualità del suo adorato protagonista, mescolando sapientemente lo stile “alto”, tipico della tragedia, con quello “medio” e “basso”.

Rigoletto è ritenuto “una delle figure più tragiche della storia del melodramma”, forse anche per il contrasto tra la sua situazione drammatica e il suo ruolo di buffone, colui che per mestiere deve divertire e far ridere gli altri. In ogni caso, si tratta di un grande personaggio perché ospita in sé sia il comico che il tragico. Ed è anche causa dei suoi mali: per compiacere il Duca, fa infuriare il Conte di Ceprano e in generale il suo atteggiamento di irrisione e le nefandezze perpetrate nei confronti dei cortigiani scatenerà la loro vendetta che coinvolgerà, oltre a lui, anche sua figlia.

La tragedia di Rigoletto è una doppia tragedia: la sofferenza di un padre che vede morire la propria figlia e l’incapacità di un uomo, il Duca, di conoscere e comprendere quanto grande e profondo possa essere l’amore.

Con Rigoletto, Verdi aderisce completamente alle teorie romantiche francesi sull’arte che sostengono il concetto che il “vero” deve prevalere sul “bello” e la realtà deve essere raffigurata in tutti i suoi aspetti.
Infatti, andando contro i canoni estetici della tradizione classicistica, il compositore costruisce il dramma attorno a un personaggio difforme e grottesco, in accordo con la poetica che emerge anche nelle opere letterarie di Hugo. Ed è proprio il grottesco a incarnare l’elemento più incisivo del contrasto.

Verdi si rifà ad Hugo anche per un altro aspetto: conserva in toto l’effetto delle situazioni drammatiche, usando la sintesi. In pratica, individua le situazioni chiave e dà loro risalto con pochi tratti veloci. Conferisce ai personaggi il massimo rilievo, conduce il susseguirsi delle scene con un ritmo rapido e travolgente ed enfatizza le figure con grande potenza, insolita nel melodramma della sua epoca. In particolare, usa il canto, conducendo alla perfezione l’arte della melodia e le concede la facoltà di mostrare tutte le sfumature emotive e i possibili stati d’animo.
Magistrale è il contrasto che ha creato tra i due antagonisti dell’opera: il Duca si profonde in melodie compiute e a volte irriverenti, che ne illustrano i modi arroganti e cinici; Rigoletto utilizza prevalentemente il declamato e canta in forme rotte e spezzate.

Quest’opera di Verdi, rispetto alle precedenti, mostra un’evoluzione marcata, soprattutto per la capacità acquisita dal compositore di tratteggiare caratteri psicologicamente complicati.
Con Rigoletto, Verdi riesce a rappresentare in modo realistico la natura umana in tutta la sua mutevolezza e complessità.

Il musicista ha prestato particolare attenzione all’individuazione del soggetto drammatico e non ha trascurato neppure un dettaglio per garantire all’opera il massimo effetto teatrale.
Ha realizzato con grande attenzione la partitura, creando strutture a lunga campata. Ha anche utilizzato con notevole flessibilità il linguaggio e le convenzioni formali del melodramma italiano. Infatti, ha inserito nel Rigoletto: “numeri” singoli in blocchi scenici più vasti; ha fuso momenti prettamente di azione con altri di riflessione; ha tarato le scene sul tempo interiore dei personaggi.

Verdi aveva già mostrato molte delle novità presenti nel Rigoletto nelle sue opere precedenti, ma la differenza più netta che si rileva in questa opera è l’unità stilistica, realizzata grazie alla caratterizzazione musicale.
In tutta l’opera si vive in un’atmosfera di attesa di eventi che aleggiano minacciosi e si avverte anche l’opprimente sensazione di una sventura imminente, preannunciata dalla maledizione.
Il compositore è riuscito anche a dare vita a personaggi che, pur muovendosi entro le regole formali dell’opera italiana, maturano e crescono a mano a mano che il dramma procede.
L’insieme di queste novità, unite all’originalità del soggetto e alla capacità di ritrarre i caratteri dei personaggi con grande efficacia, consentono di affermare che Rigoletto mostra senza dubbio nuove prospettive al teatro musicale.

In copertina: Scenografia per l’atto “IV” (III come normalmente conteggiato) del Rigoletto di Giuseppe Verdi. (Per la produzione del Théâtre national de l’Opéra al Palais Garnier inaugurato il 27-02-1885)

Opera al nero #3. Tosca di Puccini: un crimine tira l’altro

Opera al nero Tosca di Puccini un crimine tira l’altro

“Tosca” di Giacomo Puccini ha tutti gli ingredienti per essere una storia “nera”. Nell’agile e drammatica trama si avvicendano diversi eventi tragici, tra cui un omicidio e un suicidio.

Proseguendo sulla scia delle opere al nero possiamo includere anche il capolavoro di Giacomo Puccini (1858 – 1924; compositore italiano, ritenuto uno dei maggiori e più significativi operisti di tutti i tempi), “Tosca”, anche qui gli atti criminosi e i gesti disperati certamente non difettano. Infatti, nel corso dell’opera assistiamo a un ricatto, a un tentato stupro, a un omicidio, a un’esecuzione per fucilazione e infine, a un suicidio.

E voi vi chiederete, c’è spazio per altro, dopo questa carrellata di disgrazie e violenze?
Sì, c’è spazio per una storia d’amore e qualche tocco di ambientazione storica.
In realtà, ciò che predomina in quest’opera di Puccini, al di là dei tragici eventi, è l’amore tra Tosca e Mario Cavaradossi; attorno alla loro relazione appassionata è costruita l’intera vicenda.

Puccini come Verdi sceglieva con cura i testi che intendeva musicare.
L’intreccio doveva essere avvincente e scorrevole e al contempo, suscitare forti emozioni sulle quali il musicista potesse poggiare e modellare i suoi impianti sonori, fondendo note, parole e azione in una perfetta drammaturgia.

I libretti delle opere liriche, quelle definite “serie” nel XVIII secolo, sono spesso incentrati su un triangolo amoroso (o anche più di uno), composto da due figure maschili tenore e baritono/basso e una figura femminile (soprano).
Dalle relazioni conflittuali tra queste tre figure scaturisce l’azione del dramma.
Semplificando, diremo che la storia d’amore, che in genere coinvolge il tenore e il soprano, sarà immancabilmente contrastata dal baritono/basso.

Questo schema triangolare ha incontrato molta fortuna nell’opera e compare in varie salse, calato in diverse ambientazioni e gestito con motivazioni conflittuali sempre diverse, tutte, però, condite di bellissima musica.
Puccini nella Tosca, ovviamente, non rinuncia al collaudato triangolo che qui vede impegnati: Floria Tosca (soprano), Mario Cavaradossi (tenore) e Vitellio Scarpia (baritono).

L’idea di scrivere quest’opera venne a Puccini dopo aver assistito, nel 1889, al dramma “La Tosca” di Victorien Sardou (1831 – 1908; drammaturgo francese), al teatro dei Filodrammatici di Milano.
Il compositore ne fu particolarmente colpito e chiese all’editore Giulio Ricordi (1840 – 1912) di interessarsi ai diritti perché intendeva musicarla.
Sardou non rigettò la richiesta, ma mostrò una certa freddezza e solo nel 1893, Ricordi riuscì a ottenere l’autorizzazione, ma per un altro musicista, Alberto Franchetti (1860 – 1942; compositore italiano appartenente alla scuola verista).

Fu così approntato un abbozzo di libretto, da Luigi Illica (1857 – 1919; commediografo e librettista italiano) e Giuseppe Giacosa (1847 – 1906; drammaturgo, scrittore e librettista italiano), che ottenne l’approvazione dell’autore del dramma. Franchetti però non volle comporre la musica, così Ricordi, nel 1895, chiese di occuparsene a Puccini. Il compositore si mise all’opera nella tarda primavera del 1896.
L’opera fu completata nel mese di ottobre del 1899 ed andò in scena il 14 gennaio 1900, al Teatro Costanzi di Roma.

Per passare dalla prosa alla musica, la vicenda di Sardou fu innanzitutto ristretta dai cinque atti originali a tre e furono operati diversi tagli. I librettisti eliminarono numerosi particolari attinenti alla cornice storica realistica del dramma e anche parecchi personaggi secondari.
Lo scopo era quello di concentrare al massimo la storia sui tre personaggi principali e sull’amore tormentato tra Tosca e Mario.

Tosca è ritenuta l’opera più drammatica di Puccini; essa presenta numerosi colpi di scena e situazioni che mantengono ben desto l’interesse del pubblico.
La musica è caratterizzata da incisi tematici taglienti e brevi, e si adatta perfettamente al testo e alla struttura generale del libretto, grazie al suo rapido decorso.

Ai momenti drammatici dell’azione, Puccini è riuscito a contrapporre delle parti liriche, dove emerge prepotentemente la vena melodica, come ad esempio nei duetti tra Tosca e Mario e nelle loro rispettive romanze (Recondita armonia, Vissi d’arte, E lucevan le stelle).
A livello orchestrale, poi, il compositore ha dato vita a delle sonorità che anticipano addirittura l’espressionismo musicale tedesco.

Per quanto riguarda la storia, la vicenda si svolge a Roma. Abbiamo anche la data precisa: martedì 17 giugno 1800, cioè tre giorni dopo la battaglia di Marengo (combattuta nel corso della seconda campagna d’Italia, durante la guerra della seconda coalizione; le truppe francesi dell’Armata di riserva, guidate da Napoleone Bonaparte, si scontrarono con l’esercito austriaco, comandato dal generale Michael von Melas. La battaglia ebbe luogo a est del fiume Bormida, vicino all’attuale Spinetta Marengo, nel territorio della Fraschetta, odierna provincia di Alessandria).

Ci troviamo calati in un particolare momento storico, in un’atmosfera tesa, tra gli avvenimenti rivoluzionari in Francia e la caduta della prima repubblica romana.
La prima scena dell’atto primo vede il bonapartista, nonché ex console della repubblica romana, Cesare Angelotti, evaso da Castel Sant’Angelo, entrare nella Basilica di Sant’Andrea della Valle per nascondersi. Qui incontrerà il suo amico, il pittore Mario Cavaradossi, che sta lavorando in una cappella.
Il colloquio fra i due è interrotto dall’arrivo di Tosca, amante di Mario, che costringe Angelotti a rintanarsi di nuovo nella cappella. Il pittore nasconde alla donna la presenza del suo amico, perché teme che lei possa rivelarlo al suo confessore.

Il colloquio amoroso tra Tosca e Mario è turbato dalla gelosia di lei che scorge nella figura della Maddalena, ritratta dal suo amante, la marchesa Attavanti.
Il pittore riesce a tranquillizzarla e a congedarla e a quel punto, Angelotti può uscire di nuovo dal suo nascondiglio. I due riprendono il discorso precedentemente interrotto. Mario offre all’amico protezione e lo accompagna alla sua casa in periferia. Andandosene, portano con loro anche gli abiti femminili che la sorella del fuggiasco ha dato al fratello per travestirsi; dimenticano però nella cappella un ventaglio.

Nel frattempo, in chiesa piomba il barone Scarpia, capo della polizia papalina, che sta cercando l’evaso. L’uomo sospetta anche di Cavaradossi del quale conosce le simpatie bonapartiste.
Per trovare Angelotti e arrestare lui e il pittore, Scarpia pensa di coinvolgere Tosca. La cantante è tornata in chiesa, per informare Mario che il loro appuntamento è saltato: lei deve cantare a Palazzo Farnese.
Scarpia, novello Jago, approfitta della gelosia della donna e abilmente la induce a credere che Mario la tradisce con la marchesa Attavanti, e il ventaglio dimenticato nella cappella ne sarebbe la prova.

Tosca esce sconvolta dalla chiesa, meditando di cogliere i due presunti amanti in flagrante, mentre Scarpia ordina a uno dei suoi luogotenenti di seguirla. L’uomo è convinto di scovare Angelotti e di poter imprigionare Mario che probabilmente lo nasconde. E già si immagina “L’uno al capestro [Cavaradossi], l’altra fra le mie braccia [Tosca]”.

Il secondo atto si apre sull’appartamento di Scarpia intento a consumare la sua cena, mentre a un piano inferiore di Palazzo Farnese sono in corso i festeggiamenti in onore del generale Melas.
Gli uomini di Scarpia hanno seguito Tosca fino alla villa di Mario. La cantante se n’è già andata, quando gli sbirri piombano in casa del pittore. Non trovano Angelotti, ma arrestano Mario, perché ritengono sappia dove sia nascosto il fuggiasco. Cavaradossi, condotto davanti a Scarpia, si rifiuta di svelare dove è nascosto il suo amico.

Tosca che ha appena cantato al cospetto della regina al piano inferiore, si reca anche lei nell’appartamento di Scarpia, convocata da uno dei suoi uomini e vede Mario, prima che l’uomo sia condotto in un’altra stanza per essere torturato.
Il capo della polizia, dopo aver costretto la donna ad ascoltare le urla del suo amante, riesce a piegare la sua volontà e a farle rivelare il nascondiglio di Angelotti.
Nel frattempo, un messaggero arriva e annuncia che a vincere la battaglia di Marengo sono state le truppe di Napoleone, non quelle austriache.

Mario inneggia alla vittoria e Scarpia lo condanna a morte. Tosca implora Scarpia di concedere la grazia a Mario. L’uomo acconsente, ma vuole che in cambio la donna gli si conceda.
Tosca è combattuta, prega, piange e si dispera, ma il barone non si fa impietosire. Nel frattempo giunge la notizia che Angelotti si è suicidato e Scarpia dà l’ordine di giustiziare Cavaradossi, ma con una fucilazione simulata. In realtà, è solo una finzione volta a ingannare la cantante, ma quello che l’uomo non si aspetta è la reazione di Tosca. Mentre Scarpia scrive il salvacondotto per la cantante e il suo amante, la donna riesce a impadronirsi di un pugnale e quando lui tenta di avvicinarla lo uccide al grido: “Questo è il bacio di Tosca!” e poi fugge con il salvacondotto.

Nell’atto terzo, Tosca incontra per un’ultima volta Cavaradossi a Castel Sant’Angelo e lo rassicura: non morirà. La donna gli mostra il salvacondotto firmato da Scarpia e gli confida di averlo ucciso.
Purtroppo, non ci sarà alcuna simulazione, Mario viene fucilato veramente e Tosca disperata e inseguita dagli sbirri, che hanno trovato Scarpia morto, si getta dagli spalti di Castel Sant’Angelo, dopo aver gridato “O Scarpia, avanti a Dio!!

Opera al nero #2. I Capuleti e Montecchi di Bellini: tragedie familiari

Opera al nero 2. I Capuleti e Montecchi di Bellini tragedie familiari

La vicenda di Romeo e Giulietta è stata origine di un proliferare di opere. Dalla letteratura alle scene, dalla pagina scritta alla pagina musicale, gli sfortunati amanti sono diventati una tra le coppie più famose e celebrate.
Vincenzo Bellini, compositore catanese, come molti altri, non ha resistito al fascino di questa famosissima e tragica storia d’amore.

Anche il travagliato amore tra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti si presta alla definizione di opera al nero: anche qui l’atmosfera da tragedia non disattende le attese.

I due infelici innamorati sono stati celebrati in ogni salsa. Dalla letteratura al teatro, la loro storia è rimbalzata fino al mondo del balletto (“Romeo e Giulietta”, Op. 64 di Sergej Sergeevič Prokof’ev,1891 – 1953) e, ovviamente, è transitata anche per l’opera.

In effetti, è impossibile che una vicenda che tratti di un amore epocale, condito da un retroscena (neanche troppo) sanguinoso, potesse sfuggire al mondo della lirica che ha sempre cercato trame in grado di destare i sentimenti e far lievitare le emozioni sino al loro massimo livello. Inoltre, nella storia di Romeo e Giulietta non mancano neppure inganni e sotterfugi, fughe e cripte sotterranee, veleni e colpi di spada che sono ugualmente benedette da impresari, librettisti e musicisti.

Diversi autori hanno pensato bene di rivestire di musica questa tragedia, ricordiamo il famoso dramma “Giulietta e Romeo” del compositore Nicola Antonio Zingarelli (1752 -1837; compositore italiano, esponente della Scuola musicale napoletana) su libretto di Giuseppe Maria Foppa (1760 – 1845; librettista italiano, autore di oltre 80 libretti realizzati tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento), tratto non dalla tragedia shakespeariana, bensì dalla novella cinquecentesca con il medesimo titolo scritta da Luigi da Porto (1485 – 1529; scrittore e storiografo italiano). L’opera, ritenuta il capolavoro di Zingarelli, fu composta in pochissimo tempo e fu eseguita per la prima volta durante la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala di Milano, il 30 gennaio 1796.

Altro compositore che si cimentò sulla vicenda degli sfortunati amanti è Nicola Vaccaj (1790 – 1848; compositore e insegnante italiano). Il libretto in questo caso è di Felice Romani (1788 – 1865; librettista, poeta e critico musicale, fra i più celebri e prolifici del suo tempo: scrisse circa un centinaio di libretti, per i massimi operisti italiani della prima metà dell’Ottocento).
Per la stesura, l’autore si basò su una tragedia di Luigi Scevola (1770 – 1818; drammaturgo italiano), tratta dall’omonimo lavoro di Shakespeare, e soprattutto, su un’ampia tradizione letteraria italiana, tra cui la “Novella IX” (La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’un di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti), contenuta nel novelliere di Matteo Bandello (1485 – 1561; vescovo cattolico e scrittore italiano del Cinquecento), nonché su un balletto ispirato ai due amanti veronesi, “Le tombe di Verona”, messo in scena a Milano nel 1820. Il testo così concepito è piuttosto lontano dalla tragedia di Shakespeare.
Il melodramma di Vaccaj andò in scena, per la prima volta, il 31 ottobre del 1825, al Teatro alla Canobbiana di Milano.

In ordine cronologico, altra opera che riprende la tragedia amorosa è “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini (Catania, 3 novembre 1801 – Puteaux, 23 settembre 1835). Il libretto su cui lavorò il compositore era un adattamento di quello di Romani, già utilizzato da Nicola Vaccaj.

Per la sua “Roméo et Juliette”, Charles Gounod (1818 – 1893), dopo un tentativo fallito sul libretto di Felice Romani, nel 1841, utilizzò il libretto in francese di Jules Barbier (1825 – 1901; poeta, scrittore e librettista francese) e Michel Carré (1821 – 1872; librettista francese), tratto da “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare (1564 – 1616).
La sua opera vide la luce nel 1865, dopo solo pochi mesi di lavoro, ma per vederla allestita al Théâtre Lyrique Impérial du Châtelet di Parigi, dove ottenne un successo immediato e duraturo, il musicista dovette attendere fino al 27 aprile 1867.

Tornando a Bellini, la sua opera, divisa in due atti, apparve in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo 1830 e fu un successo. Il libretto era di Felice Romani.
Il musicista compose “I Capuleti e i Montecchi” a tempo di record. Impiegò poco più di un mese, dalla fine di gennaio ai primi di marzo. Per accelerare i tempi, trasse molta della musica per il nuovo melodramma da un’opera da lui musicata l’anno precedente, che era stata un irrimediabile insuccesso: la “Zaira”. Inoltre, recuperò una romanza anche dalla sua opera d’esordio “Adelson e Salvini”.

Il materiale musicale “riciclato” fu comunque sottoposto da Bellini a un lavoro molto accurato di rielaborazione, affinché fosse adeguato ai personaggi mutati, così come ai versi e agli interpreti.
Anche in quest’opera, il compositore affidò le parti della coppia di protagonisti a due voci femminili.
Quindi, non stupitevi se andando a vedere quest’opera troverete un Romeo mezzosoprano “en travesti” (o “travesti”, personaggio che in un’opera teatrale o lirica è interpretato da un attore o cantante di sesso opposto). Questo tipo di soluzione era appropriata per la rappresentazione di un amore fra adolescenti.

Con “I Capuleti e i Montecchi” Bellini getta le basi da cui si evolverà la ricerca formale delle sue opere successive. Questo melodramma è andato spesso in scena, soprattutto perché la scrittura vocale non è particolarmente difficile e la drammaturgia è semplice, espressiva e fondata su una trama di sicuro interesse.
Per la notorietà, però, ci fu un prezzo da pagare. Per tutto il corso dell’Ottocento, l’opera subì ogni tipo di stravolgimento, a cominciare dalla “variazione” introdotta da Maria Malibran (1808 – 1836) che sostituì, in modo arbitrale, il duetto finale, che non consentiva una consona esibizione vocale, con il convenzionale finale dell’opera di Vaccaj.
Non mancarono stravolgimenti anche nel Novecento, in particolare con la scelta di affidare la parte di Romeo alla voce di un tenore.

Per quanto riguarda la genesi di quest’opera, dobbiamo tornare al 1829.
Bellini era a Venezia e stava seguendo alla Fenice la messa in scena del “Pirata”. Il teatro veneziano aveva in programma come terza opera della stagione un nuovo lavoro di Giovanni Pacini (1796 – 1867) che, sovraccarico di lavoro, alzò bandiera bianca, così il teatro si rivolse a Vincenzo, perché facesse le sue veci.
Il musicista accettò anche se era piuttosto dubbioso, a causa del poco tempo concesso per portare a termine il lavoro. Per accelerare il procedimento decise di usare lo stesso libretto di Romani, già impiegato da Vaccaj, ma operando qualche rimaneggiamento.

Fortunatamente, il libretto era perfetto per la compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione. Tra i cantanti ingaggiati spiccava il mezzosoprano Giuditta Grisi (1805 – 1840) alla quale il compositore diede la parte di Romeo.
Affidare il ruolo del giovane innamorato a una donna, in abiti maschili, era una consuetudine di lunga data e all’epoca di Bellini non costituiva una stranezza.
Romeo, affidato alla Grisi, faceva coppia con il soprano Rosalbina Carradori Allan (1800 – 1865) nei panni di Giulietta. Il tenore Lorenzo Bonfigli era Tebaldo, mentre il basso, Gaetano Antoldi, Capellio.
L’opera mandò in visibilio il pubblico veneziano. Il 26 dicembre dello stesso anno (1830) fu allestita al Teatro alla Scala di Milano con notevoli rimaneggiamenti, soprattutto per la nuova interprete nel ruolo di Giulietta, Amalia Schütz Oldosi (1803 – 1852), che era un mezzosoprano.

Diamo uno sguardo alla trama.
L’atto primo ci catapulta nella Verona del Duecento. La città è lacerata dalla faida tra la famiglia dei Capuleti, guelfi, e quella dei Montecchi, ghibellini. Il principale rappresentante dei Capuleti, Capellio (basso), padre di Giulietta, riunisce i suoi e li sprona a combattere gli avversari. Inoltre, comunica loro che i Montecchi, sostenuti da Ezzelino (Ezzelino III da Romano, 1194 – 1259, signore di Vicenza, Verona e Padova; ghibellino, sostenne l’imperatore Federico II), sono capitanati da Romeo, l’assassino di suo figlio, che vuole inviare un ambasciatore per proporre la pace. Lorenzo (basso), medico e familiare dei Capuleti, osteggiato dagli altri, suggerisce di ascoltare le parole del messaggero.

A capo della fazione guelfa c’è Tebaldo (tenore) che giura di uccidere Romeo, per vendicare la morte del figlio di Capellio che in cambio gli offre sua figlia in sposa. Le nozze saranno celebrate la sera stessa.
Lorenzo, però, sa che Giulietta è segretamente legata a Romeo e cerca di evitare il matrimonio, sostenendo che Giulietta è malata. Tebald, dal canto suo, non vuole far soffrire la promessa sposa. Si dice pronto a rinunciare alle nozze, ma il padre di Giulietta sostiene che la giovane sarà grata a chi vendicherà la morte del fratello.

Nel frattempo, sopraggiunge l’ambasciatore dei Montecchi a proporre la pace. Si tratta di Romeo che è tornato a Verona sotto mentite spoglie. Per ricomporre la faida tra le due famiglie, il giovane suggerisce di celebrare un matrimonio: tra Romeo e Giulietta. Capellio rifiuta, mentre Giulietta è disperata nella sua stanza per la sua sorte. Lorenzo le svela che Romeo è di nuovo in città, in incognito, e riesce a far incontrare i due giovani innamorati. Romeo esorta l’amata a fuggire con lui. All’inizio Giulietta rifiuta la proposta, poi si convince e si allontana con lui.

Nel frattempo, nel palazzo di Capellio si stanno preparando i festeggiamenti per le nozze tra Giulietta e Tebaldo.
Romeo si confonde tra gli invitati e avvisa Lorenzo che mille ghibellini armati sono giunti in città per sorprendere gli avversari. Lorenzo lo esorta a lasciare Verona e a rinunciare ai suoi piani.
Intanto, si sente un tumulto: i Montecchi hanno attaccato alcuni Capuleti.
I convitati scappano, Romeo si unisce ai suoi. Mentre il frastuono scema, giunge Giulietta vestita da sposa, in ansia per il combattimento. Romeo tenta ancora di farsi seguire da lei. Intanto, arrivano Tebaldo e Capellio, seguiti dai guelfi armati che scoprono Romeo, il quale riesce a fuggire grazie all’intervento dei suoi.

Nell’atto secondo, troviamo Giulietta da sola nella sua stanza. La battaglia prosegue, la ragazza è in ansia, poi scopre che Romeo è salvo. Purtroppo, però, il giorno successivo lei sarà condotta al castello di Tebaldo per convolare con lui a nozze.
Lorenzo le suggerisce uno stratagemma: ingerire un filtro che la farà sembrare morta; la ragazza beve, dopo alcuni istanti di esitazione. Subito dopo, giunge Capellio che obbliga la figlia a ritirarsi e a predisporsi all’imminente matrimonio. Successivamente, chiede a Tebaldo di sorvegliare Lorenzo, del quale non si fida più.

Romeo, ancora a Verona, sta cercando Lorenzo per avere notizie di Giulietta. Nel mentre, incontra Tebaldo che lo sfida a duello. I due sfidanti sono sul punto di battersi, quando giunge ai loro orecchi una musica funebre: è il corteo che conduce Giulietta alla tomba.
I due rivali sono presi da grande sconforto. Romeo si reca con i suoi nel luogo ove è sepolta Giulietta. Fa aprire la tomba e si rivolge all’amata. Fa allontanare i suoi e, invocando il nome di Giulietta, si avvelena. La giovane si risveglia e vede Romeo ai piedi del sepolcro, pensa l’abbia raggiunta, avvisato da Lorenzo della sua morte simulata. I due sfortunati amanti hanno appena il tempo di abbracciarsi un’ultima volta.
Romeo muore e Giulietta cade sopra di lui. Intanto, sopraggiungono i seguaci di Romeo, inseguiti dai Capuleti. Tutti si trovano davanti al sepolcro dove i due innamorati si sono tolti la vita. Di fronte a questa scena tragica, Capellio si sente responsabile per l’odio che ha diviso le due famiglie e che ha condotto alla morte dei due giovani.

In quest’opera Bellini fa ritorno al lirismo canoro, alle melodie morbide, romantiche e suadenti che si accordano alla perfezione con la storia messa in musica.
Ne “I Capuleti e i Montecchi” confluiscono espressività del canto, particolare cura per l’intonazione del testo poetico, equilibrio della strumentazione.

Degno di nota è il finale, in stile declamato, dove si assiste a un’alternanza tra recitativo accompagnato e arioso. Qui il compositore ha concentrato la sua attenzione, in particolare sui trapassi psicologici dei personaggi in scena, giungendo a esiti struggenti.
L’opera di Bellini fu accolta in modo controverso, in particolare, il finale rappresentava una novità per l’epoca e disorientò buona parte del pubblico. Inoltre, esso non rispondeva alle esigenze esibizionistiche di una prima donna. Infatti, già dalla rappresentazione di Firenze nel 1831, fu sostituito con quello più convenzionale di Vaccaj.

I Capuleti e i Montecchi fu una tra le opere più rappresentate durante l’Ottocento, nei teatri italiani ed europei.
A quest’opera di Bellini sono legati i nomi di alcuni dei più famosi cantanti dell’epoca: Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli.
Nel Novecento, l’opera fu rappresentata dapprima a Catania (1935), per il centenario della morte di Bellini, poi in altri teatri a iniziare dagli anni Cinquanta.
Attualmente, essa occupa un posto fisso nel repertorio dei teatri lirici.

In copertina: particolare del dipinto “Romeo e Giulietta” di Frank Bernard Dicksee (1884)

Opera al nero #1. Il trovatore di Verdi: vendetta tremenda vendetta

Opera al nero 1 Il trovatore di Verdi vendetta tremenda vendetta

Il trovatore di Verdi è un’opera dalle tinte fosche in cui sono disseminati eventi cruenti. Per questo fu criticata, ma a conti fatti, già alla prima assoluta a Roma, ottenne un grande successo.

Avete mai notato che numerosi libretti d’opera potrebbero far impallidire uno scrittore di noir?
Sono davvero molte le opere liriche, dove dietro i gorgheggi dei cantanti si nascondono azioni efferate, violenze di vario genere, omicidi, suicidi, rapimenti, duelli mortali, femminicidi, tentati stupri, ricatti, esecuzioni capitali, raptus di gelosia e morte.
Note in stile di cronaca nera non mancano di certo nelle storie più gettonate del teatro musicale. Basti pensare alla trama di alcune delle più famose, come: Capuleti e Montecchi, Rigoletto, Turandot, Madama Butterfly, Cavalleria rusticana, Pagliacci, Tosca, Carmen, e così via.
Tra i così via, rientra anche “Il trovatore”, opera musicata da Giuseppe Verdi (1813 – 1901; compositore e senatore italiano, considerato uno dei più grandi operisti di tutti i tempi), che fu criticata per la prevalente atmosfera cupa e per il numero dei morti, ma il compositore, in una lettera indirizzata a Clarina Maffei (Elena Chiara Maria Antonia Carrara Spinelli, 1814 – 1886; patriota e mecenate italiana), a sua discolpa osservò: “infine nella vita non è tutto morte?

Verdi si getta nell’impresa di questa nuova opera con grande entusiasmo, reduce dal successo strabiliante ottenuto da “Rigoletto”. Ed è proprio lui a proporre, in una lettera del 18 marzo 1851, indirizzata all’impresario di Bologna, Alessandro Lanari (1787 – 1852; fu uno dei più influenti impresari italiani dagli anni ’30 ai primi anni ’50 dell’Ottocento), la stesura di una nuova opera.
Il libretto, secondo i desideri del compositore, dovrà ispirarsi a “El Trovador” di Antonio García Gutiérrez (1813 – 1884), drammaturgo romantico spagnolo che seguiva le orme di Victor Hugo (1802 – 1885; scrittore, poeta, drammaturgo e politico, ritenuto il padre del Romanticismo in Francia).

L’opera di Gutiérrez non è di certo un capolavoro drammaturgico, piuttosto un melodramma tronfio e squinternato, dove si susseguono singolari incidenti e le unità aristoteliche sono spesso bellamente accantonate.

La vicenda spazia tra amore e vendetta e l’accento principale è posto sui due personaggi femminili: Leonora, gentildonna profondamente religiosa e con rigidi ideali, che per amore sprofonderà in un abisso morale e infine si suiciderà, e Azucena, una vecchia zingara, desiderosa di vendicare sua madre, che finirà per distruggere l’unico essere al mondo che ama.

Del dramma di Gutiérrez non è stata rinvenuta alcuna traduzione in italiano e ancora ci si chiede come abbia fatto Giuseppe Verdi a venirne a conoscenza.
In effetti, cantanti o compositori amici del musicista spesso gli inviavano nuovi drammi e probabilmente, anche questo testo potrebbe essere arrivato fra le sue mani in questo modo. A tradurlo, comunque, sembra abbia provveduto Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano italiano, seconda moglie di Giuseppe Verdi).

Il libretto dell’opera fu affidato a Salvadore Cammarano (1801 – 1852; librettista e drammaturgo per musica) che Verdi, attratto singolarmente dal valore della “parola scenica”, apprezzava molto, perché non temeva gli argomenti inconsueti ed era in grado di descrivere l’atmosfera di una scena mediante un nucleo verbale attentamente studiato.

Il testo che Verdi si apprestò a rivestire di musica fu strutturato in quattro parti e otto quadri.
Quando il libretto era pressoché completo, Verdi intravide delle modifiche da apportare in alcune parti del testo, ma Cammarano morì improvvisamente. Il musicista venne a sapere della sua morte da un giornale teatrale.
Addolorato per la perdita e al contempo preoccupato per le sorti della sua opera, si rivolse al suo amico Cesare De Sanctis (1824 – 1916; compositore, direttore d’orchestra e trattatista italiano) che gli suggerì quale sostituto di Cammarano, il poeta Leone Emanuele Bardare (1820 – dopo il 1874) che fu davvero onorato di poter lavorare con il grande compositore.

Finalmente, nel 1853, il 19 gennaio, Il trovatore, giunto a compimento, fu rappresentato in prima assoluta, al Teatro Apollo di Roma. Fu un grande successo: dal teatro romano, l’opera iniziò una vera marcia trionfale. Con Il trovatore, Verdi riuscì a toccare il cuore del suo pubblico e all’epoca, fu tra le sue opere quella sicuramente più amata.

Addentrandoci nelle pagine del libretto, scopriamo che la storia de Il trovatore assomiglia alla trama di una telenovela dalle tinte fosche. L’intreccio è complesso e dai risvolti cruenti.
La vicenda ruota attorno a Leonora, dama di compagnia della principessa d’Aragona, al conflitto tra i suoi due pretendenti (Manrico, il trovatore e il conte di Luna) e a una vendetta che affonda le sue radici nel passato.

La storia è ambientata in Biscaglia (provincia della comunità autonoma dei Paesi Baschi, nella Spagna settentrionale) e in Aragona (comunità autonoma e nazione storica del nord-est della Spagna), all’inizio del Quattrocento.

Nella parte prima, veniamo catapultati nel castello dell’Aljafería di Saragozza e veniamo a sapere che il conte di Luna è innamorato di Leonora che però, non lo ricambia. Mentre lui soffre per amore, Ferrando, il capitano delle sue guardie, racconta la tragica storia del fratello minore del conte. Ancora in fasce, fu rapito da una zingara che voleva vendicare sua madre, giustiziata dal precedente conte, perché si riteneva fosse una strega. La donna aveva gettato il bambino nello stesso rogo in cui era morta sua madre.

Intanto, Leonora confida alla sua ancella il suo amore per un misterioso trovatore di cui non conosce il nome, ma che ogni notte canta per lei una serenata col suo liuto. La giovane lo ha conosciuto a un torneo.
Il conte di Luna ha ascoltato di nascosto le parole di Leonora e poi sente il suo avversario cantare per la sua amata. La giovane esce e nell’oscurità confonde il conte di Luna con l’uomo che ama.
Il trovatore, sopraggiunto, li coglie abbracciati e si sente tradito, ma Leonora gli giura il suo amore, scatenando l’ira del conte che sfida a duello il suo avversario, costringendolo a rivelare la sua identità.
Il nome del trovatore è Manrico, seguace del ribelle conte di Urgel, nemico del conte di Luna. Mentre i due uomini si allontanano per sfidarsi a duello, Leonora sviene.

Nella parte seconda, siamo ai piedi di un monte, in un accampamento di zingari che cantano e ballano.
Azucena, madre di Manrico, si risveglia dal suo consueto incubo e racconta di quando vide morire sua madre sul rogo. La donna la implorava di vendicarla, così Azucena aveva rapito il figlio del conte e lo aveva gettato nel fuoco, ma sgomenta e confusa, di fronte alla orribile morte della madre, aveva per errore ucciso suo figlio invece che quello del conte.

In seguito a tale racconto, Manrico nutre dubbi sulla sua vera identità, ma Azucena lo rassicura e gli ricorda che lei lo ha sempre protetto e curato, anche quando il giovane è tornato all’accampamento ferito, in seguito al duello con il conte. A questo proposito, Manrico racconta alla madre che avrebbe potuto uccidere il conte, ma una voce dal cielo gli ha fermato la mano. La zingara lo spinge a portare a compimento la vendetta, uccidendo il suo rivale.
Intanto, il conte ha diffuso la voce che Manrico è morto, certo di conquistare Leonora, ma la giovane invece, decide di prendere i voti. Il conte contrariato irrompe alla cerimonia di ordinazione e tenta di rapire Leonora, a quel punto, però, giunge Manrico che porta in salvo la sua amata.

Parte terza, il castello è in mano agli uomini di Urgel, i soldati del conte di Luna sono nei paraggi, in attesa di riconquistare il castello.
Ferrando cattura una zingara e dopo averla condotta davanti al conte di Luna, la riconosce; la donna confessa di essere colei che ha rapito e ucciso il fratello del conte, e afferma di essere la madre di Manrico. Il conte gioisce, finalmente avrà una doppia vendetta: per il fratello e anche su Manrico che gli ha sottratto Leonora.
Nel frattempo, nel castello, Manrico e Leonora stanno per sposarsi in segreto, ma la cerimonia è interrotta dall’annuncio che Azucena è stata catturata e a breve sarà bruciata viva. Manrico molla tutto e parte in soccorso della madre.

Nella quarta e ultima parte, il trovatore è imprigionato nel castello dell’Aljafería. Lui e sua madre saranno giustiziati all’alba.
Leonora va alla torre dove i due sono prigionieri e supplica il conte di lasciare libero Manrico, in cambio lei lo sposerà. In realtà, la giovane non intende mantenere fede alla sua promessa: medita invece di avvelenarsi prima di concedersi.
Il conte accetta la proposta e Leonora chiede di poter dare all’amato la notizia della sua liberazione, ma prima di entrare nella torre, beve il veleno. Intanto, Manrico cerca di confortare sua madre che alla fine, stremata si addormenta. Giunge Leonora che dice al trovatore di mettersi in salvo, ma quando il giovane capisce che lei non andrà con lui, decide di non fuggire. L’uomo crede che per concedere a lui la libertà la ragazza l’abbia tradito, ma Leonora, prima di morire, gli confessa di essersi avvelenata, proprio per non farlo.

Il conte assiste di nascosto alla confessione di Leonora e, furioso per ciò che ha scoperto, ordina di giustiziare il trovatore. Quando la zingara si risveglia, il conte gli indica suo figlio morente. La donna disperata gli rivela che Manrico era in realtà suo fratello; il conte è sconvolto, a quel punto, Azucena si pugnala a morte e grida: “Sei vendicata, o madre!”

In copertina: manifesto “Il trovatore”, incisione a colori

Il paese di Tritacrome: un libro e un progetto a misura di bambino

Il paese di Tritacrome libro e progetto per bambini

Il paese di Tritacrome infilato tra i monti come un segnalibro è davvero un paese curioso.
Non solo per la strana forma del suo territorio: una specie di virgola serpeggiante, dove una manciata di case bene ordinate e un gomitolo di strade seguono la forma sinuosa della valle, circondata da alti alberi al limitare del paese.
Non manca neppure il mare, a un’estremità della virgola geografica si approda a una spiaggia fatta di finissima sabbia bianca e l’acqua azzurro-verde è là che vi attende in un moto di onde perpetuo.
A Tritacrome abitano curiosi personaggi che gareggiano in stranezza, ma che vivono in armonia, ognuno assorbito dal suo ritmo e dalle sue melodie” (Uno strano paese in musica di Anna Rita Rossi).

Questo è l’incipit di una storia che si sta trasformando giorno dopo giorno in un progetto di lavoro con i bambini dell’Istituto Musicale “F. Marini” e nasce dalla collaborazione con il M° Angela De Pace che mi ha chiesto espressamente di scrivere una storia da far rappresentare al suo gruppo di voci bianche.

Il paese di Tritacrome, alla fine di questo percorso di lavoro, diventerà uno spettacolo che, considerate le premesse, già promette molto bene.
La narrazione sarà animata da canzoni con testi e musiche originali e i ragazzi vi stupiranno, come hanno stupito me per la loro serietà e soprattutto per la loro bravura.

Vi faremo sapere quando si svolgerà lo spettacolo; ovviamente, siete tutti invitati a… Tritacrome.

Angela De Pace Musicista: dal canto all’insegnamento e di nuovo al canto

musica e strumenti

Gli scrittori sono un po’ come gli investigatori: attenti ai dettagli e a ciò che succede attorno a loro. In un certo modo, chi scrive si intrufola nella vita degli altri e molti scrittori ammettono di attingere dal quel generoso magazzino per creare personaggi e costruire storie.

Ho deciso, quindi, di inaugurare una nuova rubrica in cui si evidenziano i pensieri e le riflessioni di chi opera nel campo della cultura in generale, e della scrittura in particolare, iniziando dallo stretto ambito di amici e conoscenti, senza preclusioni nei confronti di altri personaggi con i quali verrò in qualche modo in contatto. Del resto, molte persone che si incontrano casualmente ogni giorno possono essere potenziali personaggi per un nuovo libro, dal momento che le peculiarità individuali possono meglio risaltare in uno scambio fecondo di idee ed esperienze, come accaduto con Angela De Pace, musicista che conosco da molti anni e che incontro in un’aula dell’ Associazione “Artemusica” in Falconara M.ma (An), mentre sta eseguendo al pianoforte“Fly Me To The Moon”. Nella rievocazione della voce melodiosa di Ella Fitzgerald, penso che non può esserci modo migliore per iniziare un’intervista il cui tema centrale è la musica, il filo conduttore delle sue esperienze di vita. Diplomata al Conservatorio, dopo aver fatto concerti, audizioni e master di canto lirico, Angela si dedica da diversi anni all’insegnamento presso l’Associazione “Artemusica” di cui è anche Presidente.

Qual è secondo te il ruolo della musica nella cultura, oggi?
È una domanda complessa: io lavoro sia con i bambini sia con i ragazzi e mi trovo in difficoltà a rispondere a questa domanda. Per me, la musica è un elemento fondamentale nella vita dei ragazzi e adolescenti: abitua a stare con la gente, accresce la fiducia nelle proprie possibilità, rasserena gli animi. Qualunque progetto di studio o di scelta lavorativa faccia, un ragazzo trova nella musica occasione per esprimersi senza limitazioni, anche di tipo psico-fisico, come avviene con i ragazzi portatori di handicap che frequentano la nostra scuola.

Qual è stato il percorso per costituire l’Associazione?
Quando è nata, io non ne facevo ancora parte. È stata un’idea di giovani diplomati e laureati al Conservatorio “Rossini” di Pesaro e al Conservatorio di Pescara, per fare musica ed insegnare musica a Falconara, trovando nell’Amministrazione comunale del tempo un sostegno logistico ed economico. I corsi si tenevano all’epoca nei locali del vecchio Municipio, per essere trasferiti, poi, nei locali di un edificio appositamente costruito, tramite gara di appalto. Nel 1992, constatando la positiva risposta dei cittadini ai servizi offerti dalla scuola, fu deciso di costituire l’Associazione “Artemusica” che ha potuto sottoscrivere Convenzioni con il Conservatorio di Pesaro, per preparare professionalmente i ragazzi che frequentano i corsi dell’Istituto musicale “Federico Marini”, nuova denominazione assunta dalla Scuola. Nel 2016, poi, abbiamo aderito a Marche Music College, una rete formativa diffusa che offre ai propri allievi l’opportunità di accedere, ovunque risiedano, alle attività didattiche e ai corsi di formazione attivati. Per ultimo, si sono svolte audizioni per formare un’orchestra, con aspiranti venuti da tutto il mondo.

Quali sono le più recenti attività dell’Associazione “Artemusica”?
Tra gli ultimi lavori intrapresi, mi piace ricordare i “master jazz”, con ospiti di fama mondiale, che hanno avuto un’entusiastica risposta, soprattutto da parte dei giovani.
Inoltre, il nostro Coro di voci bianche ha partecipato anche quest’anno all’ultima stagione lirica al Teatro delle Muse di Ancona, nell’opera “Tosca”. Fra poco inizieranno i preparativi per l’indizione del concorso “Premio Federico Marini” che quest’anno è stato posticipato a novembre per motivi organizzativi e al quale possono partecipare candidati di varie fasce di età: bambini dai 5 anni, ragazzi e adulti fino a 30 anni.

Raccontaci qualcosa della tua esperienza con i bambini e il coro delle voci bianche.
È sempre interessante lavorare con i bambini e quest’anno, per la prima volta, ho introdotto nelle mie lezioni l’esperienza dell’ascolto. Prima di iniziare la vera e propria lezione di coro, faccio ascoltare per circa mezz’ora della musica, da quella del ’400 fino ai giorni nostri, inserisco un brano che non conoscono, stanno in silenzio e ascoltano, poi fanno domande e mi rivelano le loro preferenze. Ottenere la piena attenzione degli allievi è un risultato di tutto riguardo, oltre alla soddisfazione di vederli ascoltare coscientemente la musica.

Progetti futuri?
Ne abbiamo tantissimi. Quello più importante, almeno per me, è di realizzare un coro professionale di voci bianche., ma anche riuscire a far diventare la scuola un vero e proprio punto di riferimento per futuri jazzisti di talento e per giovani musicisti, costituisce un ambito traguardo. Per dare maggior peso e prestigio alla struttura, abbiamo recentemente cambiato lo Statuto denominandola Istituto musicale “Federico Marini” – Associazione musicale “Artemusica”.

Il sogno personale di Angela?
Dar vita ad un coro formato sia da voci bianche sia da ragazzi, in grado di cantare di tutto, dal repertorio sinfonico a quello sacro e a quello moderno, i cui componenti, prima che cantanti, siano dei musicisti. A tal fine, sto scrivendo un trattato di canto, il cui titolo “…è alta…”, tratta dall’interazione pronunciata dagli allievi nel momento in cui si fermano improvvisamente durante l’esercizio di un vocalizzo per le difficoltà di una che deve essere cantata “alta”. A forza di sentire questa frase, ho pensato che possa diventare il “simbolo” delle difficoltà che incontrano i cantanti alle prese con tessiture difficili e dell’impegno che devono profondere per migliorare e diventare dei professionisti.

Invece, Angela cantante?
(sorridendo) Angela, più che cantante si sente musicista, senza voler togliere nulla ai cantanti. Ai miei allievi dico sempre che il canto è uno strumento musicale pieno di mistero, che per essere messo a punto richiede tanto sacrificio. Studiare canto è davvero faticosissimo. La voce è lo strumento invisibile che sta dentro di noi, per questo è difficile lavorarci e lo è ancor di più quando non è il tuo. Le difficoltà dei musicisti nell’esprimersi, sono le stesse, ma enfatizzate perché nella voce c‘è la componente emotiva che vi traspare in maniera ancora più individuale.

Angela sorride di nuovo, quando suggerisco che il cantante è anche un po’ psicologo, e aggiunge: Me lo dicono in molti!

Credo sia come scavare per portare la voce all’esterno, ribatto, e Lei conferma: Scavare è un’operazione anche nella tecnica vocale. Ribadisco continuamente con i miei allievi: scaviamo, scaviamo, scaviamo, e a forza di scavare, oltre ai problemi tecnici, vocali, emergono anche quelli caratteriali. Il canto diventa, a volte, anche un modo per curare le difficoltà e le problematiche di ordine psicologico.

Per chi volesse conoscere le attività e gli eventi organizzati dall’Associazione “Artemusica”: www.facebook.com/groups