Crepuscolarismo: tra malinconia e poesie delle “piccole cose”

Crepuscolarismo tra malinconia e poesie delle piccole cose

Il crepuscolarismo è una corrente che nasce e si diffonde all’inizio del Novecento, e rappresenta un’ideale parabola della poesia italiana, che si spegne in un “mite e lunghissimo crepuscolo”.

La corrente letteraria del crepuscolarismo apparve e fiorì in Italia all’inizio del Novecento, grazie ad alcuni poeti tra i quali: Guido Gozzano (1883-1916), Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907), Antonia Pozzi (1912-1938) e Corrado Govoni (1884-1965).
Più che un movimento, si manifestò come una similitudine di stile e di intenti. In particolare, i poeti crepuscolari furono accomunati dal totale rifiuto di qualsiasi forma di poesia eroica o sublime.

Il termine “crepuscolarismo” deriva dal titolo di una recensione apparsa su “La Stampa”, il 1° settembre 1910, firmata da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Il critico utilizzò tale definizione per descrivere le poesie di Marino Moretti, Fausto Maria Martini (1886-1931) e Carlo Chiaves (1882-1919). Il termine passò poi a indicare una categoria letteraria.

L’adozione di questo particolare termine voleva sottolineare una situazione di spegnimento. Infatti, in queste poesie prevalgono i toni tenui e smorzati, e l’emozione preponderante è la malinconia, quella “di non aver nulla da dire e da fare“.

I crepuscolari restano fondamentalmente legati alla tradizione classica, pur essendo coscienti del suo decadimento. Rifiutano l’immagine dell’intellettuale protagonista della storia e svalutano la funzione del poeta. Riprendono Pascoli e le sue poesie “delle piccole cose” e il D’annunzio del “Poema paradisiaco”. Inoltre, nei loro versi si avverte l’influsso di Paul Verlaine (1844-1896) e di altri poeti decadenti francesi e fiamminghi.

I versi dei poeti crepuscolari, liberi da qualsiasi ornamento e privi del peso della tradizione, esprimono un costante bisogno di compianto e confessione.
Nelle liriche di questi autori si avverte la nostalgia per i valori tradizionali perduti e una perenne insoddisfazione che ha come unico obiettivo quello di scovare angoli conosciuti e tranquilli in cui trovare rifugio.

I temi tipici del crepuscolarismo sono facilmente rintracciabili in una dichiarazione epistolare del 1904 di Corrado Govoni, uno dei primi poeti di crepuscolari, indirizzata all’amico Gian Pietro Lucini (1867-1914).
Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati dai vecchi nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni melanconici pieni di addii, le primavere nei collegi quasi timorose, le campane magnetiche, le chiese dove piangono indifferentemente i ceri, le rose che si sfogliano sugli altarini nei canti delle vie deserte in cui cresce l’erba; tutte le cose tristi della religione, le cose tristi dell’amore, le cose tristi del lavoro, le cose tristi delle miserie”.

Per quanto riguarda la scelta linguistica, i crepuscolari mostrano una piena coerenza con le tematiche trattate. Le loro poesie sono più vicine alla prosa che alla poesia e i versi, pur essendo animati da un ritmo poetico, spezzano il legame con la metrica tradizionale. Tale inclinazione, priva oltretutto di qualsiasi forma aulica e classicistica, apre la strada al verso libero.

I primi testi del crepuscolarismo compaiono tra il 1899 e il 1904, dall’attività di un gruppo romano, operante attorno a Tito Marrone (1882-1967), Corrado Govoni e Sergio Corazzini, e contemporaneamente, di un gruppo torinese che ha come esponente principale Guido Gozzano.
Accanto a questi due gruppi principali ci sono anche alcuni autori, come Fausto Maria Martini, Marino Moretti e solo per un certo periodo, Aldo Palazzeschi (1885-1974).

Danza: uno spettacolo da ricordare

Grande emozione per lo spettacolo di ieri sera, 22 giugno 2023, organizzato dalla Fondazione Regionale Arte nella danza al teatro Sperimentale di Ancona.

So che cosa significa stare alla sbarra e quanta fatica e sudore costa conquistare maggiore scioltezza e forza. Quanto impegno è richiesto per mantenere una posizione corretta e al contempo sembrare naturali e dare l’impressione a chi guarda che un passo o un movimento sia la cosa più semplice del mondo. Per questo voglio celebrare chi ieri sera mi ha emozionato con la sua fatica, con i sacrifici di ore di lavoro in sala e con tanti batticuori, finché il sipario non si alza e il pubblico diventa visibile dal palcoscenico.

In pratica, ieri sera ho fatto un tuffo nel passato, un tuffo in un mare conosciuto: quello della danza.
Avevo ancora in mente un altro spettacolo organizzato dalla Fondazione Regionale Arte nella danza di Ancona, di diversi anni fa.
Nella mia mente era ancora vivido il ricordo dei colori, della musica e dei costumi e soprattutto, ricordavo gli impeccabili passi di danza. Dopo lo spettacolo di ieri sera, posso dire che avrò altre preziose memorie da serbare.

Lo spettacolo, suddiviso in due parti, si è svolto in due ore, due ore di grandi emozioni, per chi come me ha assistito alle esibizioni di ieri sera.
I danzatori hanno dato vita a una serie di performance coinvolgenti, dove tecnica e interpretazione si sono fuse magnificamente.

Ho apprezzato le scelte musicali e coreografiche, che hanno spaziato sia nel repertorio classico sia in quello moderno.
Magico il gioco delle luci e azzeccatissime le scelte dei costumi, entrambe hanno contribuito favorevolmente a creare uno scenario perfetto in cui esibirsi.

L’unico mio rammarico è per coloro che non sono intervenuti allo spettacolo, perdendo così un’occasione per meravigliarsi.

Grand Tour in Italia: fenomeno di costume per i letterati dell’800

Il Grand Tour in Italia tra bellezze artistiche e meraviglie naturali era un’usanza ottocentesca che ha spinto molti letterati aristocratici a viaggiare per attuare un percorso di formazione.

Da sempre meta di viaggiatori in cerca di storia e di bellezze artistiche, l’Italia ha attirato, in particolare, numerosi letterati stranieri nell’800, quando venire nel nostro Paese significava compiere un viaggio formativo, denominato Grand Tour.

Questo singolare viaggio era appannaggio dei rampolli dell’alta società, di solito inglesi. Gli stranieri consideravano il Grand Tour come parte dell’educazione culturale. E quale migliore formazione si poteva sperare, se non visitando la patria dell’arte.

Durante il viaggio, gli scrittori traducevano nei loro diari o epistolari le impressioni suscitate dal viaggio e successivamente, le trasponevano nei romanzi, dove finivano per costituire un implicito invito ai lettori a recarsi in Italia, il meraviglioso belpaese.

Tra gli scrittori che intrapresero felicemente il Grand Tour possiamo citare: Goethe (1749-1832), Dickens (1812-1870), Forster (1879-1970), George Eliot (1819-1880), Louisa May Alcott (1832-1888) e molti altri che come loro hanno riportato nei loro scritti momenti particolari di vita e impressioni varie, muovendosi dal nord al sud del Paese.

Intraprendere un simile viaggio nell’Ottocento non era impresa facile.
Ci si spostava su scomode carrozze che si destreggiavano su strade sconnesse e persino rischiose. Si affrontavano arrampicate su valli alpine “perduti in contemplazione delle nere rocce, delle cime e dei burroni paurosi, degli spazi di neve fresca, formatisi nei crepacci e nelle vallette, e dei torrenti tumultuosi che rombavano giù, a precipizio, nell’abisso profondo“, ci informa Dickens con dovizia di particolari.

Non ci si deve dunque meravigliare se per portare a buon fine questi Grand Tour a volte ci si impiegava degli anni. Per fortuna, rispetto agli odierni viaggi, c’era il vantaggio, per gli avventurosi turisti della cultura, che il costo della vita in Italia era sicuramente meno dispendioso di quello di altri Paesi.

I visitatori, oltre a prendersi tutto il tempo necessario, sceglievano le mete più ambite: Firenze, Venezia, Roma e Napoli, ma non erano disdegnati neppure i laghi e altre città minori.

Certe città lasciavano il segno su alcuni, mentre non avevano alcun effetto su altri.
Ad esempio, Dickens affermò che Milano, completamente occultata dalla nebbia – tanto da far sparire persino il Duomo – poteva essere tranquillamente scambiata per Bombay, mentre George Eliot rimane colpita dalla Galleria di Brera e dalla Biblioteca Ambrosiana.

A impressionare Oscar Wilde (1854-1900) è invece Firenze, con le sue bellezze artistiche e si rammaricherà molto di doversene andare. Però, a lasciarlo letteralmente di stucco fu Venezia, anche se le gondole nere che solcavano le acque della laguna gli richiamavano dei funesti carri funebri.

Non possiamo ovviamente tralasciare, Goethe, turista d’eccezione, che affrontò il suo Grand Tour in Italia tra il 1786 e il 1788.
Il poeta e scrittore attraversò tutto il Paese, da nord a sud, soppesando a ogni sosta monumenti, chiese e ville, e ammirando al contempo i paesaggi e le bellezze naturali delle piccole città. Inoltre resterà affascinato anche dagli abitanti e dalle particolari usanze, come la raccolta delle olive.
Attratto da Roma, resterà però particolarmente colpito dalla Sicilia, pur criticando la sporcizia e la polvere sulle strade.

I Grand Tour e i successivi resoconti dei viaggiatori fecero da cassa di risonanza e spinsero altri viaggiatori a coprire distanze anche considerevoli, per ammirare il Bel Paese, dando vita a quello che in epoche successive fu definito come turismo.

A intraprendere arditamente il Grand Tour non furono però solo gli uomini. Ci sono state diverse viaggiatrici che, sfidando le convezioni sociali, hanno affrontato gli incomodi del viaggio di formazione.
Una donna che viaggiava, soprattutto da sola e in un paese sconosciuto, non era ben vista, quanto meno non doveva essere una donna troppo rispettabile. Nonostante ciò, una schiera di donne coraggiose ha comunque raggiunto l’Italia e goduto delle bellezze artistiche del nostro Paese. Hanno anche annotato, come i loro colleghi uomini, impressioni, valutazioni e critiche e soprattutto, hanno dimostrato un maggior senso pratico e spirito di adattamento.

Tra le avventurose viaggiatrici citiamo: Madame de Staël (1766-1817), George Eliot che si dimostrerà molto critica e che resterà colpita più dalle bellezze naturali che da quelle artistiche.
Louisa May Alcott invece fece un secondo viaggio in Europa nel 1870, dopo il successo del suo libro “Piccole donne”. Insieme alla sorella e a un’amica giunse in Italia, passando per Milano. Nei suoi appunti di viaggio dirà che il Duomo era simile a un grande dolce di nozze, mentre a Roma, più che dalla città fu affascinata dalla campagna romana.

Il Grand Tour in Italia ha lasciato diversi segni.
Nelle città, visitate da questi turisti speciali, sono presenti varie targhe marmoree che testimoniano questa sorta di pellegrinaggio culturale. Ma soprattutto, la memoria di questi viaggi è viva nelle pagine dei libri, dove, in vario modo, ogni scrittore o scrittrice che ha attraversato l’Italia, ha tradotto la propria esperienza di viaggio, descrivendo luoghi e usanze, e più di un personaggio ha visto la sua prima scintilla di vita in un piccolo villaggio o in una grande città del nostro meraviglioso Paese.

In copertina: James Tissot, “London Visitors” (1874 ca.), olio su tela (dimensioni: 160 x 114 cm), conservato presso il Museo d’arte di Toledo

“Salonmusik”, musica da salotto: genere prediletto dalla borghesia

Salonmusik musica da salotto genere prediletto dalla borghesia

Nell’Ottocento e fino a inizio Novecento si diffonde la cosiddetta musica da salotto.
Espressione musicale tipica della borghesia, consentiva ad abili dilettanti di divertirsi facendo musica insieme, e a un pubblico scelto di ascoltare eccellenti esecuzioni in ambiti domestici.

La musica in casa e la musica in salotto erano una piacevole abitudine ottocentesca.
Per i borghesi del tempo, la musica costituiva un’opportunità di affermazione sociale che si manifestava non solo attraverso le consuete esibizioni pubbliche, ma anche in quelle praticate nell’intimità delle case private.
Per assecondare questa particolare inclinazione musicale, nel corso del secolo, aumentarono i dilettanti esecutori e al contempo, il pianoforte divenne l’arredo indispensabile di un salotto borghese.

Parlando di “musica domestica” (Hausmusik) e “musica da salotto” (Salonmusik) ci troviamo di fronte a termini abbastanza simili, però, la prima espressione comprende un ambito più vasto, include cioè, sia la musica che era eseguita tra le pareti domestiche sia quella realizzata appositamente per essere suonata in casa.
I fruitori di questo specifico repertorio, nonché gli esecutori di tale musica erano i dilettanti o i familiari e gli amici che amavano suonare insieme.

Per quanto riguarda invece la seconda definizione (musica da salotto) siamo dinanzi a un termine con un senso più definito: si tratta della produzione musicale appositamente realizzata per essere eseguita nei salotti europei dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, più o meno sino alla prima guerra mondiale.

I due repertori, quello della Hausmusik e della Salonmusik, si differenziano anche per il carattere: il primo aveva, tendenzialmente, un carattere intimistico; il secondo, invece, era il più delle volte sentimentale e brillante.

La borghesia europea tra Settecento e Ottocento ambiva a diventare la classe sociale predominante e la musica si prestava agevolmente all’affermazione di tale ambizione.
Mentre il concerto pubblico si diffonde, in contrapposizione a quello privato di ascendenza aristocratica, si viene affermando anche l’uso di suonare in casa sia per divertimento sia a scopo formativo.

La musica da salotto si avvalse anche vantaggiosamente della pratica della trascrizione che consentì alla borghesia di esperire la letteratura musicale in toto, spaziando dalla musica sinfonica a quella operistica.
L’usanza di fare musica in salotto proseguì sino al primo Novecento, poi l’avvento del grammofono e della radio ne decreteranno la lenta estinzione.

Nel XVII secolo, la Hausmusik prima di rappresentare uno specifico costume musicale era un termine usato come titolo di raccolte di Lieder di matrice luterana, destinate all’esecuzione domestica.
Nel XVIII secolo, invece, il termine compare in pochissime occasioni, nonostante ci sia una grande quantità di musica pensata e realizzata proprio per i dilettanti.
Fu a cominciare dalla metà del XIX secolo che la musica domestica diventò piuttosto frequente, quando cioè aumentò la divergenza tra musica d’arte, destinata ai professionisti, e musica d’uso, composta per gli amatori.

Il problema della difficoltà, infatti, era legato alla possibilità o meno di tale musica di essere eseguita tra le pareti domestiche da dilettanti. Nel momento in cui la complessità di tali composizioni aumentò, quando cioè, iniziarono ad affermarsi brani come Lieder, quartetti e trii di genere più impegnativo, fu necessario possedere capacità interpretative di un livello superiore e quindi, ai semplici dilettanti subentrarono musicisti professionisti che si dedicarono a un’attività concertistica vera e propria.
A metà Ottocento, proprio in seguito all’affermazione di questo divario esecutivo, compositori ed editori iniziarono a specificare nei titoli delle opere la destinazione domestica di alcuni brani.

Lo strumento principe della musica da salotto era indubbiamente il pianoforte.
Per tutto il XIX secolo dilagò in Europa e in America, una vera e propria “mania” per questo strumento, accresciuta dall’idea che lo studio del pianoforte e l’insegnamento del canto fossero una irrinunciabile prassi da includere nell’educazione delle ragazze di buona famiglia.
Inoltre, la diffusione di questo particolare strumento fu incrementata dall’introduzione nel mercato di svariati modelli economici di pianoforte, perfetti per un uso domestico, come il “pianino” (attuale pianoforte verticale), introdotto nel 1811.

Fu proprio la duttilità del pianoforte a far sì che assumesse un ruolo predominante.
L’accompagnamento di questo strumento era utilizzato per sostenere diversi generi vocali e strumentali, ma spesso era impiegato anche come solista oppure per eseguire brani a quattro mani. Questo ultimo tipo di esecuzione favoriva la socialità, era un modo semplice di suonare insieme e per questo conservò un ruolo speciale nelle abitudini musicali della borghesia europea. Consentì anche di preservare la tradizione della Hausmusik, almeno fino ai primi decenni del XX secolo, quando già generi cameristici più impegnativi si erano già trasferiti nelle sale da concerto.

Oltre al pianoforte, altri strumenti prediletti della Hausmusik erano: la chitarra, l’arpa, il mandolino, il flauto, il violino e il violoncello.

In copertina: James Tissot, “Hush!” (Silenzio!) olio su tela (1875 ca. – dimensioni: 73.7 x 112.2 cm), conservato presso Manchester City Art Galleries (Manchester)

La sera fiesolana di D’Annunzio: perfetta fusione tra uomo e natura

La sera fiesolana di D’Annunzio perfetta fusione tra uomo e natura

Nella poesia “La sera fiesolana” Gabriele d’Annunzio inneggia alla sensualità della natura che si tramuta in donna, mentre il poeta si inebria di suoni e profumi al calare della notte.

“La sera fiesolana” di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938) fu scritta e pubblicata sulla rivista “Nuova Antologia” nel 1899. Essa apre la raccolta “Alcyone” (1903) ed è ritenuta uno dei vertici della vasta produzione poetica di D’Annunzio.

Questa poesia è incentrata sul rapporto di reciproca e costante fusione tra uomo e natura, tema caro a D’Annunzio che con questa lirica tocca la sua massima espressione artistica e mostra una piena maturità umana e creativa, maturità che ha raggiunto negli anni a cavallo fra i due secoli. In questa fase si allontana dai temi politici e patriottici e si rifugia in una poesia più intima.

La sera fiesolana è composta da tre strofe di quattordici versi di varia lunghezza. Al termine di ogni strofa il poeta ha introdotto una laudazione di tre versi.
Ogni strofa include tre, o due, o quattro endecasillabi iniziali e un quinario finale, che rima con il primo verso successivo. L’ottavo verso, all’inizio della seconda parte della strofa, è sempre endecasillabo.
Il terzetto a fine strofa, concepito in forma di antifona, richiama il “Cantico delle creature di san Francesco” ed è formato da un endecasillabo, dal trisillabo “o Sera” associato a un dodecasillabo, e da un quinario.

Questa poesia dannunziana è un esempio di musicalità che discende da un uso accorto delle rime e delle allitterazioni, ed è esaltata dall’impiego di numerose figure retoriche. Ad esempio: la sinestesia con cui inizia la lirica (“Fresche le mie parole”) che affianca la sensazione uditiva delle parole a quella tattile della freschezza; le similitudini (“come labbra”, “come il fruscio”, ecc.); le metafore (“rosei diti”, “vesti aulenti”, ecc.); l’apostrofe (“O sera“); l’anastrofe (“che fan di santità pallidi i clivi”); il polisindeto (su i gelsi e su gli olmi e su le viti / e su i pini … / e su il grano … / e su ‘l fieno … / e su gli olivi).

Quando compose La sera fiesolana, D’Annunzio viveva insieme alla compagna, Eleonora Duse (1858 – 1924), nella Villa della Capponcina a Settignano, vicino Firenze, dove si era trasferito nel 1898 e dove rimase fino al 1910.

In questo luogo, dove è facile immergersi nella natura e lasciarsi coinvolgere dalle intense sensazioni che essa provoca, il poeta descrive una serata di giugno nella campagna fiesolana, appunto, dopo la pioggia, nel momento in cui si avvicina il crepuscolo.
In questa oasi di pace, i sensi liberi viaggiano fra suoni e profumi, mentre l’oscurità della notte avanza. Udito, tatto e olfatto si acuiscono a mano a mano che la vista si affievolisce a causa del buio e si possono così percepire melodie, odori e tutto quello che in condizioni normali non si potrebbe avvertire.

Le immagini che ci presenta D’Annunzio ne La sera fiesolana sono fortemente evocative, di una bellezza impalpabile. La sensazione generale, leggendo questa poesia, è trovarsi in un sogno dalle sfumature mistiche. Il misticismo è in legato in particolare ai tre versi di laude posti a conclusione di ogni strofa.

Il tratto saliente di questa lirica resta comunque la sensualità, tipica di D’Annunzio che nei versi finge di colloquiare con una donna, la Sera dal “viso di perla”, dalle “vesti aulenti” e dai “grandi umidi occhi” o quando intravede nel profilo delle colline fiorentine, illuminate dalla luna, delle labbra, pronte a pronunciare delle parole, ma che per un misterioso motivo sono impedite a emettere voce.

Ne La sera fiesolana l’uomo e un tutt’uno con la natura; paesaggio e stato d’animo si riflettono l’uno nell’altro, in un crescendo di emozioni e sensazioni, scandite dal fruscio delle foglie, dal sorgere della luna e dall’apparizione delle stelle, e così via.
Attraverso questa commistione, D’Annunzio dà voce al pensiero decadente che secondo il poeta non è altro che quel processo che conduce la natura ad antropomorfizzarsi e l’uomo a naturalizzarsi.

La sera fiesolana di D’Annunzio

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.


Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.


Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!

Gerrit Dou: un approccio realistico alla lettura

Gerrit Dou Donna anziana che legge approccio realistico alla lettura

Gerrit Dou ritrae in modo eccezionalmente realistico la figura di una donna anziana che sta leggendo e in tale ritratto mostra tutto il suo talento e la sua straordinaria capacità tecnica.

“Donna anziana che legge” o “Donna anziana che legge la Bibbia” è un dipinto a olio del pittore olandese Gerrit Dou o Gerard Dou (Leida, 7 aprile 1613 – Leida, 9 febbraio 1675). Eseguito dall’artista nel 1631-1632 circa, dal novembre 1912, è entrato nella collezione del Rijksmuseum di Amsterdam.
In passato fu ritenuta un’opera di Rembrandt; niente di strano, dato che nel 1628, il quattordicenne Dou fu il primo allievo di Rembrandt (Leida, 15 luglio 1606 – Amsterdam, 4 ottobre 1669) che era più grande di lui di soli sette anni.

Nel 1626, Rembrandt condivideva la sua bottega a Leida con un altro artista Jan Lievens (Leida, 24 ottobre 1607 – Amsterdam, 8 giugno 1674) e in quel periodo dipingeva con uno stile raffinato, impiegando forti contrasti tra luce e ombra. Questa tecnica, chiaramente espressa in “Donna anziana che legge”, fu successivamente abbandonata da Rembrandt che respinse tale raffinatezza, mentre il suo allievo si concentrò sul suo perfezionamento.

Quando nel 1632, il suo maestro si trasferì ad Amsterdam, Dou divenne il fondatore dei Fijnschilder (termine utilizzato per quei pittori olandesi che, in particolare tra il 1630 e il 1710, si adoperarono per una rappresentazione della realtà il più fedele possibile. Questo tipo di tecnica è stata portata a grandi altezze a Leida, specialmente da Gerrit Dou; si tratta di una tecnica estremamente raffinata e meticolosa, applicata principalmente nei cosiddetti dipinti di genere che ritraevano scene di attività quotidiane di piccolo formato) di Leida.

In “Donna anziana che legge”, Dou mostra tutto il suo talento e un grande abilità tecnica, nonostante la sua giovane età. La donna e i suoi abiti sono dipinti con estrema precisione, ma anche il testo biblico del lezionario e la stampa che lo accompagna sono altrettanto dettagliati e ben visibili.

Chi osserva il quadro vede chiaramente ciò che la donna sta leggendo: l’inizio del diciannovesimo capitolo del “Vangelo di Luca”, dove si afferma che chi desidera fare del bene dovrebbe dare il massimo dei suoi beni terreni ai poveri. Il messaggio stride con gli abiti costosi della donna anziana, che all’apparenza è ancora aggrappata ai suoi beni.

Dou raffigura l’anziana con un approccio eccezionalmente realistico per l’epoca e rispetto agli standard pittorici del Nord Europa.
L’artista dà allo spettatore la sensazione di trovarsi vicino al soggetto, mentre la donna ritratta sembra ignara di essere osservata, raffigurata di profilo è chiaramente e totalmente presa dalla lettura.

L’impiego del chiaroscuro, che Dou aveva imparato da Rembrandt, è tipico ed evidenzia i dettagli più importanti del dipinto. Lo sfondo è liscio, sobrio e non è fonte di distrazione.
A livello compositivo, l’artista crea una sorta di contrasto diagonale rilassante tra la parte superiore sinistra e quella inferiore destra.

Per lungo tempo, in pratica fino al 1900, quest’opera di Dou fu considerata il ritratto che Rembrandt fece di sua madre, Neeltgen Willemsdr van Zuijdtbroeck, da cui il titolo di “Madre di Rembrandt”. Questo fatto oltretutto si accordava con l’antica idea che Rembrandt avesse raffigurato molti dei suoi parenti nei suoi dipinti, per cui la sua paternità sembrava scontata.

Solo nel 1901, lo storico dell’arte Wilhelm Martin suggerì in un libro dedicato a Gerrit Dou che probabilmente “La donna anziana che legge” fosse di sua mano e non di quella del suo maestro.
A rinforzo di tale tesi, citava le caratteristiche stilistiche, evidenziando l’utilizzo del chiaroscuro e la struttura superficiale liscia tipica di Dou e il fatto che Dou e Rembrandt, così come Lievens, usassero spesso gli stessi modelli. In effetti, la stessa anziana signora compare nei dipinti di tutti e tre gli artisti e lo stesso Dou la dipinse più volte.

Dopo il 1900, fu anche chiaro che la designazione di alcuni modelli di Rembrandt come suoi parenti era del tutto infondata.
Quando nel novembre 1912, il dipinto fu offerto al Rijksmuseum dal lascito di A. H. Hoekwater, fu finalmente esposta come opera di Dou e con il suo attuale titolo.

In copertina: Gerrit Dou, “Lezende oude vrouw” (Donna anziana che legge) olio su tavola, 71,2 cm × 55,2 cm (1631-1632 ca.), conservato al Rijksmuseum, Amsterdam

“Primavera” di Monet: la lettura vista da un impressionista

Gli Impressionisti danno vita a un modo assolutamente innovativo di leggere e rappresentare il mondo. In un quadro di Monet, “Primavera”, troviamo già contenuti i tratti caratteristici di questo singolare movimento pittorico.

Claude-Oscar Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 5 dicembre 1926), pittore francese, è ritenuto uno dei fondatori dell’Impressionismo, nonché uno dei suoi più prolifici esponenti.
Artisticamente, Monet fu un rivoluzionario. Ai suoi tempi, la Francia era una nazione viva e moderna, nel pieno dello sviluppo economico e sociale.

Nelle arti figurative evoluzione e innovazione non erano ancora arrivate: gli artisti continuavano a seguire le regole tradizionali dell’arte accademica, chiamata, con intenti derisori, “art pompier”, con tale definizione si includeva tutta la pittura prodotta in Francia nella seconda metà dell’Ottocento che era sotto l’influsso delle Accademie di Belle Arti e mirava a un classicismo esasperato.
Questo tipo di arte era gradita al potere ed era eseguita con tecnica magistrale, ma da alcuni era considerata spesso falsa e vuota, fino al cattivo gusto.

Monet era lontano dall’interpretazione accademica dell’arte. Secondo lui la prassi consolidata costringeva a rappresentare la realtà in modo arido e antiquato, mentre lui voleva ritrarre il mondo in modo più vitale e vero. Partendo da questa semplice premessa, il pittore francese divenne l’artefice di un’innovazione in campo tecnico e tematico.

La poetica dell’Impressionismo si avvalse in particolare delle scoperte scientifiche che all’epoca rivelarono il modo cui percepiamo ciò che ci circonda. Emerse che luce e colori, opportunamente elaborati dal nostro cervello, ci consentono di intuire la forma degli oggetti e le loro coordinate spaziali.

Forte di tale rivelazione, Monet eliminò definitivamente la prospettiva geometrica dai suoi quadri e si basò unicamente sulla visione diretta delle cose. Egli riproduceva oggetti e paesaggi seguendo solo l’istinto della visione e ignorando rilievo e chiaroscuro. Con tale metodo pittorico, i suoi dipinti acquistarono in spontaneità e freschezza. Inoltre, la sua pittura, abbandonata l’ossessione per i dettagli tipica dello stile accademico, divenne vibrante, indefinita e tesa ad afferrare l’impressione pura.

Monet trasse conclusioni stilistiche anche dagli studi sulla cromatica che lo spinsero, ad esempio, a teorizzare l’esistenza delle “ombre colorate”, in quanto le tinte di un dipinto subiscono l’influsso di quelle vicine. Inoltre, l’artista fece sempre maggior uso dei colori puri, affinché il dipinto riflettesse meglio la luce.
E in effetti, nelle sue tele i colori sono dissolti in una luce molto intensa, quasi abbagliante.
Monet dipingeva sempre alla luce naturale, all’aperto, en plein air, appunto, immergendosi nell’ambiente che aveva deciso di ritrarre, invece di restare nel chiuso dei tradizionali atelier.

Questa pittura all’aria aperta obbligava ad essere rapidi nell’esecuzione, cose che rientrava perfettamente nelle convinzioni pittoriche degli impressionisti, pronti a cogliere in ogni situazione le impressioni fuggevoli e irripetibili.
Il modo di dipingere di Monet lo ispirò anche nella scelta dei soggetti, in particolare, amava gli specchi d’acqua che variavano notevolmente in base alle condizioni di luce e colore. In linea con tutte queste considerazioni, le sue pennellate erano rapide e sintetiche.

Nel dipinto “Primavera” o “La lettrice”, realizzato da Monet nel 1872, troviamo messe in pratica le scelte stilistiche dettate dalla nuova poetica impressionista.
Nel quadro è ritratta la sua prima moglie, Camille Doncieux, mentre è intenta a leggere sotto un baldacchino di lillà.
Attualmente, l’opera è custodita al Walters Art Museum (già Walters Art Gallery, principale museo di arti visive di Baltimora, Stati Uniti).

Claude e Camille si sposarono nel 1870, in precedenza erano stati amanti e lei era stata la sua modella per i dipinti figurativi che il pittore francese realizzò tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento.
Pare che Camille fosse davvero eccezionale come modella, tanto da essere utilizzata anche da altri pittori come, Auguste Renoir (1841 – 1919) ed Édouard Manet (1832 – 1883).

In una mostra, presso la galleria parigina di Durand Ruel, organizzata dagli Impressionisti dal 30 marzo al 30 aprile 1876, fu esposta anche la Primavera di Monet. L’artista aveva presentato diciotto opere e in sei di esse era ritratta Camille. In occasione di questa esposizione, al dipinto fu dato il titolo più generico di “Donna che legge”.

I quadri di Monet che raffigurano Camille sono le uniche immagini che ci restano di lei: Alice Hoschedé, la seconda moglie del pittore fece distruggere tutti i ricordi e le immagini della vita di Camille con l’artista.

In Primavera ci troviamo di fronte a un’incantevole scena di vita domestica.
Questo dipinto, come numerosi altri, fu realizzato nel giardino dell’abitazione di Monet ad Argenteuil, un piccolo villaggio a nord-ovest di Parigi, dove l’artista e la sua famiglia andarono a vivere dal 1871.
La scena è tipicamente impressionista e la presenza della donna serve ad arricchire la rappresentazione.

Camille è seduta, il suo ampio vestito rosa si allarga su un bellissimo prato punteggiato di fiori; è concentrata nella lettura e il suo volto e le sue forme sono ben delineati, cosa che non accade nelle raffigurazioni successive, dove la modella è più anziana e meno attraente.
La luce del sole emerge qua e là tra le fronde degli alberi e fa apparire chiazze di luce sul terreno e sul vestito di mussola.

In copertina: “Primavera” o “La lettrice” (1872) di Claude Monet (50 x 65,5 cm), conservato al The Walters Art Museum, Baltimora, Stati Uniti

Ivan Kramskoj e l’intimità della lettura

Ivan Kramskoj e l'intimità della lettura

Ivan Kramskoj è un altro degli autori che ha rappresentato in diversi dipinti il tema della lettura. In questo specifico ritratto, “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista”, il pittore ha raffigurato sua moglie, Sofia Kramskaya, immersa nella lettura di un libro.

Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” è un dipinto del 1866, del pittore e critico d’arte russo, Ivan Nikolaevič Kramskoj (Ostrogožsk, 8 giugno 1837 – San Pietroburgo, 6 aprile 1887), che fu anche capo e organizzatore del gruppo di artisti aderenti al Tovariščestvo peredvižnych chudožestvennych vystavok (Società per le esposizioni d’arte ambulanti). Gruppo che sorse nel 1870 a Pietroburgo, in reazione all’accademismo ufficiale, con il programma di rivolgere l’arte a motivi veristici e farne mezzo di educazione ed elevazione sociale.

“Lettura” fa parte dei lavori della fase iniziale dell’attività artistica di Kramskoj, ma già in questa tela si possono individuare gran parte dei tratti che caratterizzeranno la sua produzione pittorica futura.
Nel quadro possiamo ammirare un incantevole ritratto di donna che, seduta all’aperto, in un parco o in un giardino, sta leggendo un libro.

La donna del quadro è Sofia Kramskaya, consorte del pittore. I due coniugi ebbero un matrimonio felice e armonioso; Kramskoj nutriva per sua moglie un grande affetto e spesso la troviamo raffigurata nei suoi dipinti.
In questo specifico ritratto, Sofia è seduta su una panchina di pietra, ha un’espressione seria; gli occhi sono bassi, rivolti verso un grande libro che tiene aperto, sostenuto dalla sua mano sinistra. Il braccio destro è appoggiato con grazia su un cornicione di pietra, sul cui lato anteriore si affacciano delle foglie di una pianta rampicante.

Sofia è ritratta in una posa libera: la mano destra sorregge la fronte, la testa è inclinata leggermente in avanti, la mano sinistra aperta è posata sul grembo.
Gli abiti che indossa sono alla moda: uno scialle verde chiaro a strisce rosse (le avvolge morbidamente i fianchi e sporge da sotto il braccio, posato sul davanzale di pietra della panchina); una camicetta bianca con il colletto a balze; un’ampia gonna marrone.

I colori dei suoi vestiti sono chiari e brillanti, specie la camicia. Inoltre, una fonte di luce è concentrata sulla figura e la fa spiccare sullo sfondo scuro, dando la sensazione che Sofia sia avvolta in un alone luminoso, mentre un riverbero della luce investe anche il suo volto assorto nella lettura.
Un ciondolo compare al centro della sua scollatura a V, mentre attorno alla vita indossa una fascia di colore scuro.
Sul davanti della gonna è appoggiato un ombrello, mentre alle sue spalle, sulla sinistra del dipinto, intravediamo un cappello di paglia, a tesa larga, che presenta una fascia scura intorno alla base, dietro di esso sporgono le foglie di una pianta.

L’artista ha curato con precisione e realismo ogni dettaglio: i capelli scuri, lucidi e ricci composti in un’elegante acconciatura; la costosa spilla sul vestito; lo squisito scialle che è sceso dalle spalle.
Il pittore ha utilizzato colori espliciti e ha giocato con luci e ombre che donano una nota di morbidezza all’intera figura, al fine di esaltarne la sensualità, nonché la tenerezza.
È una scena intima, caratterizzata da una compostezza aristocratica e sembra quasi che la donna fosse ignara di essere oggetto delle attenzioni dell’artista.

Lo sfondo è fatto di alberi dalle foglie rosse e verdi; il sole sta tramontando e intravvediamo sulla sinistra del quadro uno scorcio del suo viaggio verso la notte, testimoniato dal cielo tinto di arancione.

In copertina: “Lettura. Ritratto della moglie dell’artista” (1866-1869) di Ivan Nikolaevič Kramskoj, olio su tela (dimensioni 56 x 64 cm), Tretyakov Gallery – Mosca, Russia

“La liseuse”, l’assorta lettrice di Pierre-Auguste Renoir

“La liseuse”, l’assorta lettrice di Pierre-Auguste Renoir

Renoir è uno dei tanti artisti che ha raffigurato soggetti immersi nella nobile arte della lettura.
Nei suoi quadri, a leggere sono sia uomini sia donne, ma anche molti bambini e adolescenti, tutti accomunati dalla stessa “devota” concentrazione.
Una di queste attente figure è “La liseuse”, dipinta tra il 1875 e il 1876, in pieno periodo impressionista.

Il pittore Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 25 febbraio 1841 – Cagnes-sur-Mer, 3 dicembre 1919) è ritenuto uno tra i massimi esponenti dell’Impressionismo e uno degli interpreti più spontanei di questo particolare movimento.

L’artista francese ha lasciato una messe davvero nutrita di opere: ben cinquemila tele e un numero altrettanto elevato tra disegni e acquerelli. Si è anche distinto per la sua poliedricità, attraversando nella sua carriera artistica diversi periodi.

In un suo scritto disse che “l’opera d’arte deve afferrarti, avvolgerti, trasportarti”. Secondo me, queste parole, calzano perfettamente anche per l’arte della lettura.
In uno dei tanti soggetti che Renoir ha raffigurato intento a leggere, possiamo ravvisare quel rapimento che l’artista ritiene si debba provare davanti a un’opera d’arte. Sto parlando del dipinto “La liseuse” (La lettrice) realizzato tra il 1875 e il 1876.

Nel dipinto, come afferma il titolo stesso, è raffigurata una donna immersa nella lettura di un libro.
A fare da modella a Renoir fu Marguerite Legrand, detta Margot, una giovane graziosa di Montmartre che morì di febbre tifoidea nel febbraio del 1879.
L’artista, che rimase molto colpito dalla sua morte, di lei disse che “aveva una pelle che rifletteva la luce”, e in questo ritratto, in effetti, il pittore è riuscito a mettere in risalto l’incarnato della sua amica, grazie alla nuova tecnica pittorica impressionista.

Realizzata in studio, l’opera è caratterizzata da una freschezza e da una spontaneità del tratto tipica dei dipinti eseguiti di getto, en plein air.

Nel quadro sono presenti pochissimi dettagli e un solo oggetto: un libro; perché Renoir intendeva concentrare l’attenzione dello spettatore sull’intensità della lettura.
Lo sfondo è accennato, in quanto deve solo trasmettere l’idea della profondità, senza definire un ambiente preciso, mentre i colori, chiari e luminosi, sembrano ravvicinare il viso della giovane all’osservatore.
Inoltre, per accrescere la luminosità cromatica della tela, Renoir accosta larghe e disordinate pennellate di colore, seguendo la tecnica impressionista.

L’artista ha anche fissato sulla tela dei punti di colore, quali: le labbra di un rosso brillante, lo jabot rosa che la ragazza indossa come ornamento sopra una blusa scura.
Gli occhi della lettrice sono rivolti verso il basso: due semplici ed essenziali linee nere.
L’espressione del viso è serena e trasmette a chi guarda la concentrazione della “Liseuse”, nonché il piacere della lettura che la ragazza, con il libro aperto davanti a sé, sta provando.

Renoir insiste sui colori, non traccia un contorno; utilizza il chiaroscuro per ravvivare il volto della ragazza, mentre le tonalità sono alterate da effetti di luce. Per l’incarnato, l’artista ha aggiunto dei violenti tocchi di giallo, sicuramente ispirati dall’ambientazione – probabilmente l’interno del Caffè Guerbois o del Café de la Nouvelle Athènes, luoghi tra i più frequentati dagli Impressionisti – cioè dalle tonalità dorate della luce artificiale a gas.

In questo dipinto, la luce gioca con il soggetto e i suoi riflessi creano dei richiami in vari punti della tela. Il pittore voleva dare la sensazione di un sole accecante che accende a tratti i capelli rossi della ragazza, illumina le pagine del libro aperto e poi si riflette dalla carta bianca sul viso della giovane.

Renoir ha applicato pennellate rapide, studiando con cura l’abbinamento di toni caldi e freddi, ad esempio: il rossore sfumato del volto di Margot si bilancia perfettamente con la zona blu-verde sul lato destro del dipinto.
Inoltre, le zone caratterizzate da colori freddi contrastano con i colori caldi riservati in particolare al volto e ai capelli del soggetto, e persino con i contorni della cornice della finestra che si profilano dietro la testa della ragazza.
Un tocco di luce compare leggero su una spalla e dona un accenno di volume alla figura.

In questo dipinto il disegno non detiene un ruolo speciale perché il soggetto è modellato dal colore.
I contorni sono labili e incerti. Successivamente, le opere di Renoir cambieranno registro riguardo all’importanza del disegno. Ma in questa fase, esso ha un ruolo subordinato, al contrario della tendenza della pittura accademica di quegli anni in cui occupava un posto preminente.

Gustave Caillebotte (1848 – 1894; pittore francese) acquistò “La liseuse” nel 1876; nel 1893, il dipinto entrò nelle collezioni statali francesi e successivamente, fu esposto al museo parigino du Luxembourg e al Louvre. Ora, si trova al museo d’Orsay.

In copertina: “La liseuse” (La lettrice) di Auguste Renoir, olio su tela, 47×38 cm (1876) conservato al Museée d’Orsay, Parigi

Albert Anker: quando la lettura diventa arte

Albert Anker: quando la lettura diventa arte

Il pittore svizzero Anker ha realizzato molti dipinti che raffigurano lettori e lettrici, mostrando quanto fosse importante la lettura nell’Ottocento e rimarcandone la diffusione, e il ruolo da protagonista da essa assunto nella vita delle persone.

Albert Samuel Anker (1° aprile 1831 a Ins, Canton Berna, Svizzera – 16 luglio 1910 ibid), pittore e grafico, è famoso per aver ritratto scene di vita quotidiana con grande vivacità.
Dipinse anche paesaggi rurali, ritratti di bambini, nature morte, scene con personaggi religiosi e storici.
L’artista ha anche dedicato numerose opere al tema della lettura e al piacere di leggere.
Del resto, Anker era un uomo colto, che scriveva e leggeva in ben sei lingue.

Passando in rassegna i libri della sua biblioteca, conservati nella casa museo di Ins e prendendo in esame la sua corrispondenza, scopriamo che il pittore, oltre alle opere teologiche e filosofiche, leggeva anche gli autori greci e latini in originale, e la Bibbia in ebraico.
Non disdegnava neppure la storia, il genere biografico, le descrizioni di viaggi, la storia naturale e quella dell’arte. Tra i suoi scaffali c’era spazio anche per la letteratura francese, come Honoré de Balzac (1799 – 1850) ed Émile Zola (1840 – 1902), e per tutte le opere dello scrittore svizzero Albert Bitzius (pseudonimo di Jeremias Gotthelf, 1797 – 1854).

Oltre ai libri, Anker leggeva anche i giornali. Le sue testate preferite erano “Suisse libérale” e “Berner Volkszeitung”.
I quotidiani gli consentivano di assorbire il gusto e lo spirito dei suoi tempi, di aggiornarsi sui fatti del mondo e di sondare le problematiche sociali che lo interessavano in particolar modo.

I suoi dipinti rispecchiano le sue tendenze e quelle della società in cui viveva: in molti ritratti compaiono uomini, soprattutto contadini di Ins, che leggono giornali. Infatti, a partire dalla metà dell’Ottocento, in Svizzera, c’era una notevole diffusione di periodici, anche nel ceto popolare.

Nel 1860, esistevano ben 298 testate tra giornali e riviste, che dimostravano la volontà del ceto contadino di emanciparsi sia a livello culturale sia a livello politico.
Nei suoi quadri Anker afferma anche il suo orientamento politico, mettendo in mano ai suoi contadini il “Seeländer Bote”, un giornale di ispirazione liberale e conservatrice.

A leggere però non sono solo gli uomini, in molte opere del pittore svizzero, infatti, sono raffigurate giovani donne che si dedicano con fervore alla lettura.
Arken con i suoi dipinti ha immortalato i cambiamenti sociali in atto ai suoi tempi. Se nel Settecento e nel primo Ottocento la lettura era stata un mezzo per istruire le ragazze della borghesia, ora questa tendenza si estende alle donne del ceto popolare.

L’artista però, non ha raffigurato donne intente a leggere giornali: la politica era ancora un affare da uomini. Alle donne erano destinate letture come la Bibbia, la storia della Svizzera, i romanzi di Gotthelf, biografie, poesie, novelle.
All’epoca, procurarsi libri per letture individuali era semplice: c’erano molte biblioteche popolari un po’ ovunque nel Cantone di Berna. Nel 1866 erano attive ben 173 “Jugend- und Volks-bibliotheken” (biblioteche per la gioventù e per il popolo)

Oltre a uomini e donne, Anker ha raffigurato anche bambini e adolescenti, fissati sulla tela mentre ad esempio leggono ad alta voce a qualcuno.
I soggetti ritratti hanno atteggiamenti attenti e sono particolarmente concentrati nel loro compito; ad ascoltarli ci sono compagni, fratellini più piccoli, genitori che stanno svolgendo lavori domestici oppure vecchi nonni.

Nell’Ottocento, nel Cantone di Berna gran parte della popolazione sa leggere. E il gesto di qualcuno che legge per altri indica non solo l’intimità e la complicità che la lettura è in grado di creare tra le persone, ma anche il valore che riveste tale attività per la scuola bernese.
Inoltre, i dipinti che raffigurano soggetti che leggono ad alta voce mostrano un metodo di insegnamento che mirava a far apprendere giusto tono e ritmo, e ad esprimere le emozioni, affinché gli ascoltatori fossero affascinati e conquistati, e mantenessero desta la loro attenzione.

Arken era un intellettuale a trecentosessanta gradi e la sua pittura mostra tutta la ricchezza della sua conoscenza.
Nell’esplorare la lettura e il mondo dei libri, l’artista ha assunto anche il ruolo di illustratore: nel 1890, ha realizzato duecento disegni per i nove volumi di opere scelte di Gotthelf.

Il pittore svizzero nei suoi dipinti ha riassunto la funzione della lettura, passando attraverso varie generazioni e includendo una larga tipologia di supporti: dal libro al giornale, dal documento alla lettera.
Ha raffigurato vari tipi umani: scolari; ragazze intente a pettinarsi o a lavorare a maglia che intanto leggono; bambini che osservano incuriositi dei fogli stampati; segretari comunali che confrontano documenti ufficiali; anziani che leggono la Bibbia o il giornale.

Dalla Bibbia ai romanzi, dall’apprendimento al consumo, la lettura è analizzata in tutte le sue forme; valutata per gli umori e le differenti reazioni che suscita. Inoltre, il pittore rappresenta i suoi lettori in varie ambientazioni: en plein air; seduti in poltrona; a letto durante una convalescenza.

Inoltre, ci sono momenti e momenti. C’è la lettura domenicale della Bibbia con la famiglia o la lettura delle missive di coloro che sono in guerra; c’è la lettura del giornale che tiene aggiornati sulle questioni del mondo oppure la lettura d’evasione, tipicamente femminile.

In pratica, i dipinti di Arken mostrano in un’efficace carrellata le varie declinazioni dell’affascinante mondo della lettura, dei lettori e del leggere in generale, evidenziando come questa attività nell’Ottocento accompagnasse in sordina ogni istante della vita delle persone.

In copertina: Albert Anker, particolare del dipinto “Eine Gotthelf-Leserin” (una lettrice di Gotthelf) – olio su tela 59 × 42 cm1884