Un evento d’eccezione per i trent’anni del premio Tiberini

Sabato 25 novembre 2023 a San Lorenzo in Campo (PU) si è tenuta la XXX edizione del Premio lirico internazionale Mario Tiberini.

Quest’anno al tradizionale prestigio dell’evento si è aggiunta una singolare novità, che ha reso irripetibile l’appuntamento musicale. Si tratta dell’esecuzione e relativa registrazione in prima mondiale assoluta delle musiche ritrovate da Giosetta Guerra, biografa del tenore Tiberini, composte dal tenore stesso, da suo figlio e da musicisti dell’epoca che le hanno dedicate al tenore.

Nell’accogliente cornice del Teatro Tiberini, in un clima familiare, abbiamo assistito all’esecuzione di 19 brani. Queste eccezionali chicche sonore sono il risultato del lavoro certosino fatto da Giosetta Guerra, che, grazie a una laboriosa attività di ricerca, è riuscita a raccogliere queste musiche inedite per proporle nell’edizione di quest’anno del premio a un folto e interessato pubblico.

Chi, come me, ha assistito allo spettacolo ha potuto appurare che Mario Tiberini (San Lorenzo in Campo 8 settembre 1826 – Reggio Emilia 16 ottobre 1880), non è da celebrare solo per la sua carriera di talentuoso tenore, conteso da tutti i più importanti teatri, ma anche per la sua valenza compositiva.
I brani sono inni, marce militari, stornelli patriottici, ma anche arie da camera di stampo sentimentale. In pratica, in queste composizioni emerge con chiarezza l’impegno politico di Tiberini, che aveva particolarmente a cuore la causa italiana, infatti la sua vita artistica si è saldamente intrecciata alla storia del Risorgimento italiano.

Il nutrito e piacevole programma è stato il seguente:

  1. Speranza Polka (musica di Mario Tiberini padre) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  2. Stornelli patriottici (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  3. Inno ginnastico (musica di Mario Tiberini padre) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
    insieme al coro Jubilate
  4. Improvvisata (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  5. Il mio bambino lontano (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Francesca Carli
  6. La fata (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  7. Beatrice polka (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  8. Ai fiori (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  9. Di notte – marcia (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  10. Brano per banda “Alla regina Margherita” (musica di Mario Tiberini figlio) eseguito dal gruppo musicale Tiberini, diretto dal Maestro Daniele Bianchi
  11. Dammi un bacio (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  12. Povero amore (musica di Luigi Luzzi) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
  13. Desiderium (musica di Luigi Luzzi) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  14. Stornello d’amore (musica di Domenico Lucilla, primo maestro di canto di Tiberini) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  15. Mio povero amor (musica di Bonamici) cantato dal soprano Anna Caterina Cornacchini
  16. Serenata d’un angelo (musica di Luigi Mancinelli) cantato dal tenore Enrico Giovagnoli
  17. Elegia (musica di Bernardi) eseguito al pianoforte dal Maestro Lorenzo Bavaj
  18. Amore (musica di Gaetano Palloni) duetto eseguito dal tenore Enrico Giovagnoli e dal soprano Francesca Carli
  19. Wedding flowers (musica di Mario Tiberini padre) eseguito da Giovanni Scaramuzzino alla chitarra e da Francesco Scaramuzzino al mandolino

Gli interpreti della serata hanno messo in mostra tutte le loro qualità espressive e le loro capacità tecniche.
I brani eseguiti rientravano appieno nel repertorio del belcanto ottocentesco e, pur essendo composizioni di autori non particolarmente noti al grande pubblico, non erano scevri di eleganza e bellezza.
Inoltre, a un ascolto attento, si poteva rilevare che dietro le venature romantiche erano celate notevoli insidie per gli esecutori che hanno superato brillantemente ogni scoglio, lasciandosi trasportare dal pathos dei versi, mettendone in luce le singolarità e cogliendo puntualmente con l’espressione vocale via via i momenti drammatici, quelli gioiosi o giocosi.
In vari brani è emerso anche lo spirito risorgimentale, così come non sono mancati momenti più spensierati o appassionati afflati amorosi.

Il maestro Bavaj si è brillantemente espresso nei brani solistici e come accompagnatore dei cantanti.
I brani solo strumentali sono stati eseguiti in modo impeccabile, lasciando trapelare ogni intento dei vari compositori, mentre i brani di sostegno alle esibizioni vocali hanno visto un accompagnamento puntuale in cui voci e strumento si fondevano o si scambiavano i ruoli in una perfetta e armonica simbiosi.

Piacevole l’esecuzione della banda e del duo Scaramuzzino, padre e figlio (proprio come i Tiberini) che hanno chiuso il gradevolissimo spettacolo musicale.

Alla fine del concerto è stato consegnato il Tiberini d’oro al tenore Enrico Giovagnoli, “per rievocare di Tiberini vocalità e sembianze e per applicare arte scenica e canora all’opera lirica e ad altri generi musicali”.

Per concludere, aggiungo che la serata è stata impreziosita tra un brano e l’altro dagli interventi di Giosetta Guerra che ha raccontato in modo coinvolgente interessanti notizie sulla vita di Tiberini e sulla sua attività.
Da rilevare anche le “intrusioni” in veste di narratore/presentatore di Marcello Moscoloni, che ha introdotto i brani e anticipato i testi, successivamente cantati dai solisti.

Lo spettacolo si è concluso con il saluto di tutti gli artisti e gli organizzatori comprese le autorità sotto una pioggia di fiori e cuori.

Opera al nero #3. Tosca di Puccini: un crimine tira l’altro

Opera al nero Tosca di Puccini un crimine tira l’altro

“Tosca” di Giacomo Puccini ha tutti gli ingredienti per essere una storia “nera”. Nell’agile e drammatica trama si avvicendano diversi eventi tragici, tra cui un omicidio e un suicidio.

Proseguendo sulla scia delle opere al nero possiamo includere anche il capolavoro di Giacomo Puccini (1858 – 1924; compositore italiano, ritenuto uno dei maggiori e più significativi operisti di tutti i tempi), “Tosca”, anche qui gli atti criminosi e i gesti disperati certamente non difettano. Infatti, nel corso dell’opera assistiamo a un ricatto, a un tentato stupro, a un omicidio, a un’esecuzione per fucilazione e infine, a un suicidio.

E voi vi chiederete, c’è spazio per altro, dopo questa carrellata di disgrazie e violenze?
Sì, c’è spazio per una storia d’amore e qualche tocco di ambientazione storica.
In realtà, ciò che predomina in quest’opera di Puccini, al di là dei tragici eventi, è l’amore tra Tosca e Mario Cavaradossi; attorno alla loro relazione appassionata è costruita l’intera vicenda.

Puccini come Verdi sceglieva con cura i testi che intendeva musicare.
L’intreccio doveva essere avvincente e scorrevole e al contempo, suscitare forti emozioni sulle quali il musicista potesse poggiare e modellare i suoi impianti sonori, fondendo note, parole e azione in una perfetta drammaturgia.

I libretti delle opere liriche, quelle definite “serie” nel XVIII secolo, sono spesso incentrati su un triangolo amoroso (o anche più di uno), composto da due figure maschili tenore e baritono/basso e una figura femminile (soprano).
Dalle relazioni conflittuali tra queste tre figure scaturisce l’azione del dramma.
Semplificando, diremo che la storia d’amore, che in genere coinvolge il tenore e il soprano, sarà immancabilmente contrastata dal baritono/basso.

Questo schema triangolare ha incontrato molta fortuna nell’opera e compare in varie salse, calato in diverse ambientazioni e gestito con motivazioni conflittuali sempre diverse, tutte, però, condite di bellissima musica.
Puccini nella Tosca, ovviamente, non rinuncia al collaudato triangolo che qui vede impegnati: Floria Tosca (soprano), Mario Cavaradossi (tenore) e Vitellio Scarpia (baritono).

L’idea di scrivere quest’opera venne a Puccini dopo aver assistito, nel 1889, al dramma “La Tosca” di Victorien Sardou (1831 – 1908; drammaturgo francese), al teatro dei Filodrammatici di Milano.
Il compositore ne fu particolarmente colpito e chiese all’editore Giulio Ricordi (1840 – 1912) di interessarsi ai diritti perché intendeva musicarla.
Sardou non rigettò la richiesta, ma mostrò una certa freddezza e solo nel 1893, Ricordi riuscì a ottenere l’autorizzazione, ma per un altro musicista, Alberto Franchetti (1860 – 1942; compositore italiano appartenente alla scuola verista).

Fu così approntato un abbozzo di libretto, da Luigi Illica (1857 – 1919; commediografo e librettista italiano) e Giuseppe Giacosa (1847 – 1906; drammaturgo, scrittore e librettista italiano), che ottenne l’approvazione dell’autore del dramma. Franchetti però non volle comporre la musica, così Ricordi, nel 1895, chiese di occuparsene a Puccini. Il compositore si mise all’opera nella tarda primavera del 1896.
L’opera fu completata nel mese di ottobre del 1899 ed andò in scena il 14 gennaio 1900, al Teatro Costanzi di Roma.

Per passare dalla prosa alla musica, la vicenda di Sardou fu innanzitutto ristretta dai cinque atti originali a tre e furono operati diversi tagli. I librettisti eliminarono numerosi particolari attinenti alla cornice storica realistica del dramma e anche parecchi personaggi secondari.
Lo scopo era quello di concentrare al massimo la storia sui tre personaggi principali e sull’amore tormentato tra Tosca e Mario.

Tosca è ritenuta l’opera più drammatica di Puccini; essa presenta numerosi colpi di scena e situazioni che mantengono ben desto l’interesse del pubblico.
La musica è caratterizzata da incisi tematici taglienti e brevi, e si adatta perfettamente al testo e alla struttura generale del libretto, grazie al suo rapido decorso.

Ai momenti drammatici dell’azione, Puccini è riuscito a contrapporre delle parti liriche, dove emerge prepotentemente la vena melodica, come ad esempio nei duetti tra Tosca e Mario e nelle loro rispettive romanze (Recondita armonia, Vissi d’arte, E lucevan le stelle).
A livello orchestrale, poi, il compositore ha dato vita a delle sonorità che anticipano addirittura l’espressionismo musicale tedesco.

Per quanto riguarda la storia, la vicenda si svolge a Roma. Abbiamo anche la data precisa: martedì 17 giugno 1800, cioè tre giorni dopo la battaglia di Marengo (combattuta nel corso della seconda campagna d’Italia, durante la guerra della seconda coalizione; le truppe francesi dell’Armata di riserva, guidate da Napoleone Bonaparte, si scontrarono con l’esercito austriaco, comandato dal generale Michael von Melas. La battaglia ebbe luogo a est del fiume Bormida, vicino all’attuale Spinetta Marengo, nel territorio della Fraschetta, odierna provincia di Alessandria).

Ci troviamo calati in un particolare momento storico, in un’atmosfera tesa, tra gli avvenimenti rivoluzionari in Francia e la caduta della prima repubblica romana.
La prima scena dell’atto primo vede il bonapartista, nonché ex console della repubblica romana, Cesare Angelotti, evaso da Castel Sant’Angelo, entrare nella Basilica di Sant’Andrea della Valle per nascondersi. Qui incontrerà il suo amico, il pittore Mario Cavaradossi, che sta lavorando in una cappella.
Il colloquio fra i due è interrotto dall’arrivo di Tosca, amante di Mario, che costringe Angelotti a rintanarsi di nuovo nella cappella. Il pittore nasconde alla donna la presenza del suo amico, perché teme che lei possa rivelarlo al suo confessore.

Il colloquio amoroso tra Tosca e Mario è turbato dalla gelosia di lei che scorge nella figura della Maddalena, ritratta dal suo amante, la marchesa Attavanti.
Il pittore riesce a tranquillizzarla e a congedarla e a quel punto, Angelotti può uscire di nuovo dal suo nascondiglio. I due riprendono il discorso precedentemente interrotto. Mario offre all’amico protezione e lo accompagna alla sua casa in periferia. Andandosene, portano con loro anche gli abiti femminili che la sorella del fuggiasco ha dato al fratello per travestirsi; dimenticano però nella cappella un ventaglio.

Nel frattempo, in chiesa piomba il barone Scarpia, capo della polizia papalina, che sta cercando l’evaso. L’uomo sospetta anche di Cavaradossi del quale conosce le simpatie bonapartiste.
Per trovare Angelotti e arrestare lui e il pittore, Scarpia pensa di coinvolgere Tosca. La cantante è tornata in chiesa, per informare Mario che il loro appuntamento è saltato: lei deve cantare a Palazzo Farnese.
Scarpia, novello Jago, approfitta della gelosia della donna e abilmente la induce a credere che Mario la tradisce con la marchesa Attavanti, e il ventaglio dimenticato nella cappella ne sarebbe la prova.

Tosca esce sconvolta dalla chiesa, meditando di cogliere i due presunti amanti in flagrante, mentre Scarpia ordina a uno dei suoi luogotenenti di seguirla. L’uomo è convinto di scovare Angelotti e di poter imprigionare Mario che probabilmente lo nasconde. E già si immagina “L’uno al capestro [Cavaradossi], l’altra fra le mie braccia [Tosca]”.

Il secondo atto si apre sull’appartamento di Scarpia intento a consumare la sua cena, mentre a un piano inferiore di Palazzo Farnese sono in corso i festeggiamenti in onore del generale Melas.
Gli uomini di Scarpia hanno seguito Tosca fino alla villa di Mario. La cantante se n’è già andata, quando gli sbirri piombano in casa del pittore. Non trovano Angelotti, ma arrestano Mario, perché ritengono sappia dove sia nascosto il fuggiasco. Cavaradossi, condotto davanti a Scarpia, si rifiuta di svelare dove è nascosto il suo amico.

Tosca che ha appena cantato al cospetto della regina al piano inferiore, si reca anche lei nell’appartamento di Scarpia, convocata da uno dei suoi uomini e vede Mario, prima che l’uomo sia condotto in un’altra stanza per essere torturato.
Il capo della polizia, dopo aver costretto la donna ad ascoltare le urla del suo amante, riesce a piegare la sua volontà e a farle rivelare il nascondiglio di Angelotti.
Nel frattempo, un messaggero arriva e annuncia che a vincere la battaglia di Marengo sono state le truppe di Napoleone, non quelle austriache.

Mario inneggia alla vittoria e Scarpia lo condanna a morte. Tosca implora Scarpia di concedere la grazia a Mario. L’uomo acconsente, ma vuole che in cambio la donna gli si conceda.
Tosca è combattuta, prega, piange e si dispera, ma il barone non si fa impietosire. Nel frattempo giunge la notizia che Angelotti si è suicidato e Scarpia dà l’ordine di giustiziare Cavaradossi, ma con una fucilazione simulata. In realtà, è solo una finzione volta a ingannare la cantante, ma quello che l’uomo non si aspetta è la reazione di Tosca. Mentre Scarpia scrive il salvacondotto per la cantante e il suo amante, la donna riesce a impadronirsi di un pugnale e quando lui tenta di avvicinarla lo uccide al grido: “Questo è il bacio di Tosca!” e poi fugge con il salvacondotto.

Nell’atto terzo, Tosca incontra per un’ultima volta Cavaradossi a Castel Sant’Angelo e lo rassicura: non morirà. La donna gli mostra il salvacondotto firmato da Scarpia e gli confida di averlo ucciso.
Purtroppo, non ci sarà alcuna simulazione, Mario viene fucilato veramente e Tosca disperata e inseguita dagli sbirri, che hanno trovato Scarpia morto, si getta dagli spalti di Castel Sant’Angelo, dopo aver gridato “O Scarpia, avanti a Dio!!

Opera al nero #2. I Capuleti e Montecchi di Bellini: tragedie familiari

Opera al nero 2. I Capuleti e Montecchi di Bellini tragedie familiari

La vicenda di Romeo e Giulietta è stata origine di un proliferare di opere. Dalla letteratura alle scene, dalla pagina scritta alla pagina musicale, gli sfortunati amanti sono diventati una tra le coppie più famose e celebrate.
Vincenzo Bellini, compositore catanese, come molti altri, non ha resistito al fascino di questa famosissima e tragica storia d’amore.

Anche il travagliato amore tra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti si presta alla definizione di opera al nero: anche qui l’atmosfera da tragedia non disattende le attese.

I due infelici innamorati sono stati celebrati in ogni salsa. Dalla letteratura al teatro, la loro storia è rimbalzata fino al mondo del balletto (“Romeo e Giulietta”, Op. 64 di Sergej Sergeevič Prokof’ev,1891 – 1953) e, ovviamente, è transitata anche per l’opera.

In effetti, è impossibile che una vicenda che tratti di un amore epocale, condito da un retroscena (neanche troppo) sanguinoso, potesse sfuggire al mondo della lirica che ha sempre cercato trame in grado di destare i sentimenti e far lievitare le emozioni sino al loro massimo livello. Inoltre, nella storia di Romeo e Giulietta non mancano neppure inganni e sotterfugi, fughe e cripte sotterranee, veleni e colpi di spada che sono ugualmente benedette da impresari, librettisti e musicisti.

Diversi autori hanno pensato bene di rivestire di musica questa tragedia, ricordiamo il famoso dramma “Giulietta e Romeo” del compositore Nicola Antonio Zingarelli (1752 -1837; compositore italiano, esponente della Scuola musicale napoletana) su libretto di Giuseppe Maria Foppa (1760 – 1845; librettista italiano, autore di oltre 80 libretti realizzati tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento), tratto non dalla tragedia shakespeariana, bensì dalla novella cinquecentesca con il medesimo titolo scritta da Luigi da Porto (1485 – 1529; scrittore e storiografo italiano). L’opera, ritenuta il capolavoro di Zingarelli, fu composta in pochissimo tempo e fu eseguita per la prima volta durante la stagione di Carnevale del Teatro alla Scala di Milano, il 30 gennaio 1796.

Altro compositore che si cimentò sulla vicenda degli sfortunati amanti è Nicola Vaccaj (1790 – 1848; compositore e insegnante italiano). Il libretto in questo caso è di Felice Romani (1788 – 1865; librettista, poeta e critico musicale, fra i più celebri e prolifici del suo tempo: scrisse circa un centinaio di libretti, per i massimi operisti italiani della prima metà dell’Ottocento).
Per la stesura, l’autore si basò su una tragedia di Luigi Scevola (1770 – 1818; drammaturgo italiano), tratta dall’omonimo lavoro di Shakespeare, e soprattutto, su un’ampia tradizione letteraria italiana, tra cui la “Novella IX” (La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’un di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti), contenuta nel novelliere di Matteo Bandello (1485 – 1561; vescovo cattolico e scrittore italiano del Cinquecento), nonché su un balletto ispirato ai due amanti veronesi, “Le tombe di Verona”, messo in scena a Milano nel 1820. Il testo così concepito è piuttosto lontano dalla tragedia di Shakespeare.
Il melodramma di Vaccaj andò in scena, per la prima volta, il 31 ottobre del 1825, al Teatro alla Canobbiana di Milano.

In ordine cronologico, altra opera che riprende la tragedia amorosa è “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini (Catania, 3 novembre 1801 – Puteaux, 23 settembre 1835). Il libretto su cui lavorò il compositore era un adattamento di quello di Romani, già utilizzato da Nicola Vaccaj.

Per la sua “Roméo et Juliette”, Charles Gounod (1818 – 1893), dopo un tentativo fallito sul libretto di Felice Romani, nel 1841, utilizzò il libretto in francese di Jules Barbier (1825 – 1901; poeta, scrittore e librettista francese) e Michel Carré (1821 – 1872; librettista francese), tratto da “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare (1564 – 1616).
La sua opera vide la luce nel 1865, dopo solo pochi mesi di lavoro, ma per vederla allestita al Théâtre Lyrique Impérial du Châtelet di Parigi, dove ottenne un successo immediato e duraturo, il musicista dovette attendere fino al 27 aprile 1867.

Tornando a Bellini, la sua opera, divisa in due atti, apparve in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo 1830 e fu un successo. Il libretto era di Felice Romani.
Il musicista compose “I Capuleti e i Montecchi” a tempo di record. Impiegò poco più di un mese, dalla fine di gennaio ai primi di marzo. Per accelerare i tempi, trasse molta della musica per il nuovo melodramma da un’opera da lui musicata l’anno precedente, che era stata un irrimediabile insuccesso: la “Zaira”. Inoltre, recuperò una romanza anche dalla sua opera d’esordio “Adelson e Salvini”.

Il materiale musicale “riciclato” fu comunque sottoposto da Bellini a un lavoro molto accurato di rielaborazione, affinché fosse adeguato ai personaggi mutati, così come ai versi e agli interpreti.
Anche in quest’opera, il compositore affidò le parti della coppia di protagonisti a due voci femminili.
Quindi, non stupitevi se andando a vedere quest’opera troverete un Romeo mezzosoprano “en travesti” (o “travesti”, personaggio che in un’opera teatrale o lirica è interpretato da un attore o cantante di sesso opposto). Questo tipo di soluzione era appropriata per la rappresentazione di un amore fra adolescenti.

Con “I Capuleti e i Montecchi” Bellini getta le basi da cui si evolverà la ricerca formale delle sue opere successive. Questo melodramma è andato spesso in scena, soprattutto perché la scrittura vocale non è particolarmente difficile e la drammaturgia è semplice, espressiva e fondata su una trama di sicuro interesse.
Per la notorietà, però, ci fu un prezzo da pagare. Per tutto il corso dell’Ottocento, l’opera subì ogni tipo di stravolgimento, a cominciare dalla “variazione” introdotta da Maria Malibran (1808 – 1836) che sostituì, in modo arbitrale, il duetto finale, che non consentiva una consona esibizione vocale, con il convenzionale finale dell’opera di Vaccaj.
Non mancarono stravolgimenti anche nel Novecento, in particolare con la scelta di affidare la parte di Romeo alla voce di un tenore.

Per quanto riguarda la genesi di quest’opera, dobbiamo tornare al 1829.
Bellini era a Venezia e stava seguendo alla Fenice la messa in scena del “Pirata”. Il teatro veneziano aveva in programma come terza opera della stagione un nuovo lavoro di Giovanni Pacini (1796 – 1867) che, sovraccarico di lavoro, alzò bandiera bianca, così il teatro si rivolse a Vincenzo, perché facesse le sue veci.
Il musicista accettò anche se era piuttosto dubbioso, a causa del poco tempo concesso per portare a termine il lavoro. Per accelerare il procedimento decise di usare lo stesso libretto di Romani, già impiegato da Vaccaj, ma operando qualche rimaneggiamento.

Fortunatamente, il libretto era perfetto per la compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione. Tra i cantanti ingaggiati spiccava il mezzosoprano Giuditta Grisi (1805 – 1840) alla quale il compositore diede la parte di Romeo.
Affidare il ruolo del giovane innamorato a una donna, in abiti maschili, era una consuetudine di lunga data e all’epoca di Bellini non costituiva una stranezza.
Romeo, affidato alla Grisi, faceva coppia con il soprano Rosalbina Carradori Allan (1800 – 1865) nei panni di Giulietta. Il tenore Lorenzo Bonfigli era Tebaldo, mentre il basso, Gaetano Antoldi, Capellio.
L’opera mandò in visibilio il pubblico veneziano. Il 26 dicembre dello stesso anno (1830) fu allestita al Teatro alla Scala di Milano con notevoli rimaneggiamenti, soprattutto per la nuova interprete nel ruolo di Giulietta, Amalia Schütz Oldosi (1803 – 1852), che era un mezzosoprano.

Diamo uno sguardo alla trama.
L’atto primo ci catapulta nella Verona del Duecento. La città è lacerata dalla faida tra la famiglia dei Capuleti, guelfi, e quella dei Montecchi, ghibellini. Il principale rappresentante dei Capuleti, Capellio (basso), padre di Giulietta, riunisce i suoi e li sprona a combattere gli avversari. Inoltre, comunica loro che i Montecchi, sostenuti da Ezzelino (Ezzelino III da Romano, 1194 – 1259, signore di Vicenza, Verona e Padova; ghibellino, sostenne l’imperatore Federico II), sono capitanati da Romeo, l’assassino di suo figlio, che vuole inviare un ambasciatore per proporre la pace. Lorenzo (basso), medico e familiare dei Capuleti, osteggiato dagli altri, suggerisce di ascoltare le parole del messaggero.

A capo della fazione guelfa c’è Tebaldo (tenore) che giura di uccidere Romeo, per vendicare la morte del figlio di Capellio che in cambio gli offre sua figlia in sposa. Le nozze saranno celebrate la sera stessa.
Lorenzo, però, sa che Giulietta è segretamente legata a Romeo e cerca di evitare il matrimonio, sostenendo che Giulietta è malata. Tebald, dal canto suo, non vuole far soffrire la promessa sposa. Si dice pronto a rinunciare alle nozze, ma il padre di Giulietta sostiene che la giovane sarà grata a chi vendicherà la morte del fratello.

Nel frattempo, sopraggiunge l’ambasciatore dei Montecchi a proporre la pace. Si tratta di Romeo che è tornato a Verona sotto mentite spoglie. Per ricomporre la faida tra le due famiglie, il giovane suggerisce di celebrare un matrimonio: tra Romeo e Giulietta. Capellio rifiuta, mentre Giulietta è disperata nella sua stanza per la sua sorte. Lorenzo le svela che Romeo è di nuovo in città, in incognito, e riesce a far incontrare i due giovani innamorati. Romeo esorta l’amata a fuggire con lui. All’inizio Giulietta rifiuta la proposta, poi si convince e si allontana con lui.

Nel frattempo, nel palazzo di Capellio si stanno preparando i festeggiamenti per le nozze tra Giulietta e Tebaldo.
Romeo si confonde tra gli invitati e avvisa Lorenzo che mille ghibellini armati sono giunti in città per sorprendere gli avversari. Lorenzo lo esorta a lasciare Verona e a rinunciare ai suoi piani.
Intanto, si sente un tumulto: i Montecchi hanno attaccato alcuni Capuleti.
I convitati scappano, Romeo si unisce ai suoi. Mentre il frastuono scema, giunge Giulietta vestita da sposa, in ansia per il combattimento. Romeo tenta ancora di farsi seguire da lei. Intanto, arrivano Tebaldo e Capellio, seguiti dai guelfi armati che scoprono Romeo, il quale riesce a fuggire grazie all’intervento dei suoi.

Nell’atto secondo, troviamo Giulietta da sola nella sua stanza. La battaglia prosegue, la ragazza è in ansia, poi scopre che Romeo è salvo. Purtroppo, però, il giorno successivo lei sarà condotta al castello di Tebaldo per convolare con lui a nozze.
Lorenzo le suggerisce uno stratagemma: ingerire un filtro che la farà sembrare morta; la ragazza beve, dopo alcuni istanti di esitazione. Subito dopo, giunge Capellio che obbliga la figlia a ritirarsi e a predisporsi all’imminente matrimonio. Successivamente, chiede a Tebaldo di sorvegliare Lorenzo, del quale non si fida più.

Romeo, ancora a Verona, sta cercando Lorenzo per avere notizie di Giulietta. Nel mentre, incontra Tebaldo che lo sfida a duello. I due sfidanti sono sul punto di battersi, quando giunge ai loro orecchi una musica funebre: è il corteo che conduce Giulietta alla tomba.
I due rivali sono presi da grande sconforto. Romeo si reca con i suoi nel luogo ove è sepolta Giulietta. Fa aprire la tomba e si rivolge all’amata. Fa allontanare i suoi e, invocando il nome di Giulietta, si avvelena. La giovane si risveglia e vede Romeo ai piedi del sepolcro, pensa l’abbia raggiunta, avvisato da Lorenzo della sua morte simulata. I due sfortunati amanti hanno appena il tempo di abbracciarsi un’ultima volta.
Romeo muore e Giulietta cade sopra di lui. Intanto, sopraggiungono i seguaci di Romeo, inseguiti dai Capuleti. Tutti si trovano davanti al sepolcro dove i due innamorati si sono tolti la vita. Di fronte a questa scena tragica, Capellio si sente responsabile per l’odio che ha diviso le due famiglie e che ha condotto alla morte dei due giovani.

In quest’opera Bellini fa ritorno al lirismo canoro, alle melodie morbide, romantiche e suadenti che si accordano alla perfezione con la storia messa in musica.
Ne “I Capuleti e i Montecchi” confluiscono espressività del canto, particolare cura per l’intonazione del testo poetico, equilibrio della strumentazione.

Degno di nota è il finale, in stile declamato, dove si assiste a un’alternanza tra recitativo accompagnato e arioso. Qui il compositore ha concentrato la sua attenzione, in particolare sui trapassi psicologici dei personaggi in scena, giungendo a esiti struggenti.
L’opera di Bellini fu accolta in modo controverso, in particolare, il finale rappresentava una novità per l’epoca e disorientò buona parte del pubblico. Inoltre, esso non rispondeva alle esigenze esibizionistiche di una prima donna. Infatti, già dalla rappresentazione di Firenze nel 1831, fu sostituito con quello più convenzionale di Vaccaj.

I Capuleti e i Montecchi fu una tra le opere più rappresentate durante l’Ottocento, nei teatri italiani ed europei.
A quest’opera di Bellini sono legati i nomi di alcuni dei più famosi cantanti dell’epoca: Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli.
Nel Novecento, l’opera fu rappresentata dapprima a Catania (1935), per il centenario della morte di Bellini, poi in altri teatri a iniziare dagli anni Cinquanta.
Attualmente, essa occupa un posto fisso nel repertorio dei teatri lirici.

In copertina: particolare del dipinto “Romeo e Giulietta” di Frank Bernard Dicksee (1884)

“Orfeo ed Euridice”: Gluck riforma l’opera seria

Orfeo ed Euridice Gluck riforma l’opera seria

2 luglio 1714 nasce Christoph Willibald Gluck, considerato una delle figure chiave della riforma dell’opera seria.
Le sue opere, in particolare l’ “Orfeo ed Euridice”, rappresentano una svolta radicale per questo genere musicale molto fortunato.

Christoph Willibald Gluck (Erasbach, 2 luglio 1714 – Vienna, 15 novembre 1787) era un compositore tedesco. Nella seconda metà del Settecento, fu uno dei principali iniziatori del Classicismo.
Quando il compositore mise in atto i suoi cambiamenti i tempi erano maturi per una sostanziale riforma dell’opera seria che era da tempo in declino. Già si avvertivano sentori di novità. C’era anche una certa stanchezza per delle consuetudini consolidate che riguardavano sia coloro che stavano sul palcoscenico sia gli spettatori che assistevano agli spettacoli.

Il modo di recitare e di rapportarsi con il pubblico degli attori mentre erano sulla scena, la struttura generale dell’opera, i testi e i brani musicali associati, la progettazione delle scenografie, l’inserimento dei balletti e l’uso del coro, in vario modo stavano già prendendo strade nuove, a seguito di un desiderio generale di rinnovamento.

Gluck si trovò a essere l’uomo giusto nel momento giusto. La sua idea di riforma condusse innanzitutto, a una semplificazione della trama delle opere e alla creazione di un equilibrio tra musica e canto. La riforma gluckiana ebbe successo e influì non poco sul lavoro di numerosi compositori, come: Sacchini, Salieri, Cherubini, Spontini, Berlioz e molti altri.

L’opera lirica di Gluck che ha sancito la sua riforma è sicuramente l’ “Orfeo ed Euridice”.
Come si evince già dal titolo, la storia ruota attorno al mito di Orfeo. Il libretto fu scritto da Ranieri Simone Francesco Maria de’ Calzabigi (1714-1795; poeta e librettista italiano).
Essendo un’opera concepita su un soggetto mitologico è inclusa nel genere dell’azione teatrale e per questo prevedeva l’inserimento di cori e danze.

La prima rappresentazione dell’opera fu a Vienna il 5 ottobre 1762.
L’Orfeo ed Euridice aprì la stagione della riforma di Gluck che proseguì con “Alceste” e “Paride ed Elena”.
Questo complesso di opere riformiste, nell’ottica del compositore, come del librettista e del direttore dei teatri, il conte Giacomo Durazzo (1717-1794; diplomatico al servizio della Repubblica di Genova e uomo di teatro italiano), dovevano: semplificare il più possibile l’azione drammatica; andare oltre le trame contorte e complicate dell’opera seria italiana; evitare gli eccessi vocali; ristabilire un rapporto più bilanciato tra parola e musica.
Anche Gasparo Angiolini (1731-1803; coreografo, ballerino e compositore italiano), che gestì le danze incluse nelle nuove opere riformiste, riteneva che il vento di rinnovamento dovesse investire anche il balletto che proprio in quel periodo vedeva la nascita del “ballet d’action”, una nuova forma coreutica.

Nel, 1774, L’Orfeo ed Euridice sbarcò a Parigi, come Orphée et Euridice. Gluck rielaborò notevolmente l’opera per adattarla agli usi musicali francesi. Innanzitutto, il libretto fu tradotto in francese e fu anche arricchito da Pierre Louis Moline (1740 ca. – 1820; prolifico drammaturgo, poeta e librettista), mentre Gluck rinnovò l’orchestrazione adeguandola ai più ampi organici dell’Opéra, aggiungendo molta musica nuova, mutuando brani da opere precedenti e soprattutto, garantendo un ampio respiro alle danze.

L’Orfeo ed Euridice di Gluck è considerata la più nota tra le opere musicate dal compositore tedesco. Proposta in una delle diverse edizioni o addirittura presentata in versioni nuove anche piuttosto rivisitate, è stata una delle poche opere del Settecento a essere presente, fino a oggi, nei cartelloni delle stagioni dei più importanti teatri lirici del mondo.

Il fattore chiave della riforma attuata con l’Orfeo ed Euridice, anche secondo lo stesso Gluck, che lo confessò in una lettera al Mercure de France del 1775, è da ascriversi soprattutto al testo e al lavoro di Calzabigi. In effetti, l’ostacolo maggiore da superare, per dare continuità e maggior realismo all’azione drammatica, era l’antiquata forma del libretto metastasiano. La riforma dell’opera seria, cioè, doveva necessariamente passare attraverso una nuova forma di scrittura del testo.

Nell’Orfeo ed Euridice questa mutazione chiaramente investe la struttura dei brani musicali: le arie virtuosistiche con il da capo (ABA’) – concepite come pezzi chiusi e autonomi destinati a esprimere sentimenti e momenti specifici – e i recitativi secchi – deputati a portare avanti l’azione drammatica – sono sostituiti da brani di minor durata, legati fra loro a comporre strutture musicali più ampie. Inoltre, i recitativi da secchi mutano in accompagnati e sfociano naturalmente nelle arie. Inoltre, Calzabigi, per le arie utilizza sia la forma strofica sia quella del rondò.

La riforma nell’insieme, superando e infrangendo le convenzioni dell’opera seria italiana, mirava a dare slancio drammatico all’azione. Con la stessa logica, si semplifica la trama, eliminando i personaggi minori e i relativi intrecci secondari.
L’Orfeo ed Euridice includeva anche molti numeri di danze espressive e faceva un largo uso del coro, entrambe consuetudini della tragédie lyrique francese e in particolare, delle opere di Jean-Philippe Rameau (1683-1764; compositore, clavicembalista, organista e teorico della musica).

L’Orfeo ed Euridice di Gluck ha lasciato un profondo segno nella storia dell’opera: da Mozart a Wagner, passando per Weber tutti le sono, chi più chi meno, debitori.

In copertina: particolare del ritratto di Christoph Willibald Gluck, olio su tela di Joseph Duplessis (1775)

3° appuntamento con il “professore”: Il Requiem dell’assassino

Cover Il Requiem dell assassinoUn omicida spietato uccide le sue vittime con un preciso e netto taglio alla gola.

La sua firma è un singolare requiem dedicato alla vittima.

Edmond, Adrien e Lambert si destreggiano tra interrogatori e supposizioni sullo sfondo del Teatro dell’Opéra cui tutto riconduce, all’inseguimento di un assassino che colpisce rapido e inafferrabile, per poi sparire come un fantasma nella notte.

Un altro caso si profila all’orizzonte: una morte sospetta durante una lezione in palestra, mentre il caso della Phénix giunge a una svolta.

Presagio mortale #1

Morte a tempo di swing #2

Il Requiem dell’assassino #3