L’estate in poesia: “Meriggiare pallido e assorto” di Montale

L’estate in poesia Meriggiare pallido e assorto di Montale

Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale fa parte dei miei ricordi scolastici.
La musica delle sue parole mi aveva incantato e continua a incantarmi, ogni volta che alla mente mi sovvengono i suoi versi e mi ritrovo in solitudine a solfeggiarli.

Una poesia che immediatamente mi rimanda all’estate e ai lunghi e assolati pomeriggi della bella stagione è “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale.
Poeta, scrittore, traduttore, giornalista e critico musicale, nato a Genova il 12 ottobre 1896 e morto a Milano, il 12 settembre del 1981, Montale è ritenuto uno tra i massimi poeti italiani del Novecento.

Visse in anni turbolenti, scossi da eventi storici tragici (vide succedersi ben due guerre mondiali), e già nella sua prima raccolta di poesie, “Ossi di seppia”, del 1925, diede voce alle inquietudini del suo tempo e al male di vivere.

Con le raccolte successive, “Occasioni” del 1939 e “La bufera e altro” del 1956, la sua poetica si approfondisce. Invece, nelle ultime raccolte, tra cui “Satura” del 1971 e “Quaderno di quattro anni” del 1977, tutte scritte dopo la morte della moglie, il poeta affronta nuove tematiche e sperimenta nuovi stili.

Meriggiare pallido e assorto fu scritta probabilmente nel 1916 ed è una tra le poesie più significative del primo Montale. I versi del poeta ci trasportano nella sua Liguria e ci ritroviamo immersi in un caldo pomeriggio estivo, assorti pigramente a osservare e ascoltare quanto accade tra un rovente muro d’orto e uno scorcio di mare lontano.

La scena è piena di vita e ha un suo ritmo speciale: quello dettato dai suoni aspri che fanno da pendant all’aridità del paesaggio.
In questa sorta di singolare partitura, i merli “schioccano”, mentre le serpi “frusciano”, forse alla ricerca di un raggio di sole. A impegnarci visivamente poi, ci sono le formiche che si muovono indaffarate nelle fessure della terra e sulle piante, e noi ci ritroviamo a fissare incuriositi le loro fila che si compongono e si sfaldano alla sommità di piccoli cumuli di terra.
Poi, mentre alle orecchie ci giunge il verso aspro delle cicale, ci rendiamo conto che il paesaggio in cui il poeta ci ha condotto è solo una metafora della vita umana, la cui insensatezza e l’impossibilità di sondarne il significato è rappresentato alla perfezione dall’alta muraglia che sulla cima è cosparsa di cocci aguzzi di bottiglia.

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora si intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

La sera fiesolana di D’Annunzio: perfetta fusione tra uomo e natura

La sera fiesolana di D’Annunzio perfetta fusione tra uomo e natura

Nella poesia “La sera fiesolana” Gabriele d’Annunzio inneggia alla sensualità della natura che si tramuta in donna, mentre il poeta si inebria di suoni e profumi al calare della notte.

“La sera fiesolana” di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938) fu scritta e pubblicata sulla rivista “Nuova Antologia” nel 1899. Essa apre la raccolta “Alcyone” (1903) ed è ritenuta uno dei vertici della vasta produzione poetica di D’Annunzio.

Questa poesia è incentrata sul rapporto di reciproca e costante fusione tra uomo e natura, tema caro a D’Annunzio che con questa lirica tocca la sua massima espressione artistica e mostra una piena maturità umana e creativa, maturità che ha raggiunto negli anni a cavallo fra i due secoli. In questa fase si allontana dai temi politici e patriottici e si rifugia in una poesia più intima.

La sera fiesolana è composta da tre strofe di quattordici versi di varia lunghezza. Al termine di ogni strofa il poeta ha introdotto una laudazione di tre versi.
Ogni strofa include tre, o due, o quattro endecasillabi iniziali e un quinario finale, che rima con il primo verso successivo. L’ottavo verso, all’inizio della seconda parte della strofa, è sempre endecasillabo.
Il terzetto a fine strofa, concepito in forma di antifona, richiama il “Cantico delle creature di san Francesco” ed è formato da un endecasillabo, dal trisillabo “o Sera” associato a un dodecasillabo, e da un quinario.

Questa poesia dannunziana è un esempio di musicalità che discende da un uso accorto delle rime e delle allitterazioni, ed è esaltata dall’impiego di numerose figure retoriche. Ad esempio: la sinestesia con cui inizia la lirica (“Fresche le mie parole”) che affianca la sensazione uditiva delle parole a quella tattile della freschezza; le similitudini (“come labbra”, “come il fruscio”, ecc.); le metafore (“rosei diti”, “vesti aulenti”, ecc.); l’apostrofe (“O sera“); l’anastrofe (“che fan di santità pallidi i clivi”); il polisindeto (su i gelsi e su gli olmi e su le viti / e su i pini … / e su il grano … / e su ‘l fieno … / e su gli olivi).

Quando compose La sera fiesolana, D’Annunzio viveva insieme alla compagna, Eleonora Duse (1858 – 1924), nella Villa della Capponcina a Settignano, vicino Firenze, dove si era trasferito nel 1898 e dove rimase fino al 1910.

In questo luogo, dove è facile immergersi nella natura e lasciarsi coinvolgere dalle intense sensazioni che essa provoca, il poeta descrive una serata di giugno nella campagna fiesolana, appunto, dopo la pioggia, nel momento in cui si avvicina il crepuscolo.
In questa oasi di pace, i sensi liberi viaggiano fra suoni e profumi, mentre l’oscurità della notte avanza. Udito, tatto e olfatto si acuiscono a mano a mano che la vista si affievolisce a causa del buio e si possono così percepire melodie, odori e tutto quello che in condizioni normali non si potrebbe avvertire.

Le immagini che ci presenta D’Annunzio ne La sera fiesolana sono fortemente evocative, di una bellezza impalpabile. La sensazione generale, leggendo questa poesia, è trovarsi in un sogno dalle sfumature mistiche. Il misticismo è in legato in particolare ai tre versi di laude posti a conclusione di ogni strofa.

Il tratto saliente di questa lirica resta comunque la sensualità, tipica di D’Annunzio che nei versi finge di colloquiare con una donna, la Sera dal “viso di perla”, dalle “vesti aulenti” e dai “grandi umidi occhi” o quando intravede nel profilo delle colline fiorentine, illuminate dalla luna, delle labbra, pronte a pronunciare delle parole, ma che per un misterioso motivo sono impedite a emettere voce.

Ne La sera fiesolana l’uomo e un tutt’uno con la natura; paesaggio e stato d’animo si riflettono l’uno nell’altro, in un crescendo di emozioni e sensazioni, scandite dal fruscio delle foglie, dal sorgere della luna e dall’apparizione delle stelle, e così via.
Attraverso questa commistione, D’Annunzio dà voce al pensiero decadente che secondo il poeta non è altro che quel processo che conduce la natura ad antropomorfizzarsi e l’uomo a naturalizzarsi.

La sera fiesolana di D’Annunzio

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.


Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.


Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!

Cardarelli: il poeta che conciliò passione e compostezza formale

Cardarelli il poeta che conciliò passione e compostezza formale

Cardarelli ha espresso nei suoi versi le emozioni create dal passare del tempo, dall’avvicendarsi delle stagioni, dal trascorrere dei giorni e delle ore. Due delle sue poesie più famose sono dedicate a Venezia, qui i versi che descrivono la città si fondono con le emozioni del poeta.

Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, 1° maggio 1887 – Roma, 18 giugno 1959), il cui vero nome era Nazareno Caldarelli, è stato un poeta, scrittore e giornalista italiano.
A Corneto Tarquinia, Vincenzo trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Due periodi della sua vita particolarmente duri, segnati dall’assenza della madre, che lasciò la famiglia quando il poeta era ancora piccolo, dalla solitudine e da problemi di salute.

Cardarelli compì studi irregolari e per la maggior parte, come autodidatta.
A diciassette anni scappò di casa e si recò a Roma, per mantenersi si dedicò ai più svariati mestieri, poi nel 1909, intraprese la carriera giornalistica, iniziando a collaborare con vari quotidiani e riviste.
Nel 1916, diede alle stampe la sua prima raccolta di poesie, “Prologhi”. Da quel momento, l’attività giornalistica si intrecciò con quella poetica.

Vincenzo Cardarelli è famoso per le numerose raccolte poetiche, ma anche per le prose autobiografiche di costume e di viaggio: “Prologhi” (1916), “Viaggi nel tempo” (1920), “Favole e memorie” (1925), “Il sole a picco” (1929), “Il cielo sulle città” (1939), “Lettere non spedite” (1946), “Villa Tarantola” (1948).
I suoi punti di riferimento letterari furono: Charles Baudelaire (1821-1867), Friedrich Nietzsche (1844-1900), Giacomo Leopardi (1798-1837), Blaise Pascal (1623-1662). Grazie a loro riuscì a dare forma alle proprie passioni incastonandole in una cornice razionale.
La sua poesia era essenzialmente descrittiva, connessa ai ricordi: di paesaggi, di animali, di persone e di stati d’animo. Il poeta utilizzava un linguaggio discorsivo ma al contempo, passionale e profondo.

La vita di Cardarelli fu essenzialmente un’esistenza isolata; per similitudini poetiche, caratteriali e anche per problemi di salute (soffriva del morbo di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare) fu accostato a Leopardi.
Morì a Roma, il 18 giugno 1959, e il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca, come da lui specificatamente richiesto nel testamento.

La sua opera poetica si colloca tra l’avanguardia del primo decennio del Novecento e la restaurazione classicista degli anni venti. Dello spirito avanguardistico restò sempre un’eco nella poesia di Cardarelli, anche quando formalmente se ne distaccò. Nelle poesie più vicine a quella corrente il poeta aderiva a particolari scelte espressive, come frammentismo ed espressionismo linguistico, e utilizzava argomenti, quali lo sradicamento, la perdita di identità, l’adolescenza, il viaggio.
Il ritorno all’ordine, dopo le pulsioni avanguardiste, si verificò intorno agli anni Venti e fu la conseguenza di un’incertezza psicologica, causata dalla crisi della funzione sociale dell’intellettuale. Questo clima restaurativo fu accolto con entusiasmo da Cardarelli che reputò tale ritorno al passato e alla tradizione, come un’occasione per rilanciare l’identità del letterato e dell’intellettuale.

I versi di Cardarelli manifestano una grande chiarezza logica e limpidezza linguistica; lo stile è elegante e rigoroso. Il poeta nelle sue liriche ha sempre aspirato alla compostezza, a un tono colloquiale e a un atteggiamento distaccato, muovendosi sempre tra due poli contrastanti, quello dell’impulso trasgressivo e quello del desiderio di autocontrollo. Tra i due estremi, solitamente, prevaleva la moderazione che sfociava in un garbo formale.

Nelle poesie di Cardarelli, i temi ricorrenti sono il trascorrere delle stagioni, i ricordi dell’infanzia e dei paesaggi collegati a quel periodo. Il poeta esplorava allo stesso modo la vitalità estiva e il disfacimento malinconico dell’autunno. Per lui, il passare del tempo era l’emblema delle vicissitudini della vita.

Tra le due Guerre mondiali, Cardarelli visse tra Toscana, Lombardia e Veneto. Il Veneto sembra aver dato le ali alla sua ispirazione, specialmente la città di Venezia alla quale il poeta ha dedicato due tra le sue poesie più note.

La prima poesia sulla città veneta è: “Settembre a Venezia” che compare per la prima volta nella raccolta “Poesie”, del 1936.
Il poeta raffigura la città lagunare durante un crepuscolo di settembre; gli ultimi raggi del sole fanno brillare gli ori dei mosaici di San Marco, mentre la luna sorge sulle Procuratie vecchie.
Il componimento poetico è diviso in due parti. Nella prima, il poeta descrive gli effetti del tramonto sulla città; nella seconda, riflette sulle impressioni che susciterà in lui il ricordo, quando le immagini davanti ai suoi occhi si saranno sedimentate, diventando finalmente sue.
I versi di questa lirica sono liberi, ci sono soltanto due casi di rima (vv.8 e 11; 20 e 22), mentre ci sono allitterazioni e rispondenze interne.

Settembre a Venezia

Già di settembre imbrunano
a Venezia i crepuscoli precoci
e di gramaglie vestono le pietre.
Dardeggia il sole l’ultimo suo raggio
sugli ori dei mosaici ed accende
fuochi di paglia, effimera bellezza.
E cheta, dietro le Procuratìe,
sorge intanto la luna.
Luci festive ed argentate ridono,
van discorrendo trepide e lontane
nell’aria fredda e bruna.
Io le guardo ammaliato.
Forse più tardi mi ricorderò
di queste grandi sere
che son leste a venire,
e più belle, più vive le lor luci,
che ora un po’ mi disperano
(sempre da me così fuori e distanti!)
torneranno a brillare
nella mia fantasia.
E sarà vera e calma
felicità la mia.

L’altra poesia dedicata da Cardarelli alla città lagunare è: “Autunno veneziano”. Fu pubblicata nel 1942, nella raccolta “Poesie”. In questi versi, il poeta illustra un autunno fatto di morte e di disfacimento, privo di suoni e velato di una malinconia venefica.

Autunno veneziano

L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale,
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando

il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale

è tutto l’autunno veneziano.

Così a Venezia le stagioni delirano.

Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.

Venezia ha avuto un’eco nella vita e nella produzione poetica di Cardarelli. Mentre risiedeva nella città veneta, il poeta diede corpo al suo fascino, attraverso versi dotati di sensibilità ed eleganza. Le sue parole la raffigurano sospesa in un magico equilibrio tra decadenza e antichi splendori bizantini.
Il punto di partenza di Cardarelli, anche nel caso delle due liriche dedicate a Venezia, è lo stesso che ricorre in tutta la sua poetica: una stagione, un ricordo, un’emozione.