Mottetto di Dufay e cupola di Brunelleschi: due meraviglie a confronto #1

Mottetto di Dufay e cupola di Brunelleschi due meraviglie a confronto #1

“Nuper rosarum flores” è un brano musicale composto da Guillaume Dufay in occasione di una celebrazione fiorentina: la consacrazione della chiesa di Santa Maria del Fiore.

Chi non conosce la cupola di Brunelleschi, ma quanti sanno che un mottetto fu scritto appositamente da un musicista franco-fiammingo, Guillaume Dufay, per essere cantato durante la cerimonia della consacrazione della celebre cattedrale di Firenze?

Il mio ultimo soggiorno a Firenze risale a poco prima che esplodesse l’epidemia di covid. Ci sono un’infinità di luoghi interessanti e meravigliosi da visitare a Firenze, ma una delle cose più preziose da ammirare in città è la cupola di Santa Maria del Fiore. Impossibile non restare affascinati da una struttura così straordinaria.

Ai tempi della mia tesi di laurea, ho scoperto la relazione esistente tra questa grandiosa opera architettonica e una composizione musicale altrettanto pregevole. Si tratta di “Nuper rosarum flores” (Ecco fiori di rosa) di Guillaume Dufay (1397 ca. – 1474; compositore e teorico musicale franco-fiammingo, figura di rilievo della scuola di Borgogna e tra i più noti compositori europei della metà del Quattrocento. La sua opera ha dato inizio al periodo rinascimentale in musica), un mottetto isoritmico (isoritmia: ripetizione di una figura ritmica – successione di valori di durata delle note – nelle diverse frasi di una composizione musicale) composto nel 1436, che fa riferimento al nome e allo stemma di Firenze, e alla dedica della basilica a Santa Maria del Fiore.

“Nuper rosarum flores” fu scritto da Dufay in occasione della cerimonia per la consacrazione della cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, quando finalmente, la cupola edificata dall’architetto e scultore Filippo Brunelleschi (1377-1446) fu portata a compimento. Per rendere l’idea del fasto e della solennità della cerimonia basterà dire che il rito della dedicazione fu officiato da Papa Eugenio IV in persona, il 25 marzo del 1436.

I mottetti celebrativi come quello di Dufay erano una consuetudine per quell’epoca, si trattava di brani destinati a dare veste sonora a importanti eventi della vita pubblica. Inoltre, il musicista franco-fiammingo è riuscito in questa composizione a coniugare l’antico stile isoritmico con il nuovo stile contrappuntistico che fu sviluppato nel decennio successivo da lui stesso e dai suoi successori.

Possiamo solo immaginare l’effetto che produsse il prodigioso brano musicale in coloro che furono presenti, possiamo però farcene un’idea, leggendo le testimonianze scritte che sono rimaste di quei memorabili festeggiamenti.
In particolare, è interessante la descrizione fornita da Giannozzo Manetti (1396-1459; scrittore, filologo e umanista italiano, importante esponente del primissimo Rinascimento letterario), uno dei pochi testi umanistici che descrivono, anche se in modo generico, una esecuzione di musica polifonica.

Si udirono cantare voci così numerose e così varie, e tali sinfonie s’elevarono verso il cielo, che si sarebbe creduto di sentire un concerto d’angeli […] Quando il canto cessava […] si sentivano suonare gli strumenti in maniera […] allegra e soave […] Al momento dell’elevazione la basilica tutta intera risuonò di sinfonie così armoniose, accompagnate dal suono di diversi strumenti, che si sarebbe detto che il suono e il canto del paradiso fossero scesi dal cielo sulla terra” (Giannozzo Manetti, “Oratio de secularibus et pontificalibus pompis in consecratione basilicae florentinae”, 1436).

Nuper rosarum flores è una composizione simbolica, essa rappresenta, più di qualunque altro esempio del genere, la tendenza quattrocentesca, ereditata dal Medioevo, di strutturare una composizione musicale sulla base di rapporti di grandezza stabiliti matematicamente.

La singolarità del brano di Dufay, però, si spinge oltre le semplici cifre matematiche.
Il musicologo Charles Warren, in un suo articolo del 1973, sostenne che le strutture proporzionali del mottetto fossero collegate alle proporzioni della cupola di Brunelleschi. In realtà, questa tesi si rivelò errata: Craig Wright dimostrò, successivamente, che le proporzioni impiegate dal musicista, probabilmente, derivavano dalle indicazioni bibliche relative alle misure del tempio di Salomone. Le indagini in questo senso non si arrestarono: la possibilità di un rapporto diretto tra le proporzioni del mottetto e quelle della costruzione di Brunelleschi si ripresentarono e furono ampliate, includendo persino la simbologia legata all’Apocalisse.

Nuper rosarum flores è un mottetto a quattro voci: due tenores, motetus e triplum.
La struttura del brano poggia su un cantus firmus (canto fermo, melodia eseguita da una voce – tenor – nell’arco della composizione; base su cui si sviluppava il gioco contrappuntistico delle altre voci) la cui melodia era tratta dal repertorio liturgico, nel caso specifico era l’incipit dell’introito dalla messa per la dedicazione di una chiesa: “Terribilis est locus iste” (Questo luogo incute rispetto).
Tenor I e II (strumentali) eseguono la melodia con note lunghe e ritmicamente sfalsata, a distanza di una quinta l’uno dall’altro.

Il mottetto è diviso in quattro parti; in ognuna compare il cantus firmus che però è variato ritmicamente nelle sue quattro riproposizioni da parte dei due tenores.
Le altre due voci: triplum e motetus intonano una lirica latina, iniziano ciascuna sezione da soli e tali restano per 28 brevi (breve: valore musicale di durata doppia dell’intero; è raffigurata come una testa rettangolare vuota o, più recentemente, come una testa ovale vuota tra due barre laterali), poi alle loro voci si uniscono i due tenores, per la durata di altre 28 brevi.
Ogni sezione è formata da due segmenti (28+28 brevi), il primo è eseguito a due voci, il secondo a quattro.

Osservando esclusivamente la notazione del mottetto di Dufay si rilevano dimensioni identiche (56 brevi), ma il metro nella composizione è variato, per cui la durata autentica di note e pause non è la stessa. Considerando il numero di tactus (unità di misura del tempo e relativa figura di nota; nella musica rinascimentale, di solito, corrispondeva al battito medio del polso umano che era il punto di riferimento per stabilire il valore assoluto di durata di tutte le figure musicali della notazione) si ricavano quattro numeri dalle corrispondenti sezioni: 168, 112, 56, 84. Riducendo a i minimi termini questi numeri e affiancando a essi altre cifre – ricavate dai loro prodotti e dai divisori usati per semplificare i quattro numeri delle sezioni – si ottengono altre serie, tra cui compare il numero 7 che emerge anche dal testo (quello in latino cantato da motetus e triplum è composto da 4 strofe di 7 versi e ogni strofa possiede versi di 7 sillabe).

I numeri ottenuti rientrano nel panorama della metafisica medievale e umanistica che riteneva che la struttura del cosmo e dell’uomo fossero regolati da rapporti matematici.
Il mottetto di Dufay non fa difetto a tale regola: l’esistenza di rapporti proporzionali tra le dimensioni delle sezioni e la presenza frequente di certi valori numerici nella struttura interna di Nuper rosarum flores rientrava nella consuetudine di ricreare l’ordine cosmico, anche all’interno di creazioni musicali, come in qualsiasi altra realizzazione umana.
Inoltre, in Nuper rosarum flores sono presenti numeri con un significato simbolico, oltre ai riferimenti biblici al tempio di Salomone (le cifre 6, 4, 2 e 3 rimandano alle proporzioni secondo cui, stando all’antico testamento, era stato edificato il tempio) c’è anche un richiamo esplicito alla Vergine, attraverso il numero 7 che nel simbolismo medievale era a lei tradizionalmente collegato (sette dolori di Maria, sette gioie, sette opere di misericordia, sette anni di esilio trascorsi in Egitto, ecc.)

Se il mottetto Nuper rosarum flores di Dufay è un capolavoro sonoro che ha travalicato i secoli, la cupola di Brunelleschi non è certo da meno: è una realizzazione architettonica grandiosa che tuttora suscita ammirazione e stupore (ne parleremo in un prossimo post).

Testo e traduzione del mottetto

Nuper rosarum flores
Ex dono pontificis
Hieme licet horrida
Tibi, virgo coelica,
Pie et sancte deditum
Grandis templum machinae
Condecorarunt perpetim.

Hodie vicarius
Jesu Christi et Petri
Successor Eugenius
Hoc idem amplissimum
Sacris templum manibus
Sanctisque liquoribus
Consecrare dignatus est.

Igitur, alma parens
Nati tui et filia
Virgo decus virginum,
Tuus te Florentiae
Devotus orat populus,
Ut qui mente et corpore
Mundo quicquam exorarit

Oratione tua
Cruciatus et meritis
Tui secundum carnem
Nati Domini sui
Grata beneficia
Veniamque reatum
Accipere mereatur.
Amen

Recentemente fiori di rose,
come dono del pontefice, – nonostante il terribile inverno –
hanno ornato questo tempio
di eccezionale costruzione
dedicato devotamente e solennemente
a te, vergine del cielo.

Oggi il vicario di Gesù Cristo
e il successore di Pietro, Eugenio,
si è degnato di consacrare
questo grandissimo tempio
con le sue sante mani
e con i sacri oli.

Ora, benevola madre
e figlia di tuo figlio,
vergine e decoro di tutte le vergini,
il tuo devoto popolo di Firenze
prega che chiunque abbia richiesto
qualcosa con una mente e un corpo sani

sia degno di ottenere
con la tua preghiera
e per i meriti di tuo figlio
nella sua sofferenza carnale
i graditi doni del Signore
e il perdono dei peccati.
Amen

In copertina: Guillaume Dufay e Gilles Binchois (a destra). Miniatura tratta da Martin Le Franc, “Champion des dames” (Arras 1451), collezione BnF, ms. en 12476, foglio 98.

Giacomo Casanova: la vita rocambolesca di un seduttore I

Giacomo Casanova la vita rocambolesca di un seduttore

Giacomo Casanova, il cui anniversario della nascita ricorre proprio oggi, 2 aprile, fu un uomo dai molti talenti. Grande viaggiatore, mente brillante passava dalla poesia all’alchimia e fu anche un notevole scrittore, soprattutto quando mise per iscritto le sue mirabolanti avventure.

Chi non conosce il termine “Casanova”?
Immagino che tutti sappiano il significato acquisito di tale parola, cioè seduttore e donnaiolo, individuo che ha successo con le donne ed è sempre in cerca di avventure galanti. Scommetto che altrettanto nota sia la sua derivazione dal settecentesco scrittore e avventuriero veneziano, Giacomo Casanova.

Ma quanti conoscono la vita di questo singolare personaggio che era molto più di un raffinato seduttore?

Giacomo Girolamo Casanova (Venezia, 2 aprile 1725 – Duchov, 4 giugno 1798) oltre alle donne, aveva anche molti altri interessi, altrettanto impegnativi, quali l’esoterismo, l’alchimia, la filosofia e tra le tante professioni e mestieri che esercitò, un po’ per passione e un po’ per necessità, fu diplomatico, scienziato e persino agente segreto. Fu anche scrittore e autore di una considerevole produzione letteraria che abbracciava: trattati e testi saggistici di vari argomenti; opere letterarie in prosa e in versi.

A dargli fama e maggiore lustro e a fargli acquisire notorietà mondiale come conquistatore di cuori femminili, fu l’ “Histoire de ma vie” (Storia della mia vita). In questo testo, Casanova descrisse con una certa schiettezza le sue avventure, parlò dei suoi viaggi e narrò, in particolare, le sue relazioni amorose.
L’autore scelse il francese per scrivere l’Histoire, questa decisione fu frutto di una ponderata valutazione: nel XVIII secolo, il francese era la lingua più nota ed era parlata dall’élite europea.

Casanova visse in una fase di svolta della storia e persino la sua opera letteraria precorreva i tempi, anche se lui non se ne rese conto. Come non si rese conto che i valori e i principi dell’ancien régime e della sua classe dominante: l’aristocrazia, su cui lui aveva modellato la sua esistenza, erano avviati irrimediabilmente al declino.

Giacomo Casanova nacque in Calle della Commedia (attualmente Calle Malipiero), vicino alla chiesa di San Samuele. Suo padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino, mentre sua madre, Zanetta Farussi, era un’attrice veneziana che riscosse nella sua vita un certo successo professionale – ricevette elogi anche da Carlo Goldoni.
Già la nascita di questo singolare personaggio nasconde un segreto, neanche troppo nascosto, perché circolava tra il popolo e fu confermato dallo stesso Casanova in un libello. Inoltre, non si spiegherebbero certi fatti, se appunto non si nutrissero dubbi sulla vera identità di suo padre. Le voci popolari indicavano, come più probabile genitore, il nobile veneziano, Michele Grimani, che aveva avuto una relazione con la madre di Casanova. Anche una certa somiglianza tra padre e figlio non faceva che confermare tale possibilità e piuttosto rivelatore fu anche l’aiuto e la protezione che la famiglia Grimani concesse a Casanova in tutto l’arco della sua esistenza.

Fu la nonna materna, Marzia Baldissera in Farussi, a occuparsi principalmente di lui che era rimasto orfano del padre in tenera età ed era poco seguito dalla madre, costretta a viaggiare per lavoro.
A nove anni Casanova si trasferì a Padova per studiare e qui frequentò anche l’università. Alla fine degli studi, fece i suoi primi viaggi e nel 1742, comparve di nuovo a Venezia. L’anno successivo si verificarono diversi fatti spiacevoli per il nostro libertino: morì sua nonna, alla quale era particolarmente legato; la madre lasciò la casa in Calle della Commedia e si sistemò con i figli in un’abitazione più modesta. Questi cambiamenti influirono molto nella vita di Casanova che, per la prima volta, finì in carcere, a causa del suo atteggiamento ribelle.

Uscito di prigione, dapprima fu in Calabria, poi si spostò a Napoli e a Roma. Fu al servizio di vari prelati, ma ben presto fu liquidato per la sua condotta imprudente e nel 1744, approdò, per la seconda volta ad Ancona, qui si innamorò di un castrato: Bellino che in realtà era una donna, il suo nome era Teresa, con lei Casanova ebbe una lunga relazione e persino un figlio.

Tornato a Venezia, visse per un po’ dei proventi guadagnati suonando il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei Grimani. Nel 1746, per un caso fortuito, strinse un’amicizia che durò tutta la vita con il senatore veneziano Matteo Bragadin e inoltre, conobbe i due più cari amici del patrizio veneziano, Marco Barbaro e Marco Dandolo. Queste conoscenze gli furono utili in più occasioni.
Qualche anno dopo, invece, conobbe Henriette, uno dei suoi più grandi amori. Si pensa si trattasse di un’aristocratica di Aix-en-Provence, forse, Adelaide de Gueidan.

Nelle sue memorie, Casanova cita personaggi reali, a volte ne vela l’identità, specie quando si trattava di donne sposate che spesso sono menzionate con le sole iniziali oppure con nomi inventati, ma in generale è semplice individuare chi siano i soggetti di cui parla l’autore e anche i fatti sono corretti e verificabili.
Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che alcuni passaggi siano romanzati e inventati dall’autore, pur facendo riferimento a personaggi esistiti storicamente. In ogni caso, episodi veri o romanzati, la qualità delle Memorie non muta: lo scrittore riesce a creare un ritmo serrato e persino la tensione emotiva dei suoi personaggi è dotata di un sorprendente realismo. Non sarà tutto vero, forse, ma il testo funziona ed è efficace.

Nel 1750, Casanova torna a Venezia, ma pochi mesi dopo parte di nuovo alla volta di Parigi. In questo periodo aderisce alla Massoneria che gli consente non solo di incontrare personaggi di un certo rilievo, quali Mozart e Franklin, ma di ottenere non poche facilitazioni di varia natura.

È il 1755, quando lo troviamo di nuovo a Venezia, di rientro da viaggi in varie città: Dresda, Praga e Vienna. L’accoglienza non fu delle migliori: Casanova fu arrestato e imprigionato nei Piombi (antica prigione ubicata nel sottotetto del Palazzo Ducale di Venezia, nel sestiere di San Marco; il singolare nome deriva dal materiale con cui era fabbricato il loro tetto. Qui si era imprigionati per volontà del Consiglio dei Dieci, per crimini politici o perché si era in attesa di giudizio).
Casanova però, restando fedele alla sua natura, sprezzante del pericolo e della possibile conseguente eliminazione da parte degli inquisitori, evade in maniera rocambolesca dalla prigione veneziana.

I motivi dell’arresto vedono fioccare molte ipotesi, ma ne parleremo in seguito, in un prossimo post

In copertina: particolare di un presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo)

Flâneur e l’arte di “andare a zonzo” per le vie della propria città

Flâneur l’arte di andare a zonzo per la propria città

Come vi muovete in città? Camminate senza guardarvi intorno, infilando un passo dietro l’altro? Per raggiungere la vostra meta percorrete solo le vie più brevi o quelle che conoscete meglio? O siete, invece, degli inguaribili “flâneur”?

Flâneur, come avrete già intuito, è un termine francese, a coniarlo e renderlo famoso fu il poeta simbolista Charles Baudelaire (1821-1867; oltre che poeta, critico letterario, critico d’arte, giornalista, filosofo, aforista, saggista e traduttore).
Il termine flâneur indica il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie della città, senza alcuna fretta. Il suo girovagare ha come unico scopo quello di sperimentare e provare emozioni, osservando il paesaggio.
Se volessimo tradurre l’arte del flâneur in italiano, potremmo dire: “andare a zonzo“.

Baudelaire usò il termine flâneur per definire l’artista la cui mente è indipendente, imparziale e appassionata, “che il linguaggio può solo definire maldestramente“.
Per il perfetto flâneur, per l’osservatore appassionato, è un piacere immenso prendere la residenza nel numeroso, nell’ondulato, nel mobile, nel fugace e infinito. Essere lontano da casa, eppure sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo, e rimanere nascosto al mondo“.

Sotto l’influenza di Georg Simme (1858-1918; sociologo e filosofo tedesco), Walter Benjamin (1892 – 1940; filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco, fu un pensatore eclettico che si occupò di estetica, sociologia e materialismo storico), che tradusse Baudelaire, sviluppò la nozione di flâneur e spesso nella sua opera ricorre tale termine.
Molti altri pensatori, dopo di lui, ripresero il concetto di flâneur e lo collegarono alla modernità, alle metropoli, all’urbanismo e al cosmopolitismo. Con il passare del tempo, esso assunse un notevole peso sia in architettura sia urbanistica.

Negli anni intorno al 1850, Baudelaire teorizzava che la figura dell’artista a lui contemporaneo dovesse avere un atteggiamento diverso dal passato, un atteggiamento cioè in sintonia con le nuove dinamiche e le complicazioni introdotte dalla vita moderna che aveva subito parecchi cambiamenti sia a livello sociale sia a livello economico, principalmente legati al processo di industrializzazione.

Secondo il poeta, l’artista doveva immergersi nella città e trasformarsi in “un botanico del marciapiede“, in qualcuno che conoscesse a fondo il tessuto urbano.
Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come volete; ma sarete certamente portati, per caratterizzare questo artista, a gratificarlo di un epiteto che non potreste applicare al pittore di cose eterne, o almeno più durature, di cose eroiche o religiose. A volte è un poeta; più spesso è più vicino al romanziere o al moralista; è il pittore della circostanza e di tutto ciò che suggerisce dell’eternità“.

I termini flâneur e flânerie (bighellonare, passeggiare, vagare) furono creati da Baudelaire, pensando in particolare ai parigini; per lui, le città ideali in cui vagare erano Parigi e Napoli, in quanto idonee all’esplorazione condotta in tutta calma e senza pianificazioni.
L’atteggiamento del flâneur è bene definito dalla frase: “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie di Parigi“, che definisce il suo vagare volutamente pigro e senza ombra di urgenza.

Il filosofo Benjamin afferrò il concetto di flâneur come mezzo di analisi e stile di vita. Lo stile di vita che derivava dalla vita moderna e dalla rivoluzione industriale.
Il flâneur per Benjamin è un borghese dilettante e lui stesso ne vestì i panni: faceva lunghe passeggiate per le strade di Parigi e da queste escursioni urbane traeva osservazioni sociali ed estetiche.

In architettura e urbanistica contemporanea, la progettazione è per il flâneur una maniera per avvicinarsi ai risvolti psicologici della costruzione di edifici. Ad esempio, l’architetto americano, Jon Jerde (1940-2015), concepì il suo Horton Plaza a San Diego e l’Universal CityWalk di Los Angeles, in modo da sorprendere e distrarre potenziali passeggiatori.

Secondo Baudelaire, per il perfetto flâneur “è un piacere immenso prendere dimora nel numero, nell’ondulazione, nel movimento, nel fugace e nell’infinito. Essere lontano da casa, e tuttavia sentirsi a casa ovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo e rimanere nascosto al mondo, questi sono alcuni dei piaceri minimi di quegli spiriti indipendenti, appassionati, imparziali che il linguaggio può solo maldestramente definire. L’osservatore è un principe che si gode il suo incognito ovunque. […] Può anche essere paragonato a uno specchio immenso come questa folla; a un caleidoscopio dotato di coscienza che, con ciascuno dei suoi movimenti, rappresenta la vita multipla e la grazia mobile di tutti gli elementi della vita. È un sé insaziabile del non sé, che in ogni momento lo rende e lo esprime in immagini più vivide della vita stessa, che è sempre instabile e fugace”.

E voi, alla luce di queste parole, vi potete definire dei perfetti flâneur?
Vivete la vostra città appieno oppure per voi le città sono solo luoghi nati per soddisfare bisogni pratici e urgenti necessità?

In copertina: Gustave Caillebotte, “Strada di Parigi in un giorno di pioggia” (Rue de Paris, temps de pluie) (1877), Art Institute of Chicago

Manoscritto Voynich: “il libro più misterioso del mondo” #1

Manoscritto Voynich il libro più misterioso del mondo 1

Il manoscritto Voynich, custodito presso la Biblioteca Beinecke di manoscritti e libri rari dell’Università di Yale, è un codice illustrato, risalente al XV secolo.
La sua datazione è stata precisata al radiocarbonio e colloca la sua stesura tra il 1404 e il 1438.

Il manoscritto Voynich, deve la definizione di “libro più misterioso del mondo” e l’aura arcana che lo circonda a diversi aspetti che lo riguardano:

  • è stato scritto con un sistema di scrittura tuttora non decifrato
  • nel testo compaiono immagini di piante non raffrontabili con alcun vegetale conosciuto
  • l’idioma utilizzato non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico finora noto

Questo singolare volume deve il suo nome a Wilfrid Michael Voynich, in origine Michał Wojnicz (1865 – 1930), un antiquario e mercante di libri rari polacco, successivamente naturalizzato inglese.
Il manoscritto finì nelle mani di Voynich grazie a padre Giuseppe Strickland (1864 – 1915), un religioso gesuita che, nel 1912, fece da tramite tra l’antiquario e il collegio gesuita di Villa Mondragone, vicino Frascati. L’ordine di cui Strickland faceva parte necessitava di fondi per restaurare la villa, li ottenne vendendo trenta volumi della sua biblioteca, tra questi era compreso il manoscritto Voynich.

Entrato in possesso del libro, Voynich rilevò nel testo delle annotazioni in greco antico e stimò che il libro appartenesse al XIII secolo. Inoltre, all’interno del volume, trovò una lettera di Jan Marek Marci (1595 – 1667), rettore dell’Università di Praga e medico reale di Rodolfo II di Boemia (1552 – 1612). Nella missiva era specificato che Marci lo inviava a Roma, all’amico poligrafo, Athanasius Kircher (1602 – 1680; gesuita, filosofo, storico e museologo tedesco del XVII secolo), affinché lo decifrasse.

Nella lettera, datata “Praga, 19 agosto 1665” (o 1666), Marci sosteneva di avere ereditato il manoscritto medievale da un amico, Georg Barches (1585 – 1662), un alchimista (si conobbe il suo nome solo successivamente, grazie a delle ricerche). Il proprietario antecedente del libro era stato l’imperatore Rodolfo II che lo aveva comprato per una cifra considerevole per l’epoca, ben 600 ducati, poiché credeva fosse stato scritto da Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292 ca.; filosofo, scienziato, teologo ed alchimista inglese).
Infine, dalle mani di Voynich il manoscritto passò a quelle di Hans P. Kraus (1907 – 1988; antiquario e libraio austriaco naturalizzato statunitense) che ne fece dono all’Università di Yale.

Il manoscritto Voynich è redatto su pergamena di vitello; ha dimensioni ridotte: 16 cm di larghezza per 22 di altezza e 5 di spessore.
Grazie alle due numerazioni, presenti sui margini delle pagine, si è dedotto che il libro fosse composto da 116 fogli, suddivisi in 20 fascicoli. Inoltre, nel volume sono presenti pagine più grandi che sono state ripiegate, mentre si è riscontrato che all’insieme mancano 14 fogli.

Il libro non contiene solo testo, ma è impreziosito da un certo numero di illustrazioni a colori che raffigurano molti soggetti diversi. La presenza delle immagini ha consentito di comprendere sia la natura del manoscritto di Voynich sia le sezioni in cui è suddiviso:

  • La sezione I (fogli 1-66), “botanica”, presenta 113 disegni di piante sconosciute.
  • La sezione II (fogli 67-73), “astronomica o astrologica”, ha 25 diagrammi che sembrano richiamare delle stelle e sono riconoscibili anche alcuni segni zodiacali. Nonostante ciò, non è possibile definire di cosa parli questa sezione.
  • La sezione III (fogli 75-86), “biologica”, in quanto presenta molte figure femminili nude, spesso immerse fino al ginocchio in un liquido scuro, in delle vasche intercomunicanti.
  • Dopo la sezione III è presente un foglio ripiegato sei volte, dove sono rappresentati nove medaglioni con figure di stelle, raggiere di petali e fasci di tubi.
  • La sezione IV (fogli 87-102), “farmacologica”, è definita così, perché vi sono raffigurate ampolle e fiale. Inoltre, in questa parte del manoscritto Voynich ci sono anche disegni di piccole piante e radici, forse, erbe medicinali.
  • L’ultima sezione (dal foglio 103 sino alla fine) presenta unicamente delle stelline, a sinistra delle righe. Si pensa possa trattarsi di una specie di indice.

La datazione, almeno fino all’inizio del 2011, è stata oggetto di varie ipotesi; tutte scartate nel febbraio 2011, grazie alla datazione del manoscritto Voynich effettuata con la tecnica del carbonio-14.
La datazione precisa si è ottenuta prelevando dei piccoli campioni dai margini di alcune pagine e si è precisato che le pergamene che compongono il volume appartengono a un periodo compreso tra il 1404 e il 1438.
Inoltre, recenti analisi dei pigmenti presenti nel manoscritto, hanno evidenziato affinità con quelli di altri manoscritti del Quattrocento e medievali in genere.

In un primo momento, si pensò si trattasse di un falso, realizzato nel Cinquecento, per ingannare Rodolfo II. L’autore dell’abile truffa fu individuato in Edward Kelley (1555 – 1597; alchimista, mago, astrologo, glottoteta e medium inglese. La glottopoiesi è l’arte di creare linguaggi artificiali sviluppandone la fonologia, il vocabolario e la grammatica), aiutato nella singolare malefatta da John Dee (1527 – 1608; filoso, matematico, geografo, alchimista, astrologo e astronomo inglese).

Altre interessanti teorie stimavano che il libro fosse databile agli inizi del Seicento, in seguito alla scoperta di una firma, grazie all’infrarosso, di Jacobi à Tepenecz, noto come Jacobus Horcicki (1575 – 1622), alchimista al servizio di Rodolfo II. Un’altra possibile datazione fu suggerita da una delle piante rappresentate nella sezione “botanica”, simile al comune girasole, questo pianta giunse in Europa solo dopo la scoperta dell’America, per cui si immaginò che il libro fosse stato scritto dopo il 1492.

I misteri attorno al manoscritto non hanno interessato solo la datazione, ora svelata grazie alla scienza, ma anche la sua decifrazione, ma di questo parliamo in un prossimo post…

“Stille Nacht”: la notte silenziosa cantata in tutto il mondo

Stille Nacht la notte silenziosa cantata in tutto il mondo

Stille Nacht o Silent Night o Astro del Ciel è considerata la canzone simbolo del Natale. Originaria dell’Austria è arrivata in tutto il mondo e quando le sue note risuonano nell’aria, cantate da un solista o da un coro, si sente nell’aria la festa. Si sente che è arrivato Natale.

Stille Nacht, heilige Nacht è uno fra i più famosi canti di Natale al mondo: conta traduzioni in più di 300 lingue e dialetti.
Per conoscere la sua storia bisogna risalire al 1816, quando Joseph Mohr (1792-1848), prete salisburghese, all’epoca assistente parrocchiale nella chiesa di Mariapfarr (Lungau, regione di Salisburgo), mise per iscritto le parole di questa commovente canzone, in attesa di trovare chi fosse in grado di musicarle.

Devono trascorrere due anni prima che si verifichi il felice incontro tra testo e musica. Il compositore che rivestì di note il testo di Mohr fu Franz Xaver Gruber (1787-1863), maestro elementare ad Arnsdorf e organista a Oberndorf, il quale compose di getto la musica per questa canzone.

Nel 1816, ancora priva di musica, Stille Nacht fu semplicemente recitata. Mohr aveva scritto quelle parole ispirate per dare conforto e un barlume di speranza alla popolazione, provata dalle recenti guerre napoleoniche e dalla miseria che ne era derivata.
Finalmente, nel 1818, il giorno della vigilia di Natale, i versi di Stille Nacht furono anche cantati.

Fu lo stesso Mohr a chiedere a Gruber di mettere in musica le sue parole, per due voci soliste, coro e chitarra. Ciò avvenne il 24 dicembre del 1818, la partitura fu stesa rapidamente e il paroliere la approvò immediatamente.
Sembra che la richiesta di questa composizione fosse avanzata al musicista in quanto l’organo della chiesa di San Nicola era guasto e impossibile da sistemare in breve tempo, questo fatto giustificava anche la scelta della chitarra come accompagnamento.

Quindi, la prima esecuzione pubblica in assoluto di Stille Nacht ebbe luogo la notte del 24 dicembre 1818, durante la Messa di Natale, nella chiesa di San Nicola a Oberndorf, presso Salisburgo.
La canzone natalizia fu suonata e cantata dai due autori: Mohr cantò la parte del tenore, mentre suonava la chitarra; Gruber eseguì la parte del basso.

Musica e testo furono raccolti da un fabbricante di organi della Zillertal (la maggiore tra le valli laterali della Inntal, nel Tirolo austriaco), Karl Mauracher (1789-1844), che li portò con sé in Tirolo, dove si diffusero rapidamente.
Tutti gli anni, dalla regione dello Zillertal, molte persone si spostavano per vendere nei paesi vicini i prodotti dell’artigianato locale e da quel momento, fecero viaggiare anche la musica e le parole di Stille Nacht.
In particolare, due famiglie, Strasser e Rainer, diffusero la melodia di Gruber in tutta Europa e poi, nel mondo.

Attualmente, è una delle più celebri canzoni natalizie: più di due miliardi persone la conoscono.
Nel 2018, anno cui ricorreva il bicentenario della nascita di Stille Nacht, in Austria sono stati programmati una serie di eventi: una mostra regionale che coinvolgeva 13 località (collegate ai luoghi dove presero vita i versi e dove fu scritta la musica, ma anche dove insegnò Gruber, dove morì e fu sepolto); l’inaugurazione di alcuni musei dedicati al canto; un musical, in lingua inglese composto da John Cardon Debney (1956; compositore e direttore d’orchestra statunitense).

La versione italiana di Stille Nacht è Astro del ciel, pur in una veste diversa, questa emozionante canzone non manca mai di risuonare durante le feste natalizie e di commuovere il pubblico, dovunque sia eseguita, nei luoghi di culto ma anche nelle sale concerto durante il periodo natalizio.
Il testo italiano non è una traduzione di quello tedesco, ma è originale, scritto dal prete bergamasco, Angelo Meli (1901-1970).

Testo originale in tedesco

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Alles schläft; einsam wacht
Nur das traute hochheilige Paar.
Holder Knab´ im lockigen Haar,
Schlafe in himmlischer Ruh!
Schlafe in himmlischer Ruh!

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Gottes Sohn! O wie lacht
Lieb´ aus deinem göttlichen Mund,
Da uns schlägt die rettende Stund´,
Jesus in deiner Geburt!
Jesus in deiner Geburt!

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Die der Welt Heil gebracht,
Aus des Himmels goldenen Höhn
Uns der Gnaden Fülle läßt seh´n
Jesum in Menschengestalt,
Jesum in Menschengestalt

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Wo sich heut’ alle Macht
Väterlicher Liebe ergoss

Und als Bruder huldvoll umschloss
Jesus die Völker der Welt,
Jesus die Völker der Welt.


Stille Nacht! Heilige Nacht!
Lange schon uns bedacht,
Als der Herr vom Grimme befreit,
In der Väter urgrauer Zeit
Aller Welt Schonung verhieß,
Aller Welt Schonung verhieß.

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Hirten erst kundgemacht
Durch der Engel Alleluja.
Tönt es laut bei Ferne und Nah:
Jesus, der Retter ist da!
Jesus, der Retter ist da!


Auguri a tutti voi di cuore, che il Natale vi porti gioia e tanta serenità.
Buon ascolto!

Hieronymus Bosch e il suo visionario “Giardino delle delizie”

Hieronymus Bosch fu un artista immaginifico. Le sue visioni dipinte lasciano tuttora stupefatti gli spettatori. “Il Giardino delle delizie”, il suo capolavoro, è ancora un mistero a livello interpretativo, e forse anche questo contribuisce al singolare fascino che lo contraddistingue.

“… vi sono dei pannelli sui quali sono stati dipinti oggetti stravaganti. Rappresentano mari, cieli, foreste, prati, e molte altre cose, come individui che strisciano fuori da una conchiglia, altri che producono uccelli, uomini e donne, bianchi e neri mentre fanno ogni sorta di differente attività e gesto” (“Diario di viaggio” di Antonio de Beatis – descrizione del dipinto di Bosch).

Hieronymus Bosch, pseudonimo di Jeroen Anthoniszoon van Aken (‘s-Hertogenbosch, 2 ottobre 1453 – ‘s-Hertogenbosch, 9 agosto 1516), è stato un pittore olandese.
Le sue opere sono il prodotto di una mente contraddistinta da una fervida creatività e hanno l’aspetto di visioni, al punto da richiamare la psicoanalisi, per poterne dare un’interpretazione.

Bosch, come avviene per tutti gli artisti, era un prodotto del suo tempo e del suo ambiente, e le sue opere furono realizzate seguendo le dottrine religiose e intellettuali dell’Europa centro-settentrionale, dottrine che negavano la supremazia dell’intelletto e sostenevano, invece, la trascendenza e l’irrazionalità.

Le opere di questo straordinario artista contengono un’infinità di particolari e situazioni, sono una sorta di teatro, popolato da una miriade di attori, immersi in un’esplosione di colori e concepiti seguendo simbolismi, ancora non del tutto decifrati.

Lungo il percorso artistico di Bosch, sono molti i dipinti che attirano l’attenzione, ma il capolavoro, e al tempo stesso l’opera più ambiziosa di questo geniale pittore, è considerato “Il Giardino delle delizie”, un trittico a olio su tavola, conservato al Museo del Prado (Madrid), datato, anche se con qualche incertezza, nel periodo che intercorre tra il 1480 il 1490 ca.
Questo lavoro di Bosch, più di altri, è di grande complessità sia per i simboli presenti nell’opera sia per la creatività che qui, l’artista ha espresso all’ennesima potenza.

Analizzando la struttura del trittico, vediamo che è composto da un pannello centrale, cui sono affiancate due ali rettangolari, richiudibili su di esso. Completamente chiusa, l’opera mostra la raffigurazione della Terra durante la Creazione.
Il pannello aperto, invece, mostra: nella parte a sinistra, Dio, fulcro dell’incontro tra Adamo ed Eva; nel pannello centrale, una veduta di fantasia con figure nude, animali veri e immaginari, frutti di tutte le dimensioni, strane costruzioni, alberi, laghi e corsi d’acqua, e uno sfumato profilo di montagne sul fondo; pannello di destra, una visione dell’Inferno e i tormenti inflitti ai dannati.

Questo capolavoro di Bosch ha avuto molte interpretazioni: c’è chi ha visto in queste tre scene un avvertimento indirizzato agli uomini, sui pericoli delle tentazioni della vita terrena; altri, al contrario, ritengono contenga un insegnamento morale e soprattutto, il pannello centrale è stato considerato come una rappresentazione del paradiso perduto.

La prima fonte storica che nomina questo trittico è del 1517: il canonico Antonio de Beatis (segretario del cardinale Luigi d’Aragona) ce ne fornisce una descrizione; all’epoca, l’opera era parte della decorazione del palazzo dei conti della Casa di Nassau (Bruxelles).

Si ritiene che il committente del Giardino fosse Enrico III di Nassau-Breda (1483-1538), Statolder (carica esistente tra la metà del XV secolo fino al 1795, nella regione dei Paesi Bassi; designava il luogotenente civile del sovrano) d’Olanda e Zelanda, dal 1515 al 1521, Barone di Breda e Conte della Casa Nassau.
Enrico aveva raccolto nei suoi possedimenti una vasta collezione di opere d’arte e curiosità esotiche. Questa sua passione irriducibile per l’arte era condivisa con Filippo il Bello (Filippo IV di Francia, 1268-1314, re di Francia dal 1285 fino alla morte) suo amico e forse, anche avversario: nella corsa a conquistare le opere di Bosch che entrambi ammiravano.

La notorietà del Giardino delle delizie fu davvero grande e si può toccare con mano: fu oggetto di un elevato numero di copie.
Morto Enrico III, il trittico passò al nipote Guglielmo I d’Orange (1533-1584, capo degli olandesi durante la Guerra degli ottant’anni); nel 1568, fu confiscato dal Duca d’Alba (1507-1582, generale spagnolo, governatore del Ducato di Milano; viceré del Regno di Napoli e governatore dei Paesi Bassi spagnoli) che lo portò in Spagna, qui passò nelle mani di Don Fernando di Toledo, figlio naturale del Duca.
Nel 1591, fu acquistato da Filippo II di Spagna (1527-1598, re di Spagna, dal 1556 fino alla morte) che nel 1593 lo trasferì all’Escorial. L’ultima tappa del Giardino di Bosch fu il Museo del Prado, dove giunse nel 1939, qui sono custoditi diversi altri lavori dell’artista fiammingo.

Il Giardino delle delizie fu realizzato in un periodo vivacizzato da molte scoperte e avventure, quando i ritrovamenti del Nuovo Mondo affascinarono tutti: poeti, scrittori e, ovviamente, anche i pittori. Ma non basta questo a spiegare la presenza nel trittico di Bosch di creature fantastiche e singolari, l’opera fa riferimento anche ad altre iconografie.
I viaggi esotici e le relative scoperte a essi associati hanno però sicuramente influenzato il pannello di sinistra, dove troviamo animali come giraffe e leoni.

Nel pannello centrale, nell’ampio giardino rappresentato, sono raffigurate un’infinità di figure maschili e femminili nude, circondate da tanti animali (asini, cervi, leopardi, pantere, leoni, liocorni, orsi, grifoni, pavoni, corvi, unicorni, cammelli, ecc., tratti dal repertorio dei bestiari medievali), fiori, frutti e piante di ogni tipo.
Proprio questa particolare porzione del dipinto, posta al centro del pannello, rappresenta il grande Giardino “delle delizie” da cui il trittico prende il nome.
Bosch, qui, ha mescolato creature d’invenzione con elementi reali e raffigurato frutti dalle dimensioni esagerate. Le figure umane si intrattengono in liberi scambi amorosi e in molte altre attività, svolte a coppie o in gruppo. Tutto in questa parte del dipinto sembra immerso in un’atmosfera giocosa, pervasa da una sorta di innocenza primordiale.

Nella parte in primo piano, con il fiume al centro, le figure nude sono divise in gruppi e sono attorniate da strani vegetali, conchiglie e oggetti curiosi.
A volte, i personaggi sono colti mentre mangiano frutti o in qualche modo occupati con volatili di varie specie raffigurati con dimensioni esagerate, specie sul lato sinistro del pannello.
Le dimensioni e la prospettiva non sono rispettate in modo rigido: ci sono figure minuscole appoggiate ad anatre di dimensioni enormi o ad altri volatili ugualmente giganteschi.
Altrettanto sovradimensionati sono i frutti e i fiori. Ci sono anche pesci che si muovono sul terreno; personaggi intrappolati in strane bolle o dentro fragole e lamponi.

Lo stile generale del dipinto è di carattere concitato; le figure sono ritratte in pose dinamiche; inoltre, la grande luminosità e i contrasti di colore, insieme alla grande varietà di soggetti ritratti, rimandano allo spettatore una scena vivace e animata, dove è possibile scoprire qualcosa di nuovo a ogni occhiata, ma bisogna avere pazienza e un occhio allenato ai dettagli.

L’interpretazione del Giardino di Bosch è una sfida che tuttora impegna gli studiosi. I singoli temi possono essere in qualche modo spiegati, ma le relazioni che legano i vari elementi tra loro sono ancora indefinite e le interpretazioni risultano contraddittorie. Per le analisi, non si è lasciato nulla di intentato: si è fatto ricorso al folklore, all’astrologia e persino all’alchimia, ma il mistero è ancora fitto.

Bosch ha lasciato un’eredità in alcuni artisti, anche se, considerata l’unicità delle sue opere, la sua influenza è stata di minor impatto rispetto ad altre figure artistiche. Ritroviamo, però, citazioni al suo Giardino in autori quali, Pieter Bruegel il Vecchio (1525/1530 ca. – 1569), Giuseppe Arcimboldo (1527-1593) e David Teniers il Giovane (1610-1690).

Nel XX secolo, l’opera di Bosch ha investito le fantasie dei primi surrealisti: Joan Miró (1893-1983) e Salvador Dalí (1904-1989), ma è stata anche fonte di ispirazione per altri artisti, come René Magritte (1898-1967) e Max Ernst (1891-1976).

In copertina: particolare dal pannello centrale del trittico “Giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch