Opera al nero #6: Otello di Verdi, dramma della gelosia

Opera al nero 6 Otello di Verdi dramma della gelosia

L’Otello di Verdi rientra appieno nella definizione di opera al nero.
Inoltre, il dramma, sotteso alla musica, tratta un tema molto discusso attualmente: il femminicidio. Infatti, la vittima, Desdemona, moglie del protagonista, muore soffocata dal marito accecato dalla gelosia.

Otello, penultima opera di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), fu musicata su libretto di Arrigo Boito (1842 – 1918; letterato, librettista e compositore) e fu eseguita per la prima volta a Milano, il 5 febbraio 1887, durante la stagione di Carnevale e Quaresima del Teatro alla Scala. La storia è tratta dall’omonima tragedia di William Shakespeare (1564 – 1616).

A livello di ambientazione, Verdi e Boito hanno strutturato l’Otello in modo da creare una sorta di crescente effetto claustrofobico. Lo spazio si restringe inesorabile: passiamo dalla prima scena, quella della tempesta, ad ambiti sempre più ristretti fino ad approdare nel quarto atto alla stanza di Desedmona, dove si consuma il dramma.

La prima scena del libretto di Boito vede il popolo raccolto sul piazzale esterno al castello del governatore dell’isola di Cipro. Si attende l’arrivo della nave di Otello, che al momento sta affrontando il mare in tempesta.
La gente prega perché il generale possa scendere a terra sano e salvo (“Dio, fulgor della bufera”).
La preghiera ha buon esito: Otello, compare sugli spalti del castello e proclama la sua vittoria contro i musulmani, cantando il famoso “Esultate!

Il condottiero è accolto dalla folla festante (“Fuoco di gioia”). Gli unici a non festeggiare il vincitore sono Roderigo, innamorato di Desdemona, e l’alfiere Jago, che odia Otello, e sta già tramando contro di lui e contro il suo favorito, Cassio.
La prima mossa di Jago è far ubriacare Cassio (“Innaffia l’ugola”). Il giovane, perduto il senno a causa dell’alcol, ferisce in duello Montano. Jago intanto scatena una rissa che sarà placata dall’intervento di Otello che degraderà Cassio e poi si allontanerà con la sua sposa, intrecciando un duetto amoroso (“Già nella notte densa”).

Nell’atto secondo, Jago passa alla fase successiva del suo piano malvagio. L’alfiere sollecita Cassio a rivolgersi a Desdemona per poter tornare nelle grazie di Otello. Poi, in un monologo (“Credo in un Dio crudel”) feroce riflette sul suo destino.
Successivamente, l’alfiere incontra Otello e inizia a instillare in lui il dubbio che la sua consorte non gli sia fedele, ma che abbia una relazione con Cassio, proprio mentre i due sono a colloquio, in un angolo del giardino, così, quando la donna intercede a favore del capitano da poco degradato, l’ira del Moro si acutizza.
Desdemona è sconvolta dalla reazione di Otello e lascia cadere un fazzoletto, non un fazzoletto qualunque, bensì il primo pegno d’amore donatole dal marito; Jago lo afferra dalle mani di sua moglie, Emilia, dama di compagnia di Desdemona, e progetta di usarlo per i suoi fini diabolici. La sua intenzione è quella di nasconderlo nella dimora di Cassio.

Desdemona chiede perdono ad Otello (“Dammi la dolce e lieta / parola del perdono”), mentre in lui si va consolidando l’idea che tutte le certezze in cui finora confidava si stanno sgretolando, travolte dal dubbio lacerante (“Ora è per sempre addio, sante memorie”). Jago intanto gli promette una prova inconfutabile del tradimento: il fazzoletto che lui ha donato a sua moglie in mano a Cassio. Inoltre, lo inganna ulteriormente, raccontandogli di aver udito il rivale che in sogno pronunciava frasi d’amore rivolte a Desdemona (“Era la notte, Cassio dormiva”); Otello risponde, giurando vendetta (“Sì pel ciel marmoreo giuro”).

Nell’atto terzo, che si svolge nel salone d’onore del castello, giunge un araldo che annuncia l’arrivo degli ambasciatori veneziani. Nel frattempo, Jago dice a Otello che presto porterà Cassio al suo cospetto. Arriva Desdemona che perora di nuovo la causa del giovane capitano (“Dio ti giocondi, o sposo dell’alma mia sovran”).
In risposta, Otello le chiede di mostrare il fazzoletto che lui le ha regalato, al diniego della donna reagisce con furia e Desdemona si allontana disperata e sconvolta.
Otello si sente ferito e sfoga in un monologo la sua amarezza (“Dio, mi potevi scagliare”), poi Jago lo fa nascondere per ascoltare, non veduto, il dialogo tra lui e Cassio. Il giovane ex capitano mostrerà, istigato dal malvagio alfiere, il fazzoletto che ha trovato in casa sua e che lui ritiene l’omaggio di una corteggiatrice anonima (“Questa è una ragna”).
Otello è ormai convinto dell’infedeltà della moglie, in quel momento, di sentono degli squilli di tromba, che annunciano l’arrivo delle navi veneziane; Cassio si allontana e il Moro confida a Jago la sua decisione: ucciderà i colpevoli.

Successivamente, sulla scena compaiono: Lodovico, Montano, Desdemona e i dignitari.
Mentre legge il messaggio del Doge che lo vuole a Venezia, Otello perde la ragione e insulta la moglie. Desdemona piange e viene consolata dai presenti (“A terra, … sì … nel livido / Fango … percossa … io giaccio”). Jago intanto suggerisce le prossime mosse a Otello e a Roderigo. Il Moro, sconvolto e distrutto, sviene.
Tutti si allontanano terribilmente scossi per la scena cui hanno assistito, Jago, invece, contempla il suo trionfo, mentre da fuori risuonano inni in onore di Otello.

Nell’atto quarto siamo trasportati nella camera di Desdemona.
La donna è triste quando congeda Emilia e dopo aver pregato (“Ave Maria”), si prepara per la notte, in attesa dell’arrivo di suo marito.
Otello entra nella stanza e senza troppi indugi la soffoca, nonostante la donna protesti disperata la sua innocenza. Emilia dà l’allarme, ma troppo tardi; arriva Cassio, che ha appena ucciso Roderigo che gli aveva teso un agguato, seguito da Lodovico, Montano e Jago che fugge, appena si rende conto che le sue malefatte sono state svelate.
A questo punto, Otello, dopo aver dato l’addio alla vita (“Niun mi tema”), estrae un pugnale e si trafigge. Mentre sta morendo intona: “Pria d’ucciderti … sposa … ti baciai“, poi appoggia le labbra su quelle della moglie e muore.

Giuseppe Verdi musicò l’Otello dopo una lunga assenza dalle scene, dopo l’Aida che era stata rappresentata nel 1871.
In questa nuova opera si rilevano diversi elementi innovativi. Innanzitutto, Verdi si affrancò ancora di più dalle forme chiuse che nell’Otello sono sempre meno individuabili, alla ricerca di un flusso musicale continuo che alcuni accostano all’esperienza wagneriana. In effetti, però, questa particolare tendenza era già evidente in altri operisti italiani di quel periodo.

Per quanto riguarda i pezzi chiusi o i rimandi alla tradizione, Verdi non li disdegna del tutto, ma il loro svolgimento diventa imprevedibile.
Tra i pezzi chiusi più significativi ci sono: il dialogo in forma di recitativo tra Jago e Roderigo; la cabaletta “Sì pel ciel marmoreo giuro” che conclude il secondo atto; il grande concertato del finale del terzo atto. E non sono gli unici.

Quello che risulta innovativo in Otello, rispetto alle opere precedenti, è il modo adottato dal musicista per collegare i singoli episodi. In pratica, il passaggio dall’uno all’altro non è determinato da interruzioni nette: il tessuto musicale è in continua evoluzione, grazie soprattutto all’uso sapiente dell’orchestra, che ha il ruolo di sfondo unificante.

Nella transizione tra le varie scene, poi, Verdi riprende i materiali tematici appena ascoltati, in questo modo crea delle transizioni perfette, come ad esempio, quella che conduce dalla scena del duello tra Cassio e Montano al duetto d’amore che conclude il primo atto.
Verdi trasforma anche dei brani che all’apparenza sembrano in forma chiusa in passaggi dialogici (il “Credo” di Jago; il monologo di Otello “Dio, mi potevi scagliar”).

Verdi mostra nell’Otello tutta la sua incredibile abilità a giocare a rimpiattino con le convenzioni: prima le evoca e poi le stravolge. Un esempio illuminante è il brano con cui il protagonista irrompe in scena, poco dopo l’inizio dell’opera: il famoso “Esultate!” che è gestito come una specie di minuscola cavatina, solo dodici battute.

Per il teatro verdiano, Otello rappresenta il punto di arrivo di un percorso personale che dallo sfoggio di idealismi risorgimentali e dalla rappresentazione di eroi romantici giunge a sondare, sempre più a fondo, gli abissi dell’animo umano, rivelandone anche gli aspetti più nascosti.
Otello è quindi un dramma psicologico inquietante, dove il motore dell’azione sono le passioni assolute e devastanti, che condurranno alla rovina dei personaggi.
Per poter tratteggiare i protagonisti della sua opera e per mostrarne i più intimi moti dell’animo, il compositore dovette creare uno stile vocale nuovo e adeguato alle sue esigenze, uno stile che oscilla senza posa tra recitativo, arioso e aperture cantabili di una certa ampiezza.

Otello sta a una notevole distanza dalle opere che avevano garantito a Verdi una grande notorietà. Questa nuova opera è lontana dalle forme tradizionali del melodramma italiano e per questo da alcuni fu criticata: chi tacciò il compositore di aver smorzato la sua vena melodica; chi gli imputò un eccessivo intervento dell’orchestra. Per fortuna, sia la critica sia la parte colta del pubblico riconobbe l’eccezionalità di Otello e valutò che il suo distacco dallo stile corrente nell’opera italiana dell’epoca avesse condotto Verdi a nuovi esiti artistici.

In copertina: l’artista William Mulready ritrae l’attore americano Ira Aldridge nel ruolo di Otello – Walters Art Museum (particolare del dipinto)

“Salonmusik”, musica da salotto: genere prediletto dalla borghesia

Salonmusik musica da salotto genere prediletto dalla borghesia

Nell’Ottocento e fino a inizio Novecento si diffonde la cosiddetta musica da salotto.
Espressione musicale tipica della borghesia, consentiva ad abili dilettanti di divertirsi facendo musica insieme, e a un pubblico scelto di ascoltare eccellenti esecuzioni in ambiti domestici.

La musica in casa e la musica in salotto erano una piacevole abitudine ottocentesca.
Per i borghesi del tempo, la musica costituiva un’opportunità di affermazione sociale che si manifestava non solo attraverso le consuete esibizioni pubbliche, ma anche in quelle praticate nell’intimità delle case private.
Per assecondare questa particolare inclinazione musicale, nel corso del secolo, aumentarono i dilettanti esecutori e al contempo, il pianoforte divenne l’arredo indispensabile di un salotto borghese.

Parlando di “musica domestica” (Hausmusik) e “musica da salotto” (Salonmusik) ci troviamo di fronte a termini abbastanza simili, però, la prima espressione comprende un ambito più vasto, include cioè, sia la musica che era eseguita tra le pareti domestiche sia quella realizzata appositamente per essere suonata in casa.
I fruitori di questo specifico repertorio, nonché gli esecutori di tale musica erano i dilettanti o i familiari e gli amici che amavano suonare insieme.

Per quanto riguarda invece la seconda definizione (musica da salotto) siamo dinanzi a un termine con un senso più definito: si tratta della produzione musicale appositamente realizzata per essere eseguita nei salotti europei dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, più o meno sino alla prima guerra mondiale.

I due repertori, quello della Hausmusik e della Salonmusik, si differenziano anche per il carattere: il primo aveva, tendenzialmente, un carattere intimistico; il secondo, invece, era il più delle volte sentimentale e brillante.

La borghesia europea tra Settecento e Ottocento ambiva a diventare la classe sociale predominante e la musica si prestava agevolmente all’affermazione di tale ambizione.
Mentre il concerto pubblico si diffonde, in contrapposizione a quello privato di ascendenza aristocratica, si viene affermando anche l’uso di suonare in casa sia per divertimento sia a scopo formativo.

La musica da salotto si avvalse anche vantaggiosamente della pratica della trascrizione che consentì alla borghesia di esperire la letteratura musicale in toto, spaziando dalla musica sinfonica a quella operistica.
L’usanza di fare musica in salotto proseguì sino al primo Novecento, poi l’avvento del grammofono e della radio ne decreteranno la lenta estinzione.

Nel XVII secolo, la Hausmusik prima di rappresentare uno specifico costume musicale era un termine usato come titolo di raccolte di Lieder di matrice luterana, destinate all’esecuzione domestica.
Nel XVIII secolo, invece, il termine compare in pochissime occasioni, nonostante ci sia una grande quantità di musica pensata e realizzata proprio per i dilettanti.
Fu a cominciare dalla metà del XIX secolo che la musica domestica diventò piuttosto frequente, quando cioè aumentò la divergenza tra musica d’arte, destinata ai professionisti, e musica d’uso, composta per gli amatori.

Il problema della difficoltà, infatti, era legato alla possibilità o meno di tale musica di essere eseguita tra le pareti domestiche da dilettanti. Nel momento in cui la complessità di tali composizioni aumentò, quando cioè, iniziarono ad affermarsi brani come Lieder, quartetti e trii di genere più impegnativo, fu necessario possedere capacità interpretative di un livello superiore e quindi, ai semplici dilettanti subentrarono musicisti professionisti che si dedicarono a un’attività concertistica vera e propria.
A metà Ottocento, proprio in seguito all’affermazione di questo divario esecutivo, compositori ed editori iniziarono a specificare nei titoli delle opere la destinazione domestica di alcuni brani.

Lo strumento principe della musica da salotto era indubbiamente il pianoforte.
Per tutto il XIX secolo dilagò in Europa e in America, una vera e propria “mania” per questo strumento, accresciuta dall’idea che lo studio del pianoforte e l’insegnamento del canto fossero una irrinunciabile prassi da includere nell’educazione delle ragazze di buona famiglia.
Inoltre, la diffusione di questo particolare strumento fu incrementata dall’introduzione nel mercato di svariati modelli economici di pianoforte, perfetti per un uso domestico, come il “pianino” (attuale pianoforte verticale), introdotto nel 1811.

Fu proprio la duttilità del pianoforte a far sì che assumesse un ruolo predominante.
L’accompagnamento di questo strumento era utilizzato per sostenere diversi generi vocali e strumentali, ma spesso era impiegato anche come solista oppure per eseguire brani a quattro mani. Questo ultimo tipo di esecuzione favoriva la socialità, era un modo semplice di suonare insieme e per questo conservò un ruolo speciale nelle abitudini musicali della borghesia europea. Consentì anche di preservare la tradizione della Hausmusik, almeno fino ai primi decenni del XX secolo, quando già generi cameristici più impegnativi si erano già trasferiti nelle sale da concerto.

Oltre al pianoforte, altri strumenti prediletti della Hausmusik erano: la chitarra, l’arpa, il mandolino, il flauto, il violino e il violoncello.

In copertina: James Tissot, “Hush!” (Silenzio!) olio su tela (1875 ca. – dimensioni: 73.7 x 112.2 cm), conservato presso Manchester City Art Galleries (Manchester)

Opera al nero #5. Turandot: la principessa sanguinaria di Puccini

Opera al nero 5. Turandot la principessa sanguinaria di Puccini

La Turandot di Puccini entra nella schiera delle opere al nero, grazie alla crudeltà della protagonista e alla scia di sangue che si lascia alle spalle.

Il soggetto dell’opera di Giacomo Puccini (Lucca, 22 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924) ha origini difficili da individuare sia cronologicamente sia geograficamente.
Si è potuti risalire a una Turandot (pers. Tūrāndokht “fanciulla del Tūrān”), eroina di una novella iraniana che, almeno inizialmente, è anonima e compare nel poema “Heft Peiker” di Niẓāmī (sec. 13°).

Successivamente, la prima menzione della principessa sanguinaria nella letteratura europea è contenuta nella raccolta di materia narrativa orientale “Les Mille et un jours” (I mille e un giorno, 1710-12) di François Pétis de la Croix (1653-1713; orientalista francese), dove la storia è menzionata come di origine cinese, mentre studi filologici ci indirizzano verso una possibile origine turca.

Più avanti ancora, il soggetto fu divulgato in Italia attraverso la celebre fiaba teatrale, “Turandot”, (1762) di Carlo Gozzi (1720 – 1806; drammaturgo e scrittore italiano), verseggiata poi da Schiller (1802) e più volte musicata: Carl Maria von Weber (1786 – 1826; compositore, direttore d’orchestra e pianista tedesco) compose delle musiche di scena su questo tema nel 1809; Ferruccio Busoni (1866 – 1924; compositore e pianista italiano, considerato uno tra i più grande geni pianistici italiani) scrisse una suite orchestrale op. 41 (eseguita per la prima volta nel 1906 e poi trasformata in opera lirica, rappresentata nel 1917).

Il libretto della Turandot di Puccini, fra tutte le varie fonti si ispira, liberamente, alla traduzione di Andrea Maffei (1798 – 1885; poeta, librettista e traduttore italiano) dell’adattamento tedesco di Friedrich Schiller (1759 – 1805; poeta, filosofo, drammaturgo, medico e storico tedesco) del lavoro di Gozzi.

L’idea di scrivere un’opera sulla fiaba di Turandot venne a Puccini, dopo un incontro a Milano, nel marzo 1920, con i librettisti Giuseppe Adami (1878 – 1946; drammaturgo, librettista, giornalista, scrittore, biografo e critico musicale) e Renato Simoni (1875 – 1952; critico teatrale, giornalista, commediografo, poeta, librettista, regista e sceneggiatore).
In estate, quello stesso anno, Puccini che era a Bagni di Lucca ascoltò un carillon con temi musicali provenienti dalla Cina e alcuni di questi temi si trovano nella partitura, ad esempio, la canzone popolare “Mo Li Hua”.

La trama della Turandot e semplice da riassumere. In tutte le elaborazioni della sua storia, la crudele principessa propone degli enigmi ai suoi pretendenti e manda a morte quelli che non sanno scioglierli. Solo un pretendente, il principe Khalaf, sarà in grado di risolvere i quesiti e alla fine, otterrà l’amore di Turandot.

L’opera di Puccini è articolata in tre atti e cinque quadri. Il compositore la lasciò incompiuta e fu completata più avanti da Franco Alfano (1875 – 1954).

La prima rappresentazione della Turandot di Puccini, ebbe luogo alla Scala di Milano, il 25 aprile 1926, nell’ambito della stagione lirica del teatro.
Gli interpreti di quella serata furono: Rosa Raisa, Francesco Dominici, Miguel Fleta, Maria Zamboni, Giacomo Rimini, Giuseppe Nessi e Aristide Baracchi. A dirigere l’opera c’era Arturo Toscanini (1867 – 1957) che bloccò la rappresentazione a metà del terzo atto, alla morte di Liù, due battute dopo il verso “Dormi, oblia, Liù, poesia!”, in pratica dopo l’ultima pagina completata da Puccini.
Le sere successive la Turandot fu messa in scena con il finale rivisto di Alfano e diretta da Ettore Panizza (1875 – 1967).

L’incompletezza di Turandot ha fatto discutere gli studiosi. Il problema fondamentale di questo dramma che Puccini tentò inutilmente di risolvere era la mutazione della principessa che da algida e sanguinaria si trasforma in una donna innamorata.
Oltretutto, Puccini riteneva già la scena della morte di Liù un finale soddisfacente, poiché la considerava perfettamente in grado di suggerire al pubblico il resto della storia, appunto, il cambio di carattere di Turandot, dopo il sacrificio d’amore della sua ancella. Quindi, secondo questo punto di vista, l’opera di Puccini si può ritenere narrativamente completa anche se bruscamente interrotta.

In copertina: particolare della locandina di Turandot del 1926

Opera al nero #4. Rigoletto: tra innovazione e potenza drammatica

Opera al nero 4 Rigoletto tra innovazione e potenza drammatica

Il Rigoletto di Giuseppe Verdi rientra nella schiera delle opere al nero, grazie a diversi crimini perpetrati tra una nota e l’altra. In questo melodramma, in specifico, assistiamo a un rapimento e a un omicidio.

Rigoletto (1851), opera in tre atti di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901), è ricavata dal dramma di Victor Hugo (1802 – 1885) “Le Roi s’amuse” (Il re si diverte); l’autore del libretto è Francesco Maria Piave (1810 – 1876). Quest’opera insieme con “Il trovatore” (1853) e “La traviata” (1853) costituisce la cosiddetta “trilogia popolare” verdiana.

La scelta del testo di Hugo si deve a Verdi.
Il compositore leggeva moltissimo e si teneva informato sulle novità letterarie, sempre alla ricerca dell’intreccio drammaturgico ideale da mettere in musica e che fosse il più possibile vicino alle sue esigenze espressive. Purtroppo in varie occasioni, i testi da cui il musicista era attratto cozzavano contro la ferrea censura dell’epoca. A riprova di ciò, lo stesso Rigoletto fu inizialmente oggetto delle attenzioni della censura austriaca.

Anche il testo originale, quello di Hugo, “Le Roi s’amuse” (1832) fu bloccato dalla censura e solo 50 anni dopo la prima fu possibile riproporlo.
Il dramma dello scrittore francese non fu gradito al pubblico e neppure alla critica, principalmente perché nel testo sono descritte, senza tanti peli sulla lingua, le dissolutezze della corte francese e al centro della storia c’è addirittura il libertinaggio di Francesco I (1494 – 1547), re di Francia.
L’opera di Verdi subì ugualmente l’invadenza della censura. Le prime modifiche necessarie per superare il veto dei censori furono lo spostamento dell’azione dalla Francia alla corte di Mantova e mettere al posto del re un ben più modesto duca.

Il più delle volte, è grazie alla corrispondenza di Verdi con i suoi editori o con i librettisti che cogliamo dal vivo delle sue parole le vicissitudini in cui spesso incorrevano le sue opere.
A proposito di Rigoletto, il musicista scrisse a Piave: “il titolo deve essere necessariamente La maledizione di Vallier, ossia per essere più corto La maledizione. Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande”.
Alla fine, per il titolo si optò per il nome del protagonista che dall’originale “Triboletto” (Triboulet per Hugo), divenne “Rigoletto” (dal francese “rigoler”, che significa scherzare).

Verdi aveva deciso di musicare il testo di Hugo perché aveva tutti i requisiti che un dramma dovrebbe possedere per essere tradotto in musica, almeno secondo lui: era un intenso dramma di passione, tradimento, amore filiale e vendetta. Questa amalgama di sentimenti ed emozioni era il materiale perfetto da tradurre in ricchezza melodica e potenza drammatica.

La tragica vicenda di Rigoletto si svolge nel XVI secolo a Mantova e dintorni.
Rigoletto, il protagonista della storia è un gobbo, buffone di corte presso il duca di Mantova. A causa delle sue beffe feroci si è guadagnato l’odio dei cortigiani che non aspettano altro che vendicarsi di lui.
Rigoletto ha una figlia, Gilda, la cui esistenza cerca di mantenere segreta. La ragazza si è invaghita di un povero studente che in realtà è il duca di Mantova, uomo superficiale e libertino.
Intanto, i cortigiani del duca scoprono l’esistenza di Gilda; la credono l’amante di Rigoletto e per vendicarsi di lui la rapiscono e la portano a palazzo ducale. Qui, la giovane, sedotta dal duca, si tormenta per la sua sorte, mentre Rigoletto giura di vendicare l’onta subita. Il buffone decide per una soluzione drastica e incarica un sicario, Sparafucile, di uccidere il duca, ma all’ultimo momento, sua figlia, ancora innamorata del suo seduttore, prende il suo posto e muore pugnalata.

L’opera inizia con un preludio cupo e disperato che preannuncia la tragedia che sta per consumarsi. Poi dalle note siamo sbalzati al centro di una festa che si tiene al palazzo ducale di Mantova. Tra lazzi e risate, con note rapide e allegre inizia l’opera vera e propria, e la sensazione è quella di essere stati catapultati dentro un’opera buffa.

Il contrasto tra il preludio e questa scena vivace e scanzonata è decisamente marcato e ha uno scopo preciso: la leggerezza di questo momento prepara gli spettatori “alla semina della tragedia“.
Nelle sale del palazzo ducale cavalieri e dame danzano. Verdi applica in questa scena una soluzione che Mozart aveva già impiegato nel primo atto del suo “Don Giovanni”: mescolare temi e melodie anche dal punto di vista narrativo. Così sentiamo provenire delle sonorità dall’orchestra in buca, cui si uniscono i suoni prodotti da una banda posizionata all’interno e quelli di un gruppo di archi che accompagnano le danze sul palcoscenico.

I balli sfrenati e il variare costante delle melodie delineano il carattere libertino dei personaggi. Il culmine di tale spirito licenzioso è poi manifestato dalla prima aria, cantata dal duca di Mantova, “Questa o quella per me pari sono”: manifesto deliberato della volubilità del personaggio che con questo brano esprime a Borsa la propria indifferenza verso l’identità delle donne che corteggia e seduce.
Nel terzo atto, invece, cantando “La donna è mobile” dichiarerà l’opposto. Per giustificare il suo comportamento, sosterrà che è il genere femminile a essere volubile, probabilmente, perché è incapace di provare sentimenti veri e di conseguenza, è convinto che anche le donne con cui si intrattiene siano come lui: incapaci di amare.

Parole e musica ci presentano il Duca come un seduttore seriale, frivolo e superficiale che pianifica abilmente le proprie conquiste, ma non è un manipolatore e in buona parte dell’opera è ignaro di ciò che accade attorno a lui. Non è il motore degli eventi che accadranno, che invece si sviluppano per mano altrui.

Ad esempio, il Duca è all’oscuro del rapimento della figlia di Rigoletto, Gilda, da parte dei cortigiani e ignora le oscure macchinazioni ordite contro di lui dal buffone di corte con Sparafucile. Non saprà neppure di essere sfuggito a un attentato alla propria vita.
In effetti, il Duca non è il cattivo della storia. È solo un uomo che soddisfa i suoi istinti senza troppi scrupoli e la musica sostiene questa interpretazione del personaggio: le sue bellissime arie risultano semplicemente delle ballate orecchiabili.

Se il Duca pecca in leggerezza e vacuità, i cortigiani e lo stesso Rigoletto sono crudeli.
Gilda, invece, è un personaggio che matura nel corso dell’opera e se all’inizio è impegnata in melodie dallo stile datato, concepite allo scopo di mostrare la sua ingenuità, successivamente, sarà capace di ben altre linee musicali, sempre più elaborate, a mano a mano che prenderà coscienza delle ingiustizie del mondo.

Se per il Duca Verdi ha utilizzato melodie incantevoli ma disimpegnate, per il vero protagonista dell’opera, Rigoletto, ha intessuto fosche e tragiche sonorità.
A differenza del Duca, il buffone è un personaggio complesso che possiede mille sfaccettature. Nel corso dell’opera, lo vediamo preso dai sensi di colpa e dagli scrupoli; ossessionato, afferrato da un profondo amore paterno, folle nella ricerca di un’atroce vendetta.

Rigoletto è ambivalente: la sua personalità è divisa tra l’acre malignità e il cinismo, che non perde occasione di mostrare alla corte ducale, e l’affetto sincero e delicato che mostra per sua figlia, affetto nel quale si rivela la sua natura di uomo, opposta alla maschera del buffone.

Verdi amava il personaggio di Rigoletto, in un suo scritto dice di lui: “Io trovo […] bellissimo. Rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore”.
Il compositore è anche riuscito a rappresentare la dualità del suo adorato protagonista, mescolando sapientemente lo stile “alto”, tipico della tragedia, con quello “medio” e “basso”.

Rigoletto è ritenuto “una delle figure più tragiche della storia del melodramma”, forse anche per il contrasto tra la sua situazione drammatica e il suo ruolo di buffone, colui che per mestiere deve divertire e far ridere gli altri. In ogni caso, si tratta di un grande personaggio perché ospita in sé sia il comico che il tragico. Ed è anche causa dei suoi mali: per compiacere il Duca, fa infuriare il Conte di Ceprano e in generale il suo atteggiamento di irrisione e le nefandezze perpetrate nei confronti dei cortigiani scatenerà la loro vendetta che coinvolgerà, oltre a lui, anche sua figlia.

La tragedia di Rigoletto è una doppia tragedia: la sofferenza di un padre che vede morire la propria figlia e l’incapacità di un uomo, il Duca, di conoscere e comprendere quanto grande e profondo possa essere l’amore.

Con Rigoletto, Verdi aderisce completamente alle teorie romantiche francesi sull’arte che sostengono il concetto che il “vero” deve prevalere sul “bello” e la realtà deve essere raffigurata in tutti i suoi aspetti.
Infatti, andando contro i canoni estetici della tradizione classicistica, il compositore costruisce il dramma attorno a un personaggio difforme e grottesco, in accordo con la poetica che emerge anche nelle opere letterarie di Hugo. Ed è proprio il grottesco a incarnare l’elemento più incisivo del contrasto.

Verdi si rifà ad Hugo anche per un altro aspetto: conserva in toto l’effetto delle situazioni drammatiche, usando la sintesi. In pratica, individua le situazioni chiave e dà loro risalto con pochi tratti veloci. Conferisce ai personaggi il massimo rilievo, conduce il susseguirsi delle scene con un ritmo rapido e travolgente ed enfatizza le figure con grande potenza, insolita nel melodramma della sua epoca. In particolare, usa il canto, conducendo alla perfezione l’arte della melodia e le concede la facoltà di mostrare tutte le sfumature emotive e i possibili stati d’animo.
Magistrale è il contrasto che ha creato tra i due antagonisti dell’opera: il Duca si profonde in melodie compiute e a volte irriverenti, che ne illustrano i modi arroganti e cinici; Rigoletto utilizza prevalentemente il declamato e canta in forme rotte e spezzate.

Quest’opera di Verdi, rispetto alle precedenti, mostra un’evoluzione marcata, soprattutto per la capacità acquisita dal compositore di tratteggiare caratteri psicologicamente complicati.
Con Rigoletto, Verdi riesce a rappresentare in modo realistico la natura umana in tutta la sua mutevolezza e complessità.

Il musicista ha prestato particolare attenzione all’individuazione del soggetto drammatico e non ha trascurato neppure un dettaglio per garantire all’opera il massimo effetto teatrale.
Ha realizzato con grande attenzione la partitura, creando strutture a lunga campata. Ha anche utilizzato con notevole flessibilità il linguaggio e le convenzioni formali del melodramma italiano. Infatti, ha inserito nel Rigoletto: “numeri” singoli in blocchi scenici più vasti; ha fuso momenti prettamente di azione con altri di riflessione; ha tarato le scene sul tempo interiore dei personaggi.

Verdi aveva già mostrato molte delle novità presenti nel Rigoletto nelle sue opere precedenti, ma la differenza più netta che si rileva in questa opera è l’unità stilistica, realizzata grazie alla caratterizzazione musicale.
In tutta l’opera si vive in un’atmosfera di attesa di eventi che aleggiano minacciosi e si avverte anche l’opprimente sensazione di una sventura imminente, preannunciata dalla maledizione.
Il compositore è riuscito anche a dare vita a personaggi che, pur muovendosi entro le regole formali dell’opera italiana, maturano e crescono a mano a mano che il dramma procede.
L’insieme di queste novità, unite all’originalità del soggetto e alla capacità di ritrarre i caratteri dei personaggi con grande efficacia, consentono di affermare che Rigoletto mostra senza dubbio nuove prospettive al teatro musicale.

In copertina: Scenografia per l’atto “IV” (III come normalmente conteggiato) del Rigoletto di Giuseppe Verdi. (Per la produzione del Théâtre national de l’Opéra al Palais Garnier inaugurato il 27-02-1885)

Opera al nero #3. Tosca di Puccini: un crimine tira l’altro

Opera al nero Tosca di Puccini un crimine tira l’altro

“Tosca” di Giacomo Puccini ha tutti gli ingredienti per essere una storia “nera”. Nell’agile e drammatica trama si avvicendano diversi eventi tragici, tra cui un omicidio e un suicidio.

Proseguendo sulla scia delle opere al nero possiamo includere anche il capolavoro di Giacomo Puccini (1858 – 1924; compositore italiano, ritenuto uno dei maggiori e più significativi operisti di tutti i tempi), “Tosca”, anche qui gli atti criminosi e i gesti disperati certamente non difettano. Infatti, nel corso dell’opera assistiamo a un ricatto, a un tentato stupro, a un omicidio, a un’esecuzione per fucilazione e infine, a un suicidio.

E voi vi chiederete, c’è spazio per altro, dopo questa carrellata di disgrazie e violenze?
Sì, c’è spazio per una storia d’amore e qualche tocco di ambientazione storica.
In realtà, ciò che predomina in quest’opera di Puccini, al di là dei tragici eventi, è l’amore tra Tosca e Mario Cavaradossi; attorno alla loro relazione appassionata è costruita l’intera vicenda.

Puccini come Verdi sceglieva con cura i testi che intendeva musicare.
L’intreccio doveva essere avvincente e scorrevole e al contempo, suscitare forti emozioni sulle quali il musicista potesse poggiare e modellare i suoi impianti sonori, fondendo note, parole e azione in una perfetta drammaturgia.

I libretti delle opere liriche, quelle definite “serie” nel XVIII secolo, sono spesso incentrati su un triangolo amoroso (o anche più di uno), composto da due figure maschili tenore e baritono/basso e una figura femminile (soprano).
Dalle relazioni conflittuali tra queste tre figure scaturisce l’azione del dramma.
Semplificando, diremo che la storia d’amore, che in genere coinvolge il tenore e il soprano, sarà immancabilmente contrastata dal baritono/basso.

Questo schema triangolare ha incontrato molta fortuna nell’opera e compare in varie salse, calato in diverse ambientazioni e gestito con motivazioni conflittuali sempre diverse, tutte, però, condite di bellissima musica.
Puccini nella Tosca, ovviamente, non rinuncia al collaudato triangolo che qui vede impegnati: Floria Tosca (soprano), Mario Cavaradossi (tenore) e Vitellio Scarpia (baritono).

L’idea di scrivere quest’opera venne a Puccini dopo aver assistito, nel 1889, al dramma “La Tosca” di Victorien Sardou (1831 – 1908; drammaturgo francese), al teatro dei Filodrammatici di Milano.
Il compositore ne fu particolarmente colpito e chiese all’editore Giulio Ricordi (1840 – 1912) di interessarsi ai diritti perché intendeva musicarla.
Sardou non rigettò la richiesta, ma mostrò una certa freddezza e solo nel 1893, Ricordi riuscì a ottenere l’autorizzazione, ma per un altro musicista, Alberto Franchetti (1860 – 1942; compositore italiano appartenente alla scuola verista).

Fu così approntato un abbozzo di libretto, da Luigi Illica (1857 – 1919; commediografo e librettista italiano) e Giuseppe Giacosa (1847 – 1906; drammaturgo, scrittore e librettista italiano), che ottenne l’approvazione dell’autore del dramma. Franchetti però non volle comporre la musica, così Ricordi, nel 1895, chiese di occuparsene a Puccini. Il compositore si mise all’opera nella tarda primavera del 1896.
L’opera fu completata nel mese di ottobre del 1899 ed andò in scena il 14 gennaio 1900, al Teatro Costanzi di Roma.

Per passare dalla prosa alla musica, la vicenda di Sardou fu innanzitutto ristretta dai cinque atti originali a tre e furono operati diversi tagli. I librettisti eliminarono numerosi particolari attinenti alla cornice storica realistica del dramma e anche parecchi personaggi secondari.
Lo scopo era quello di concentrare al massimo la storia sui tre personaggi principali e sull’amore tormentato tra Tosca e Mario.

Tosca è ritenuta l’opera più drammatica di Puccini; essa presenta numerosi colpi di scena e situazioni che mantengono ben desto l’interesse del pubblico.
La musica è caratterizzata da incisi tematici taglienti e brevi, e si adatta perfettamente al testo e alla struttura generale del libretto, grazie al suo rapido decorso.

Ai momenti drammatici dell’azione, Puccini è riuscito a contrapporre delle parti liriche, dove emerge prepotentemente la vena melodica, come ad esempio nei duetti tra Tosca e Mario e nelle loro rispettive romanze (Recondita armonia, Vissi d’arte, E lucevan le stelle).
A livello orchestrale, poi, il compositore ha dato vita a delle sonorità che anticipano addirittura l’espressionismo musicale tedesco.

Per quanto riguarda la storia, la vicenda si svolge a Roma. Abbiamo anche la data precisa: martedì 17 giugno 1800, cioè tre giorni dopo la battaglia di Marengo (combattuta nel corso della seconda campagna d’Italia, durante la guerra della seconda coalizione; le truppe francesi dell’Armata di riserva, guidate da Napoleone Bonaparte, si scontrarono con l’esercito austriaco, comandato dal generale Michael von Melas. La battaglia ebbe luogo a est del fiume Bormida, vicino all’attuale Spinetta Marengo, nel territorio della Fraschetta, odierna provincia di Alessandria).

Ci troviamo calati in un particolare momento storico, in un’atmosfera tesa, tra gli avvenimenti rivoluzionari in Francia e la caduta della prima repubblica romana.
La prima scena dell’atto primo vede il bonapartista, nonché ex console della repubblica romana, Cesare Angelotti, evaso da Castel Sant’Angelo, entrare nella Basilica di Sant’Andrea della Valle per nascondersi. Qui incontrerà il suo amico, il pittore Mario Cavaradossi, che sta lavorando in una cappella.
Il colloquio fra i due è interrotto dall’arrivo di Tosca, amante di Mario, che costringe Angelotti a rintanarsi di nuovo nella cappella. Il pittore nasconde alla donna la presenza del suo amico, perché teme che lei possa rivelarlo al suo confessore.

Il colloquio amoroso tra Tosca e Mario è turbato dalla gelosia di lei che scorge nella figura della Maddalena, ritratta dal suo amante, la marchesa Attavanti.
Il pittore riesce a tranquillizzarla e a congedarla e a quel punto, Angelotti può uscire di nuovo dal suo nascondiglio. I due riprendono il discorso precedentemente interrotto. Mario offre all’amico protezione e lo accompagna alla sua casa in periferia. Andandosene, portano con loro anche gli abiti femminili che la sorella del fuggiasco ha dato al fratello per travestirsi; dimenticano però nella cappella un ventaglio.

Nel frattempo, in chiesa piomba il barone Scarpia, capo della polizia papalina, che sta cercando l’evaso. L’uomo sospetta anche di Cavaradossi del quale conosce le simpatie bonapartiste.
Per trovare Angelotti e arrestare lui e il pittore, Scarpia pensa di coinvolgere Tosca. La cantante è tornata in chiesa, per informare Mario che il loro appuntamento è saltato: lei deve cantare a Palazzo Farnese.
Scarpia, novello Jago, approfitta della gelosia della donna e abilmente la induce a credere che Mario la tradisce con la marchesa Attavanti, e il ventaglio dimenticato nella cappella ne sarebbe la prova.

Tosca esce sconvolta dalla chiesa, meditando di cogliere i due presunti amanti in flagrante, mentre Scarpia ordina a uno dei suoi luogotenenti di seguirla. L’uomo è convinto di scovare Angelotti e di poter imprigionare Mario che probabilmente lo nasconde. E già si immagina “L’uno al capestro [Cavaradossi], l’altra fra le mie braccia [Tosca]”.

Il secondo atto si apre sull’appartamento di Scarpia intento a consumare la sua cena, mentre a un piano inferiore di Palazzo Farnese sono in corso i festeggiamenti in onore del generale Melas.
Gli uomini di Scarpia hanno seguito Tosca fino alla villa di Mario. La cantante se n’è già andata, quando gli sbirri piombano in casa del pittore. Non trovano Angelotti, ma arrestano Mario, perché ritengono sappia dove sia nascosto il fuggiasco. Cavaradossi, condotto davanti a Scarpia, si rifiuta di svelare dove è nascosto il suo amico.

Tosca che ha appena cantato al cospetto della regina al piano inferiore, si reca anche lei nell’appartamento di Scarpia, convocata da uno dei suoi uomini e vede Mario, prima che l’uomo sia condotto in un’altra stanza per essere torturato.
Il capo della polizia, dopo aver costretto la donna ad ascoltare le urla del suo amante, riesce a piegare la sua volontà e a farle rivelare il nascondiglio di Angelotti.
Nel frattempo, un messaggero arriva e annuncia che a vincere la battaglia di Marengo sono state le truppe di Napoleone, non quelle austriache.

Mario inneggia alla vittoria e Scarpia lo condanna a morte. Tosca implora Scarpia di concedere la grazia a Mario. L’uomo acconsente, ma vuole che in cambio la donna gli si conceda.
Tosca è combattuta, prega, piange e si dispera, ma il barone non si fa impietosire. Nel frattempo giunge la notizia che Angelotti si è suicidato e Scarpia dà l’ordine di giustiziare Cavaradossi, ma con una fucilazione simulata. In realtà, è solo una finzione volta a ingannare la cantante, ma quello che l’uomo non si aspetta è la reazione di Tosca. Mentre Scarpia scrive il salvacondotto per la cantante e il suo amante, la donna riesce a impadronirsi di un pugnale e quando lui tenta di avvicinarla lo uccide al grido: “Questo è il bacio di Tosca!” e poi fugge con il salvacondotto.

Nell’atto terzo, Tosca incontra per un’ultima volta Cavaradossi a Castel Sant’Angelo e lo rassicura: non morirà. La donna gli mostra il salvacondotto firmato da Scarpia e gli confida di averlo ucciso.
Purtroppo, non ci sarà alcuna simulazione, Mario viene fucilato veramente e Tosca disperata e inseguita dagli sbirri, che hanno trovato Scarpia morto, si getta dagli spalti di Castel Sant’Angelo, dopo aver gridato “O Scarpia, avanti a Dio!!

“Messa da Requiem” di Verdi: grido di fede nel terrore della morte

Messa da Requiem”di Verdi grido di fede nel terrore della morte

La “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi è una composizione sacra per coro, voci soliste e orchestra, che il compositore ha dedicato ad Alessandro Manzoni e che esprime tutta l’angoscia e lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte.

La genesi della “Messa da Requiem” (1874) di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901) si colloca in un periodo in cui il musicista ha deciso di abbandonare la composizione per il teatro d’opera. Successivamente, sarà convinto a tornare a comporre altre opere, ma nel 1871, reduce dai grandi consensi ottenuti da Aida, Verdi si prende una lunga pausa dalle scene teatrali, pur continuando a comporre musica.

Il compositore accarezza da tempo il progetto di realizzare una Messa da Requiem.
Nel 1869, l’aveva addirittura proposta in occasione della morte di Gioachino Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 – Passy, 13 novembre 1868). La composizione avrebbe dovuto essere un collage realizzato da dodici musicisti. Per sé, Verdi aveva riservato la sezione conclusiva, il “Libera me”.
Purtroppo, questo interessante progetto, pensato per Bologna, fallì per motivi politico-economici, ma Verdi compose comunque il Libera me e successivamente, lo inserirà nella Messa da Requiem da lui composta nel 1874.

Fu la morte di Manzoni, il 22 maggio 1873, che spinse Giuseppe Verdi a rinnovare il suo proposito di una Messa per i morti, dopo il fallito progetto rossiniano.
La scomparsa dell’autore de “I promessi sposi” colpì profondamente il musicista che condivideva con Manzoni i valori risorgimentali, quali, libertà e giustizia, e come lui si era adoperato per l’Unità d’Italia.

Verdi si attivò per attuare il suo progetto già dal 3 giugno del 1873, rivolgendosi all’editore Ricordi: “vorrei dimostrare quanto affetto e venerazione ho portato e porto a quel grande che non è più e che Milano ha tanto degnamente onorato. Vorrei mettere in musica una Messa da morto da eseguirsi l’anno venturo per l’anniversario della sua morte. La Messa avrebbe proporzioni piuttosto vaste, ed oltre ad una grande orchestra ed un grande coro, ci vorrebbero anche […] quattro o cinque cantanti principali”.

Il Requiem fu offerto dal musicista alla città di Milano e la sua prima esecuzione si tenne nella Chiesa di San Marco, a Milano, il 22 maggio 1874. A dirigere la messa fu lo stesso Verdi, a interpretare le quattro parti solistiche furono: Teresa Stolz (soprano); Maria Waldmann (mezzosoprano); Giuseppe Capponi (tenore); Ormondo Maini (basso).
L’esecuzione ottenne un grandissimo successo e la fama della Messa superò rapidamente i confini nazionali.

La Messa era suddivisa in:
Requiem et Kyrie (quartetto solista, coro)
Dies Irae (coro)
Tuba Mirum (basso e coro)
Mors stupebit (basso e coro)
Liber Scriptus (mezzosoprano, coro)
Quid sum miser (soprano, mezzosoprano, tenore)
Rex tremendae (solisti, coro)
Recordare (soprano, mezzosoprano)
Ingemisco (tenore)
Confutatis (basso, coro)
Lacrymosa (solisti, coro)
Offertorium (solisti)
Sanctus (a doppio coro)
Agnus Dei (soprano, mezzosoprano, coro)
Lux Aeterna (mezzosoprano, tenore, basso)
Libera Me (soprano, coro)

L’organico, oltre ai quattro solisti e al coro misto, prevedeva: 3 flauti (3 anche ottavino); 2 oboi; 2 clarinetti; 4 fagotti; 4 corni; 4 trombe; 3 tromboni; basso tuba; timpani; grancassa; archi.

La Messa da Requiem di Verdi è ispirata ai temi fondamentali della spiritualità: dalla ricerca della fede alla paura della morte e di ciò che ci riserva l’aldilà.
Quando mette mano alla composizione il musicista sta attraversando una fase difficile della sua vita: si sente lontano dalla fede e i lutti che ha affrontato lo hanno spinto a porsi domande sulla morte e sul trascendente.

La Messa rispecchia nel suo insieme questa duplice condizione di ricerca della spiritualità e di scetticismo sulla questione della fede. Il risultato è un elevato messaggio espresso da una voce laica, perfettamente calata nel pensiero ottocentesco europeo, quella di un individuo che avverte la sua debolezza di fronte al mistero della morte. L’individuo che non ha le certezze della fede e neppure ancora il sostegno delle filosofie della vita e degli esistenzialismi.

Giuseppe Verdi con la sua Messa da Requiem afferma, tra i due estremi di coloro che credono e quelli che non credono o sono incerti e dubbiosi, la posizione dell’uomo lasciato a se stesso, privo della certezza della redenzione, solo di fronte al mondo vuoto della voce di Dio.
La grandezza di questa composizione è nel fatto che il musicista è riuscito a esprimere la posizione dell’individuo che terrorizzato dal nulla, cerca disperatamente una voce divina che lo rassicuri.
La Messa di Verdi rappresenta un interrogativo aperto sulle paure e sull’impossibilità di trovare un orientamento sicuro.

Verdi era un romantico e avvertiva sia il rischio della mancanza di fede sia il convenzionalismo cattolico.
Il suo rifiuto della fede è l’atteggiamento di chi non accetta il formalismo del falso credente, il rispetto pedissequo delle regole comportamentali e delle pratiche devote al fine di ottenere la salvezza.
Questo suo atteggiamento è un riflesso della decadenza morale, politica, strutturale che il musicista avvertiva attorno a sé.

Il desiderio di scrivere una Messa da Requiem in onore di Manzoni, nasceva in Verdi da una vicinanza verso lo scrittore milanese per il quale nutriva, sin dagli anni giovanili, una vera propria venerazione.
Verdi incontrò Manzoni il 21 maggio 1867 e attraverso il resoconto fatto da Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano, seconda moglie di Giuseppe Verdi) in una lettera di indirizzata a Clara Maffei (1814 – 1886; patriota e mecenate italiana) si avverte l’ammirazione che il musicista aveva per l’autore de “I promessi sposi”: “se poi andrai a Milano, ti presenterai a Manzoni. Egli t’aspetta, […] Pouff! Qui la bomba fu così forte ed inaspettata, che non seppi più se dovevo aprir gli sportelli della carrozza per dargli aria, o se dovessi chiuderli, temendo che nel parossismo della sorpresa e della gioia non mi saltasse fuori! È venuto rosso, smorto, sudato; si cavò il cappello, lo stropicciò in modo che per poco non lo ridusse in focaccia. Più (e ciò resti fra noi) il severissimo e fierissimo orso di Busseto n’ebbe pieni gli occhi di lagrime, e tutti e due commossi, convulsi, siamo rimasti dieci minuti in completo silenzio”.

Passando all’analisi musicale della Messa da Requiem di Verdi possiamo osservare, come prima cosa, che si tratta in sintesi di una riflessione sull’anima dopo la morte.
In tutta la composizione è tangibile il senso di umiltà dell’uomo che, angosciato dalla propria vita e dal dolore, si trova al cospetto di Dio.
L’intero Requiem è costellato di elementi ricorrenti e in generale, si può cogliere l’ambiguo oscillare tra un sentimento collettivo apocalittico e un ripiegamento intimistico.

Il Kyrie inizia sottovoce, simulando delle anime imploranti davanti a un giudice.
Il Dies irae è invece una sorta di esplosione musicale: l’orchestra esibisce un fortissimo, mentre il coro emette suoni strazianti e le grancasse sparano cannonate. Qui in particolare emergono il terribile giudizio e l’angoscia, e la potenza esibita da orchestra e coro, spinti al limite delle loro possibilità tecniche, servono a Verdi per illustrare musicalmente degli scenari apocalittici.

A queste sezioni si contrappone il lirismo del Recordare, un duetto tra soprano e mezzosoprano, una sorta di inno d’amore verso Gesù, e il Lux Aeterna, dove la luce emanata da Dio è espressa dal tremolo dei violini iniziale e dal canto del mezzosoprano, mentre basso, timpani e ottoni evocano l’idea che la punizione divina arriva per tutti.

In alcune sezioni, come il Kyrie eleison, il Recordare, l’Ingemisco e in alcuni versi del Lux Aeterna e del Libera me, Verdi dà voce al sentimento individuale, manifestato nella maniera più calorosa e di chiara derivazione operistica.

In altre parti della composizione, il musicista tiene vivo il sentimento musicale, lasciando però emergere una religiosità di sapore arcaico, prossima ai modelli della ritualità popolare, che si allontana temporaneamente sia dallo spirito prettamente operistico sia dalla rigida polifonia.
Alcuni esempi sono: il canto salmodiato (canto su una sola nota) del coro che apre l’introito; l’invocazione drammatica (libera me) del soprano; il canto monodico e austero dell’Agnus dei.

Nel Lacrimosa, invece, Verdi mette in risalto la disperazione, suggerita, sin dall’inizio, dagli archi che sembrano prodursi in un lamento.

L’unità costruita da Verdi nella Messa da Requiem è un sottile gioco di richiami delle medesime pulsioni.
Nell’arco dell’intera composizione si è sospinti e abbrancati dal primordiale; si oscilla tra il terrore del Dies Irae e il grido di fede del Libera me che fanno irruzione a più riprese nel tessuto musicale con una forza che resta invariata.

In copertina: particolare del ritratto di Alessandro Manzoni (lo scrittore al quale Verdi dedicò il Requiem) di Francesco Hayez (1841), Pinacoteca di Brera

Opera al nero #2. I Capuleti e Montecchi di Bellini: tragedie familiari

Opera al nero 2. I Capuleti e Montecchi di Bellini tragedie familiari

La vicenda di Romeo e Giulietta è stata origine di un proliferare di opere. Dalla letteratura alle scene, dalla pagina scritta alla pagina musicale, gli sfortunati amanti sono diventati una tra le coppie più famose e celebrate.
Vincenzo Bellini, compositore catanese, come molti altri, non ha resistito al fascino di questa famosissima e tragica storia d’amore.

Anche il travagliato amore tra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti si presta alla definizione di opera al nero: anche qui l’atmosfera da tragedia non disattende le attese.

I due infelici innamorati sono stati celebrati in ogni salsa. Dalla letteratura al teatro, la loro storia è rimbalzata fino al mondo del balletto (“Romeo e Giulietta”, Op. 64 di Sergej Sergeevič Prokof’ev,1891 – 1953) e, ovviamente, è transitata anche per l’opera.

In effetti, è impossibile che una vicenda che tratti di un amore epocale, condito da un retroscena (neanche troppo) sanguinoso, potesse sfuggire al mondo della lirica che ha sempre cercato trame in grado di destare i sentimenti e far lievitare le emozioni sino al loro massimo livello. Inoltre, nella storia di Romeo e Giulietta non mancano neppure inganni e sotterfugi, fughe e cripte sotterranee, veleni e colpi di spada che sono ugualmente benedette da impresari, librettisti e musicisti.

Diversi autori hanno pensato bene di rivestire di musica questa tragedia, ricordiamo il famoso dramma “Giulietta e Romeo” del compositore Nicola Antonio Zingarelli (1752 -1837; compositore italiano, esponente della Scuola musicale napoletana) su libretto di Giuseppe Maria Foppa (1760 – 1845; librettista italiano, autore di oltre 80 libretti realizzati tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento), tratto non dalla tragedia shakespeariana, bensì dalla novella cinquecentesca con il medesimo titolo scritta da Luigi da Porto (1485 – 1529; scrittore e storiografo italiano). L’opera, ritenuta il capolavoro di Zingarelli, fu composta in pochissimo tempo e fu eseguita per la prima volta durante la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala di Milano, il 30 gennaio 1796.

Altro compositore che si cimentò sulla vicenda degli sfortunati amanti è Nicola Vaccaj (1790 – 1848; compositore e insegnante italiano). Il libretto in questo caso è di Felice Romani (1788 – 1865; librettista, poeta e critico musicale, fra i più celebri e prolifici del suo tempo: scrisse circa un centinaio di libretti, per i massimi operisti italiani della prima metà dell’Ottocento).
Per la stesura, l’autore si basò su una tragedia di Luigi Scevola (1770 – 1818; drammaturgo italiano), tratta dall’omonimo lavoro di Shakespeare, e soprattutto, su un’ampia tradizione letteraria italiana, tra cui la “Novella IX” (La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’un di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti), contenuta nel novelliere di Matteo Bandello (1485 – 1561; vescovo cattolico e scrittore italiano del Cinquecento), nonché su un balletto ispirato ai due amanti veronesi, “Le tombe di Verona”, messo in scena a Milano nel 1820. Il testo così concepito è piuttosto lontano dalla tragedia di Shakespeare.
Il melodramma di Vaccaj andò in scena, per la prima volta, il 31 ottobre del 1825, al Teatro alla Canobbiana di Milano.

In ordine cronologico, altra opera che riprende la tragedia amorosa è “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini (Catania, 3 novembre 1801 – Puteaux, 23 settembre 1835). Il libretto su cui lavorò il compositore era un adattamento di quello di Romani, già utilizzato da Nicola Vaccaj.

Per la sua “Roméo et Juliette”, Charles Gounod (1818 – 1893), dopo un tentativo fallito sul libretto di Felice Romani, nel 1841, utilizzò il libretto in francese di Jules Barbier (1825 – 1901; poeta, scrittore e librettista francese) e Michel Carré (1821 – 1872; librettista francese), tratto da “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare (1564 – 1616).
La sua opera vide la luce nel 1865, dopo solo pochi mesi di lavoro, ma per vederla allestita al Théâtre Lyrique Impérial du Châtelet di Parigi, dove ottenne un successo immediato e duraturo, il musicista dovette attendere fino al 27 aprile 1867.

Tornando a Bellini, la sua opera, divisa in due atti, apparve in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo 1830 e fu un successo. Il libretto era di Felice Romani.
Il musicista compose “I Capuleti e i Montecchi” a tempo di record. Impiegò poco più di un mese, dalla fine di gennaio ai primi di marzo. Per accelerare i tempi, trasse molta della musica per il nuovo melodramma da un’opera da lui musicata l’anno precedente, che era stata un irrimediabile insuccesso: la “Zaira”. Inoltre, recuperò una romanza anche dalla sua opera d’esordio “Adelson e Salvini”.

Il materiale musicale “riciclato” fu comunque sottoposto da Bellini a un lavoro molto accurato di rielaborazione, affinché fosse adeguato ai personaggi mutati, così come ai versi e agli interpreti.
Anche in quest’opera, il compositore affidò le parti della coppia di protagonisti a due voci femminili.
Quindi, non stupitevi se andando a vedere quest’opera troverete un Romeo mezzosoprano “en travesti” (o “travesti”, personaggio che in un’opera teatrale o lirica è interpretato da un attore o cantante di sesso opposto). Questo tipo di soluzione era appropriata per la rappresentazione di un amore fra adolescenti.

Con “I Capuleti e i Montecchi” Bellini getta le basi da cui si evolverà la ricerca formale delle sue opere successive. Questo melodramma è andato spesso in scena, soprattutto perché la scrittura vocale non è particolarmente difficile e la drammaturgia è semplice, espressiva e fondata su una trama di sicuro interesse.
Per la notorietà, però, ci fu un prezzo da pagare. Per tutto il corso dell’Ottocento, l’opera subì ogni tipo di stravolgimento, a cominciare dalla “variazione” introdotta da Maria Malibran (1808 – 1836) che sostituì, in modo arbitrale, il duetto finale, che non consentiva una consona esibizione vocale, con il convenzionale finale dell’opera di Vaccaj.
Non mancarono stravolgimenti anche nel Novecento, in particolare con la scelta di affidare la parte di Romeo alla voce di un tenore.

Per quanto riguarda la genesi di quest’opera, dobbiamo tornare al 1829.
Bellini era a Venezia e stava seguendo alla Fenice la messa in scena del “Pirata”. Il teatro veneziano aveva in programma come terza opera della stagione un nuovo lavoro di Giovanni Pacini (1796 – 1867) che, sovraccarico di lavoro, alzò bandiera bianca, così il teatro si rivolse a Vincenzo, perché facesse le sue veci.
Il musicista accettò anche se era piuttosto dubbioso, a causa del poco tempo concesso per portare a termine il lavoro. Per accelerare il procedimento decise di usare lo stesso libretto di Romani, già impiegato da Vaccaj, ma operando qualche rimaneggiamento.

Fortunatamente, il libretto era perfetto per la compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione. Tra i cantanti ingaggiati spiccava il mezzosoprano Giuditta Grisi (1805 – 1840) alla quale il compositore diede la parte di Romeo.
Affidare il ruolo del giovane innamorato a una donna, in abiti maschili, era una consuetudine di lunga data e all’epoca di Bellini non costituiva una stranezza.
Romeo, affidato alla Grisi, faceva coppia con il soprano Rosalbina Carradori Allan (1800 – 1865) nei panni di Giulietta. Il tenore Lorenzo Bonfigli era Tebaldo, mentre il basso, Gaetano Antoldi, Capellio.
L’opera mandò in visibilio il pubblico veneziano. Il 26 dicembre dello stesso anno (1830) fu allestita al Teatro alla Scala di Milano con notevoli rimaneggiamenti, soprattutto per la nuova interprete nel ruolo di Giulietta, Amalia Schütz Oldosi (1803 – 1852), che era un mezzosoprano.

Diamo uno sguardo alla trama.
L’atto primo ci catapulta nella Verona del Duecento. La città è lacerata dalla faida tra la famiglia dei Capuleti, guelfi, e quella dei Montecchi, ghibellini. Il principale rappresentante dei Capuleti, Capellio (basso), padre di Giulietta, riunisce i suoi e li sprona a combattere gli avversari. Inoltre, comunica loro che i Montecchi, sostenuti da Ezzelino (Ezzelino III da Romano, 1194 – 1259, signore di Vicenza, Verona e Padova; ghibellino, sostenne l’imperatore Federico II), sono capitanati da Romeo, l’assassino di suo figlio, che vuole inviare un ambasciatore per proporre la pace. Lorenzo (basso), medico e familiare dei Capuleti, osteggiato dagli altri, suggerisce di ascoltare le parole del messaggero.

A capo della fazione guelfa c’è Tebaldo (tenore) che giura di uccidere Romeo, per vendicare la morte del figlio di Capellio che in cambio gli offre sua figlia in sposa. Le nozze saranno celebrate la sera stessa.
Lorenzo, però, sa che Giulietta è segretamente legata a Romeo e cerca di evitare il matrimonio, sostenendo che Giulietta è malata. Tebald, dal canto suo, non vuole far soffrire la promessa sposa. Si dice pronto a rinunciare alle nozze, ma il padre di Giulietta sostiene che la giovane sarà grata a chi vendicherà la morte del fratello.

Nel frattempo, sopraggiunge l’ambasciatore dei Montecchi a proporre la pace. Si tratta di Romeo che è tornato a Verona sotto mentite spoglie. Per ricomporre la faida tra le due famiglie, il giovane suggerisce di celebrare un matrimonio: tra Romeo e Giulietta. Capellio rifiuta, mentre Giulietta è disperata nella sua stanza per la sua sorte. Lorenzo le svela che Romeo è di nuovo in città, in incognito, e riesce a far incontrare i due giovani innamorati. Romeo esorta l’amata a fuggire con lui. All’inizio Giulietta rifiuta la proposta, poi si convince e si allontana con lui.

Nel frattempo, nel palazzo di Capellio si stanno preparando i festeggiamenti per le nozze tra Giulietta e Tebaldo.
Romeo si confonde tra gli invitati e avvisa Lorenzo che mille ghibellini armati sono giunti in città per sorprendere gli avversari. Lorenzo lo esorta a lasciare Verona e a rinunciare ai suoi piani.
Intanto, si sente un tumulto: i Montecchi hanno attaccato alcuni Capuleti.
I convitati scappano, Romeo si unisce ai suoi. Mentre il frastuono scema, giunge Giulietta vestita da sposa, in ansia per il combattimento. Romeo tenta ancora di farsi seguire da lei. Intanto, arrivano Tebaldo e Capellio, seguiti dai guelfi armati che scoprono Romeo, il quale riesce a fuggire grazie all’intervento dei suoi.

Nell’atto secondo, troviamo Giulietta da sola nella sua stanza. La battaglia prosegue, la ragazza è in ansia, poi scopre che Romeo è salvo. Purtroppo, però, il giorno successivo lei sarà condotta al castello di Tebaldo per convolare con lui a nozze.
Lorenzo le suggerisce uno stratagemma: ingerire un filtro che la farà sembrare morta; la ragazza beve, dopo alcuni istanti di esitazione. Subito dopo, giunge Capellio che obbliga la figlia a ritirarsi e a predisporsi all’imminente matrimonio. Successivamente, chiede a Tebaldo di sorvegliare Lorenzo, del quale non si fida più.

Romeo, ancora a Verona, sta cercando Lorenzo per avere notizie di Giulietta. Nel mentre, incontra Tebaldo che lo sfida a duello. I due sfidanti sono sul punto di battersi, quando giunge ai loro orecchi una musica funebre: è il corteo che conduce Giulietta alla tomba.
I due rivali sono presi da grande sconforto. Romeo si reca con i suoi nel luogo ove è sepolta Giulietta. Fa aprire la tomba e si rivolge all’amata. Fa allontanare i suoi e, invocando il nome di Giulietta, si avvelena. La giovane si risveglia e vede Romeo ai piedi del sepolcro, pensa l’abbia raggiunta, avvisato da Lorenzo della sua morte simulata. I due sfortunati amanti hanno appena il tempo di abbracciarsi un’ultima volta.
Romeo muore e Giulietta cade sopra di lui. Intanto, sopraggiungono i seguaci di Romeo, inseguiti dai Capuleti. Tutti si trovano davanti al sepolcro dove i due innamorati si sono tolti la vita. Di fronte a questa scena tragica, Capellio si sente responsabile per l’odio che ha diviso le due famiglie e che ha condotto alla morte dei due giovani.

In quest’opera Bellini fa ritorno al lirismo canoro, alle melodie morbide, romantiche e suadenti che si accordano alla perfezione con la storia messa in musica.
Ne “I Capuleti e i Montecchi” confluiscono espressività del canto, particolare cura per l’intonazione del testo poetico, equilibrio della strumentazione.

Degno di nota è il finale, in stile declamato, dove si assiste a un’alternanza tra recitativo accompagnato e arioso. Qui il compositore ha concentrato la sua attenzione, in particolare sui trapassi psicologici dei personaggi in scena, giungendo a esiti struggenti.
L’opera di Bellini fu accolta in modo controverso, in particolare, il finale rappresentava una novità per l’epoca e disorientò buona parte del pubblico. Inoltre, esso non rispondeva alle esigenze esibizionistiche di una prima donna. Infatti, già dalla rappresentazione di Firenze nel 1831, fu sostituito con quello più convenzionale di Vaccaj.

I Capuleti e i Montecchi fu una tra le opere più rappresentate durante l’Ottocento, nei teatri italiani ed europei.
A quest’opera di Bellini sono legati i nomi di alcuni dei più famosi cantanti dell’epoca: Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli.
Nel Novecento, l’opera fu rappresentata dapprima a Catania (1935), per il centenario della morte di Bellini, poi in altri teatri a iniziare dagli anni Cinquanta.
Attualmente, essa occupa un posto fisso nel repertorio dei teatri lirici.

In copertina: particolare del dipinto “Romeo e Giulietta” di Frank Bernard Dicksee (1884)

Opera al nero #1. Il trovatore di Verdi: vendetta tremenda vendetta

Opera al nero 1 Il trovatore di Verdi vendetta tremenda vendetta

Il trovatore di Verdi è un’opera dalle tinte fosche in cui sono disseminati eventi cruenti. Per questo fu criticata, ma a conti fatti, già alla prima assoluta a Roma, ottenne un grande successo.

Avete mai notato che numerosi libretti d’opera potrebbero far impallidire uno scrittore di noir?
Sono davvero molte le opere liriche, dove dietro i gorgheggi dei cantanti si nascondono azioni efferate, violenze di vario genere, omicidi, suicidi, rapimenti, duelli mortali, femminicidi, tentati stupri, ricatti, esecuzioni capitali, raptus di gelosia e morte.
Note in stile di cronaca nera non mancano di certo nelle storie più gettonate del teatro musicale. Basti pensare alla trama di alcune delle più famose, come: Capuleti e Montecchi, Rigoletto, Turandot, Madama Butterfly, Cavalleria rusticana, Pagliacci, Tosca, Carmen, e così via.
Tra i così via, rientra anche “Il trovatore”, opera musicata da Giuseppe Verdi (1813 – 1901; compositore e senatore italiano, considerato uno dei più grandi operisti di tutti i tempi), che fu criticata per la prevalente atmosfera cupa e per il numero dei morti, ma il compositore, in una lettera indirizzata a Clarina Maffei (Elena Chiara Maria Antonia Carrara Spinelli, 1814 – 1886; patriota e mecenate italiana), a sua discolpa osservò: “infine nella vita non è tutto morte?

Verdi si getta nell’impresa di questa nuova opera con grande entusiasmo, reduce dal successo strabiliante ottenuto da “Rigoletto”. Ed è proprio lui a proporre, in una lettera del 18 marzo 1851, indirizzata all’impresario di Bologna, Alessandro Lanari (1787 – 1852; fu uno dei più influenti impresari italiani dagli anni ’30 ai primi anni ’50 dell’Ottocento), la stesura di una nuova opera.
Il libretto, secondo i desideri del compositore, dovrà ispirarsi a “El Trovador” di Antonio García Gutiérrez (1813 – 1884), drammaturgo romantico spagnolo che seguiva le orme di Victor Hugo (1802 – 1885; scrittore, poeta, drammaturgo e politico, ritenuto il padre del Romanticismo in Francia).

L’opera di Gutiérrez non è di certo un capolavoro drammaturgico, piuttosto un melodramma tronfio e squinternato, dove si susseguono singolari incidenti e le unità aristoteliche sono spesso bellamente accantonate.

La vicenda spazia tra amore e vendetta e l’accento principale è posto sui due personaggi femminili: Leonora, gentildonna profondamente religiosa e con rigidi ideali, che per amore sprofonderà in un abisso morale e infine si suiciderà, e Azucena, una vecchia zingara, desiderosa di vendicare sua madre, che finirà per distruggere l’unico essere al mondo che ama.

Del dramma di Gutiérrez non è stata rinvenuta alcuna traduzione in italiano e ancora ci si chiede come abbia fatto Giuseppe Verdi a venirne a conoscenza.
In effetti, cantanti o compositori amici del musicista spesso gli inviavano nuovi drammi e probabilmente, anche questo testo potrebbe essere arrivato fra le sue mani in questo modo. A tradurlo, comunque, sembra abbia provveduto Giuseppina Strepponi (1815 – 1897; soprano italiano, seconda moglie di Giuseppe Verdi).

Il libretto dell’opera fu affidato a Salvadore Cammarano (1801 – 1852; librettista e drammaturgo per musica) che Verdi, attratto singolarmente dal valore della “parola scenica”, apprezzava molto, perché non temeva gli argomenti inconsueti ed era in grado di descrivere l’atmosfera di una scena mediante un nucleo verbale attentamente studiato.

Il testo che Verdi si apprestò a rivestire di musica fu strutturato in quattro parti e otto quadri.
Quando il libretto era pressoché completo, Verdi intravide delle modifiche da apportare in alcune parti del testo, ma Cammarano morì improvvisamente. Il musicista venne a sapere della sua morte da un giornale teatrale.
Addolorato per la perdita e al contempo preoccupato per le sorti della sua opera, si rivolse al suo amico Cesare De Sanctis (1824 – 1916; compositore, direttore d’orchestra e trattatista italiano) che gli suggerì quale sostituto di Cammarano, il poeta Leone Emanuele Bardare (1820 – dopo il 1874) che fu davvero onorato di poter lavorare con il grande compositore.

Finalmente, nel 1853, il 19 gennaio, Il trovatore, giunto a compimento, fu rappresentato in prima assoluta, al Teatro Apollo di Roma. Fu un grande successo: dal teatro romano, l’opera iniziò una vera marcia trionfale. Con Il trovatore, Verdi riuscì a toccare il cuore del suo pubblico e all’epoca, fu tra le sue opere quella sicuramente più amata.

Addentrandoci nelle pagine del libretto, scopriamo che la storia de Il trovatore assomiglia alla trama di una telenovela dalle tinte fosche. L’intreccio è complesso e dai risvolti cruenti.
La vicenda ruota attorno a Leonora, dama di compagnia della principessa d’Aragona, al conflitto tra i suoi due pretendenti (Manrico, il trovatore e il conte di Luna) e a una vendetta che affonda le sue radici nel passato.

La storia è ambientata in Biscaglia (provincia della comunità autonoma dei Paesi Baschi, nella Spagna settentrionale) e in Aragona (comunità autonoma e nazione storica del nord-est della Spagna), all’inizio del Quattrocento.

Nella parte prima, veniamo catapultati nel castello dell’Aljafería di Saragozza e veniamo a sapere che il conte di Luna è innamorato di Leonora che però, non lo ricambia. Mentre lui soffre per amore, Ferrando, il capitano delle sue guardie, racconta la tragica storia del fratello minore del conte. Ancora in fasce, fu rapito da una zingara che voleva vendicare sua madre, giustiziata dal precedente conte, perché si riteneva fosse una strega. La donna aveva gettato il bambino nello stesso rogo in cui era morta sua madre.

Intanto, Leonora confida alla sua ancella il suo amore per un misterioso trovatore di cui non conosce il nome, ma che ogni notte canta per lei una serenata col suo liuto. La giovane lo ha conosciuto a un torneo.
Il conte di Luna ha ascoltato di nascosto le parole di Leonora e poi sente il suo avversario cantare per la sua amata. La giovane esce e nell’oscurità confonde il conte di Luna con l’uomo che ama.
Il trovatore, sopraggiunto, li coglie abbracciati e si sente tradito, ma Leonora gli giura il suo amore, scatenando l’ira del conte che sfida a duello il suo avversario, costringendolo a rivelare la sua identità.
Il nome del trovatore è Manrico, seguace del ribelle conte di Urgel, nemico del conte di Luna. Mentre i due uomini si allontanano per sfidarsi a duello, Leonora sviene.

Nella parte seconda, siamo ai piedi di un monte, in un accampamento di zingari che cantano e ballano.
Azucena, madre di Manrico, si risveglia dal suo consueto incubo e racconta di quando vide morire sua madre sul rogo. La donna la implorava di vendicarla, così Azucena aveva rapito il figlio del conte e lo aveva gettato nel fuoco, ma sgomenta e confusa, di fronte alla orribile morte della madre, aveva per errore ucciso suo figlio invece che quello del conte.

In seguito a tale racconto, Manrico nutre dubbi sulla sua vera identità, ma Azucena lo rassicura e gli ricorda che lei lo ha sempre protetto e curato, anche quando il giovane è tornato all’accampamento ferito, in seguito al duello con il conte. A questo proposito, Manrico racconta alla madre che avrebbe potuto uccidere il conte, ma una voce dal cielo gli ha fermato la mano. La zingara lo spinge a portare a compimento la vendetta, uccidendo il suo rivale.
Intanto, il conte ha diffuso la voce che Manrico è morto, certo di conquistare Leonora, ma la giovane invece, decide di prendere i voti. Il conte contrariato irrompe alla cerimonia di ordinazione e tenta di rapire Leonora, a quel punto, però, giunge Manrico che porta in salvo la sua amata.

Parte terza, il castello è in mano agli uomini di Urgel, i soldati del conte di Luna sono nei paraggi, in attesa di riconquistare il castello.
Ferrando cattura una zingara e dopo averla condotta davanti al conte di Luna, la riconosce; la donna confessa di essere colei che ha rapito e ucciso il fratello del conte, e afferma di essere la madre di Manrico. Il conte gioisce, finalmente avrà una doppia vendetta: per il fratello e anche su Manrico che gli ha sottratto Leonora.
Nel frattempo, nel castello, Manrico e Leonora stanno per sposarsi in segreto, ma la cerimonia è interrotta dall’annuncio che Azucena è stata catturata e a breve sarà bruciata viva. Manrico molla tutto e parte in soccorso della madre.

Nella quarta e ultima parte, il trovatore è imprigionato nel castello dell’Aljafería. Lui e sua madre saranno giustiziati all’alba.
Leonora va alla torre dove i due sono prigionieri e supplica il conte di lasciare libero Manrico, in cambio lei lo sposerà. In realtà, la giovane non intende mantenere fede alla sua promessa: medita invece di avvelenarsi prima di concedersi.
Il conte accetta la proposta e Leonora chiede di poter dare all’amato la notizia della sua liberazione, ma prima di entrare nella torre, beve il veleno. Intanto, Manrico cerca di confortare sua madre che alla fine, stremata si addormenta. Giunge Leonora che dice al trovatore di mettersi in salvo, ma quando il giovane capisce che lei non andrà con lui, decide di non fuggire. L’uomo crede che per concedere a lui la libertà la ragazza l’abbia tradito, ma Leonora, prima di morire, gli confessa di essersi avvelenata, proprio per non farlo.

Il conte assiste di nascosto alla confessione di Leonora e, furioso per ciò che ha scoperto, ordina di giustiziare il trovatore. Quando la zingara si risveglia, il conte gli indica suo figlio morente. La donna disperata gli rivela che Manrico era in realtà suo fratello; il conte è sconvolto, a quel punto, Azucena si pugnala a morte e grida: “Sei vendicata, o madre!”

In copertina: manifesto “Il trovatore”, incisione a colori

Appuntamento con la musica classica: 3 Sonate per piano e violino

Appuntamento con la musica classica 3 Sonate per piano e violino

Il 22 settembre all’Auditorium “Marini” di Falconara Marittima si terrà un concerto di musica classica.
Sonate di Mozart, Beethoven e Saint-Saëns per violino e pianoforte saranno eseguite da due interpreti d’eccezione: Davide Alogna e Martina Giordani.

Il 22 settembre Davide Alogna al violino e Martina Giordani al pianoforte ci intratterranno con delle sonate brillanti e tecnicamente molto impegnative.
Grazie a loro, passeremo dalla leggerezza arguta e raffinata delle note di Mozart, all’energia delle costruzioni razionali e appassionate di Beethoven, fino ad approdare alla levigatezza e alle fantastiche elaborazioni tematiche di Saint-Saëns.

Il programma della serata prevede l’esecuzione di tre brani:

In attesa del concerto esploriamo le composizioni che verranno eseguite, spaziando dalla loro realizzazione a qualche cenno sulla loro struttura.

Sonata n. 18 in Sol maggiore K 301

Il primo brano a essere eseguito è la “Sonata n. 18 in Sol maggiore K 301” di Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791), composta nel marzo del 1778, a Mannheim (Germania) e denominata “Palatina”, come le altre quattro dell’Opus 1, dedicate a Elisabetta Maria Aloisia Augusta (1721 – 1794), moglie dell’elettore del Palatinato, Carlo Teodoro di Wittelsbach (1724 – 1799).

Nell’agosto del 1777, Mozart era partito con sua madre da Salisburgo, alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Dapprima fu ad Augusta, poi a Mannheim, a Parigi e infine a Monaco di Baviera.
A Mannheim, il musicista fu ispirato dal clima fecondo della città e compose cinque sonate per violino. La sua musica trasse notevoli vantaggi da questo soggiorno, ma purtroppo, non riuscì nel suo intento di trovare un impiego in città, così il 14 marzo 1778 partì alla volta di Parigi.

La Sonata n. 18 K 301 vide la luce poco prima della partenza per la capitale francese, dove fu poi stampata. Essa è suddivisa in due soli movimenti (Allegro con Spirito e Allegro). Tale scelta si rifà a una tradizione antecedente che considerava questo tipo di composizioni dei duetti stringati e sobri fra pianoforte e violino (in certi casi sostituito dal flauto).

Nelle composizioni mozartiane per pianoforte e violino degli anni 1763-64 il pianista (o cembalista) aveva un ruolo preminente, mentre al violino era assegnato un ruolo secondario. Queste “sonate con accompagnamento d’un violino” erano molto diffuse in tutta Europa e rispondevano alle richieste sempre più considerevoli dei dilettanti. A coltivarle, in particolare, erano musicisti come: Johann Schobert (c. 1720, 1735 or 1740 – 1767), Johann Christian Bach (1735 – 1782) e Muzio Clementi (1752 – 1832).

La Sonata K 301 è diversa dalle sue antecedenti, essa appartiene a una nuova fase della parabola compositiva di Mozart sia per il ruolo paritario che il musicista conferisce a entrambi gli strumenti sia per l’abile contrappunto che disciplina le sovrapposizioni delle loro voci.

Il primo Allegro della Sonata K 301 ha un impianto classico tripartito. Ai due tempi principali (tonica e dominante) sono affiancati degli spunti secondari. Lo sviluppo tematico è vivacizzato da cromatismi e inversioni.
In questo primo movimento è il violino a detenere il ruolo principale, mentre il pianoforte si farà sentire solo più avanti, svolgendo il tema principale e dando vita a un dialogo vivace con varie iniziative melodiche.
La varietà in questo movimento proviene dall’abbondanza dell’inventiva di Mozart nel creare temi e dalla sua capacità di suddividere equamente l’interesse melodico tra i due esecutori che si alternano nel proporre il tema o nel ruolo di accompagnatori.

Il secondo movimento, un Allegro in 3/8, ha la forma di rondò variato, dal sapore francese, caratterizzato da una grande naturalezza di idee che sgorgano spontanee, richiamando lo stile di Franz Joseph Haydn (1732 – 1809).
Mozart ha impiegato motivi vivaci e popolari che fanno da cornice alla parte centrale che, per creare una varietà, si muove in una tonalità minore.

La scelta del violino, quale comprimario in una sonata, per Mozart fu quasi una scelta obbligata, infatti, il musicista, oltre al pianoforte e all’organo, suonava anche il violino. Inoltre, il suo incarico di Konzertmeister a Salisburgo comprendeva, oltre alla direzione d’orchestra, anche il ruolo di primo violino.

Per quanto riguarda invece lo stile delle sonate, sappiamo che, nell’autunno del 1777, a Monaco, Mozart conobbe i duetti per clavicembalo e violino di Joseph Schuster (1748 – 1812) e al padre scrisse: “Non sono cattivi se mi fermerò, ne scriverò io stesso nel medesimo stile, dato che essi sono molto popolari quaggiù“.
Ed è proprio quello che fece, creando qualcosa di diverso.

Sonata per pianoforte e violino in La maggiore n. 9, op. 47

Il secondo brano in programma è la “Sonata per pianoforte e violino in La maggiore n. 9, op. 47” di Ludwig van Beethoven (1770 – 1827), più conosciuta come “Sonata a Kreutzer”.
Fu composta tra il 1802 e il 1803 e pubblicata nel 1805, con una dedica al violinista e compositore francese Rodolphe Kreutzer (1766 – 1831).

Questa Sonata ha una durata di circa 40 minuti; è la più lunga e difficile fra le composizioni realizzate da Beethoven per violino e fu scritta piuttosto in fretta.
Lo stile utilizzato dal compositore è concertante, ai due strumenti è dato identico peso e l’obiettivo del musicista era quello di introdurre elementi di conflitto dinamico, in quello che era il genere più prettamente da salotto.
Le novità presenti in quest’opera sono tali da infrangere le regole delle sonate per pianoforte e violino. Questo brano, dallo stile brillante e quasi da concerto, rappresenta l’inizio di un nuovo percorso per Beethoven.

La sonata è suddivisa in tre movimenti:

  • Adagio sostenuto – Presto – Adagio – Tempo I
  • Andante con variazioni I-IV
  • Finale. Presto

Inizialmente, questa Sonata aveva una dedica diversa. Beethoven voleva farne omaggio al suo amico, nonché virtuoso di violino, George Augustus Polgreen Bridgetower (1779 – 1860), che eseguì insieme al compositore, per la prima volta in assoluto la Sonata, il 24 Maggio 1803, a Vienna, nella sala da concerti dell’Augarten (un caffè del Prater).

Beethoven compose la Sonata op. 47 tra il 1802 e il 1803 e come prima cosa scrisse il finale, mentre i primi due tempi furono realizzati nel 1803.
Il carattere “brillante” o “molto concertante” di questa composizione sembra dipendere proprio da Bridgetower. Il violinista aveva un padre nero (un lacchè del principe Esterhàzy) e madre tedesca; aveva studiato composizione con Haydn e poi era andato in Inghilterra, dove era diventato violinista del principe di Galles.

Nel 1802, Bridgetower si esibì a Dresda e poi giunse a Vienna. Era un esecutore che si faceva notare. Le sue esibizioni erano ardite e stravaganti, e sicuramente, Beethoven rimase colpito dal suo modo di suonare.
A titolo di curiosità, sappiamo che il violinista non ebbe il tempo di studiare le variazioni dell’op. 47, perché il compositore le finì solo alla vigilia del concerto, quindi, Bridgetower dovette arrangiarsi a leggere la parte del violino sul manoscritto e, durante la prova, improvvisò due cadenze virtuosistiche che spinsero Beethoven ad abbracciarlo.

Bridgetower, quindi, si era meritato sotto tutti i punti di vista la dedica della Sonata. Ma quando Beethoven la pubblicò, il dedicatario divenne Kreutzer che il compositore conobbe nel 1798, all’ambasciata francese di Vienna, e che ammirava per “la sua semplicità e naturalezza”.
Diversi anni più tardi, Bridgetower sostenne che questo mutamento di intenti da parte di Beethoven fosse dovuta a una controversia amorosa sorta tra loro: entrambi si erano innamorati di una donna che però aveva scelto Bridgetower. Questa dichiarazione fu riportata dal direttore del “Musical World”, J. W. Thirlwall, nel suo giornale, il 4 dicembre 1888, ma il violinista era morto nel 1860, per cui la singolare rivelazione, non confermata da altre fonti, potrebbe essere solo un’abile trovata giornalistica.
Quello che è certo è che Rodolphe Kreutzer non suonò mai la Sonata op. 47, perché la riteneva “outrageusemente inintelligible” (scandalosamente incomprensibile), e altrettanto fecero altri violinisti, per lo meno in pubblico – delle esecuzioni private si sa ben poco.

Anche uno dei più autorevoli periodici del XIX secolo, l’ “Allgemeine musikalische Zeitung” (Giornale musicale generale) sostenne che, il compositore avesse “spinto la ricerca dell’originalità fino al grottesco” e definiva Beethoven addirittura come “l’adepto di un terrorismo artistico”.

La Sonata ottenne una meritata popolarità dalla seconda metà del secolo, dopo che fu eseguita da Joseph Joachim (1831 – 1907; violinista, direttore d’orchestra, compositore e insegnante ungherese) e Clara Schumann (1819 – 1896; pianista e compositrice tedesca).
L’ultimo passo verso la notorietà per la composizione di Beethoven fu compiuto grazie alla letteratura. Nel 1889, Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) pubblicò il romanzo breve, “Sonata a Kreutzer”; lo scrittore russo pare apprezzasse solo il primo tempo della composizione, perché fa affermare al suo protagonista che, il secondo tempo è “bello ma comune e non nuovo, con ignobili variazioni”, mentre il terzo è “assolutamente debole”.

Beethoven creò la Sonata op. 47 in un periodo in cui si stava dedicando in modo particolare alla sperimentazione, soprattutto delle forme; non uscì dagli schemi della tradizione, ma ne dilatò le dimensioni architettoniche. Basti pensare al primo tempo che è composto da ben 601 battute (776 con il ritornello dell’esposizione), un numero davvero elevato per quei tempi e per i suoi contemporanei.
Oltre alle nuove dimensioni, nella sonata Beethoven utilizza per la prima volta un’introduzione in movimento lento che aveva già adottato nelle Sonate per pianoforte e per pianoforte e violoncello, ma non ancora nelle Sonate per pianoforte e violino.

Inoltre, questa Sonata detiene un posto particolare rispetto alle altre Sonate non solo per le proporzioni, ma anche per il rapporto esistente fra i due strumenti e per le ambizioni espressive.
Già nelle prime Sonate violinistiche, Beethoven, seguendo Mozart, aveva conferito al violino un ruolo alla pari con il pianoforte, ed entrambi gli strumenti sono concepiti come entità contrapposte, con un’evidente individualità. Il contenuto espressivo, però, era ancora “disimpegnato” e volto all’intrattenimento. Diversa è la situazione della Sonata op. 47, dove il compositore mette in atto nuove ambizioni.

Introduzione e Rondò Capriccioso op. 28

Il terzo brano della serata è una composizione del 1863 di Camille Saint-Saëns (1835 – 1921), “Introduzione e Rondò Capriccioso op. 28”. La sua prima esecuzione avvenne a Parigi, al Théâtre des Champs-Élysées il 4 aprile 1867.
Inizialmente, il compositore la concepì come un movimento conclusivo, da introdurre in un’opera più ampia e solo successivamente diventò un brano autonomo.
Saint-Saëns fu un protagonista del secondo romanticismo francese, eppure guardò sempre con diffidenza all’estetica romantica, mentre la sua ammirazione andava alle regole classiche di costruzione e difatti, le sue opere in generale sono dotate di chiarezza e ordine, pur essendo profondamente innovative nel panorama della musica francese.

L’opera 28, però, è un’eccezione, in quanto si rifà al filone più brillante ed estroverso dell’età romantica.
Primo esecutore e dedicatario del brano fu il violinista Pablo de Sarasate (1844 – 1908) che all’epoca era agli inizi della sua carriera. Fu il talento di Saraste a ispirare a Saint-Saëns la sua composizione che infatti, presenta chiare allusioni stilistiche spagnoleggianti, in particolar modo nel rondò.

Il brano fu stampato nel 1875, nella sua versione originale per violino concertante e orchestra da Durand (Marie-August Durand, 1830 – 1909; editore e critico musicale, e organista), mentre già nel 1870, Georges Bizet (1838 – 1875) si era occupato di tradurlo per violino e pianoforte; questa versione nel tempo divenne molto popolare. Anche Claude Debussy (1862 – 1918) fu conquistato dal brano di Saint-Saëns, tanto da studiarne una trascrizione per due pianoforti, tra il 1889 e il 1890.

L’opera 28 si compone di due movimenti: Andante malinconico, l’Introduzione; Allegro ma non troppo, il Rondò.
L’Introduzione ha un umore riflessivo; il violino espone una melodia malinconica e cantabile e il movimento si chiude con una breve cadenza brillante.
Il Rondò propone il tema principale caratterizzato da un motivo in tempo di habanera, scattante e brillante, vivacizzato da abbellimenti e spostamenti di accento.
Il ricorso al folklore spagnolo diventò di moda e fu assunto come uno degli elementi base del violinismo della seconda metà del secolo. Questo motivo brillante si alterna a episodi diversificati che spaziano dal lirismo a raffinati espedienti tecnici. Entrambi gli strumenti assumono a turno il ruolo di guida melodica o di accompagnamento. La conclusione è affidata a una brillante e trascinante coda.

Valentina Ciardelli e il contrabbasso, questo sconosciuto

Valentina Ciardelli e il contrabbasso, questo sconosciuto

Nella magnifica cornice della terrazza del museo archeologico di Ancona, ieri sera, 26 luglio, un pubblico attento e nutrito ha assistito a un bellissimo concerto per contrabbasso solo.

Volevo ascoltare questo concerto non appena ho visto la locandina che lo pubblicizzava.
Già l’immagine scelta per promuoverlo mi aveva colpito e al contempo, ero estremamente curiosa di assistere a un’esecuzione che abbinava uno strumento come il contrabbasso (che io ho trovato sempre intrigante) e un’esecutrice femminile.

Ero anche incuriosita dall’idea di ascoltare un concerto dall’inizio alla fine eseguito su uno strumento così particolare che, solitamente, non occupa un posto di primo piano, nonostante io abbia sempre ritenuto il contrabbasso uno strumento estremamente affascinante, sia nella musica classica sia nel jazz.

A volte, un po’ relegato in ruoli di secondo piano, immeritatamente, perché, la “voce” del contrabbasso è così particolare, e la sua stessa presenza fisica, a parer mio, ne fanno un personaggio di primo piano, un protagonista.

Per quanto riguarda la solista che si è esibita ieri sera ad Ancona, non sono di certo rimasta delusa. Valentina Ciardelli ha conquistato tutti con la sua bravura e la sua simpatia.
Certamente, decidere di affrontare un pubblico da sola con uno strumento come il contrabbasso è un atto coraggioso, perché non siamo abituati a isolare la sonorità di questo strumento da quella degli altri elementi di un’orchestra o magari di un gruppo jazz, tranne che per brevi momenti di assolo, inclusi però in una composizione più ampia, dove il contrabbasso è solo uno dei tanti personaggi di un brano musicale.

Coraggioso e anche difficile il ruolo che si è ritagliata Valentina Ciardelli che ha fatto centro anche sulla scelta dei brani: un percorso variegato, dove ha brillato non solo la sua capacità interpretativa, ma anche la sua abilità di trascrittrice.

Espressiva in ogni passaggio, non solo musicalmente: le espressioni del suo volto e i gesti mostravano un grande coinvolgimento che è arrivato dritto anche al pubblico presente.

Personalmente, ho apprezzato moltissimo il brano di Emil Tabakov “Motivy”, ma anche il resto del programma non era da meno.

Sono perfettamente d’accordo poi, con le parole della Ciardelli che ad apertura concerto ha affermato che la cultura va preservata, perché è una parte importante della nostra vita, un segno distintivo dell’essere umano e per questo, deve essere coltivata e ancor più divulgata senza sosta, se non vogliamo perdere una parte fondamentale della nostra umanità.