Leggere poesie e scoprire in un “lampo” quanto siamo cambiati

Leggere poesie e scoprire in un "lampo" quanto siamo cambiati

Rileggere a distanza di tempo poesie studiate a scuola è un’esperienza che invito tutti a fare.
Anche scoprire poesie non ancora lette di un poeta, sul quale l’insegnante di italiano insisteva, anni fa, a fare domande durante le interrogazioni – e noi a chiederci perché – può riservare gradite sorprese.

Il famoso senno del poi nella letteratura ha un senso concreto.
Le esperienze che abbiamo vissuto, i libri che abbiamo letto negli anni, i viaggi che abbiamo intrapreso hanno cambiato i nostri punti di vista, irrimediabilmente – e per fortuna – siamo persone diverse da quelle che hanno letto Pascoli, Leopardi, Dante, Foscolo, ecc. sui banchi di scuola.

Io ho fatto un tuffo nel passato proprio in questi giorni, grazie a un post da scrivere, e sono riemersa diversa.
La poesia che ha suscitato il mio interesse e ha fatto scaturire queste riflessioni è una poesia di Giovanni Pascoli, dalla raccolta Myricae che – udite, udite – non avevo letto a scuola e chissà quante altre ce ne sono in attesa di una mia lettura, che possono suscitare emozioni analoghe.

La poesia è Il lampo e credo che, in assenza di un titolo, si sarebbe capito ugualmente di che cosa stesse parlando il poeta.

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.


Leggendo questi pochi versi si può vedere in azione un lampo, il suo effetto sulle cose e lo sgomento improvviso che crea in chi assiste al suo repentino arrivo.
Non serve concentrarsi troppo per sentire anche il tuono.
E quell’occhio esterrefatto che si apre e si chiude in un baleno è l’incarnazione stessa dell’attimo in cui la luce del lampo rivela, come la luce di un enorme flash, il mondo e poi lo getta in un istante, di nuovo, nell’oscurità totale.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #12 arriva Carlo Magno

Storia della scrittura dai geroglifici agli emoticon 12 arriva Carlo Magno

In epoca carolingia, cambiano i caratteri usati dai copisti; la chiesa non detiene più lo scettro dell’insegnamento; si allargano il pubblico dei committenti e quello dei lettori.

Nei primi tempi, i monaci copisti usavano per i loro lavori di copiatura gli usuali caratteri normalmente impiegati sin dall’epoca dei romani: l’onciale (corsivo maiuscolo); il semionciale; la capitale (maiuscole quadrate); il rustico (maiuscolo più semplice).
L’onciale resisterà con le sue lettere tondeggianti nella scrittura a penna, questo finché non si passerà alla stampa.

Nel 768, in epoca carolingia, appare la carolina, simile alla minuscola romana, definita anche scrittura di cancelleria. Essa sostituì il particolarismo grafico tipico dei secoli VII e VIII e rappresenta una delle formalizzazioni delle scritture semicorsive.

La scrittura carolina è chiara e ben proporzionata, possiede una notevole bellezza formale e avrà larga e lunga diffusione nell’Europa occidentale del Medioevo.

Durante il regno di Carlo Magno si eseguirà anche un grande lavoro di emendamento dei testi.
I testi originali, in seguito ai vari passaggi di copia in copia, avevano subito sostanziali modifiche, alterazioni tali, nel corso del tempo, da modificare il senso stesso degli scritti.

Carlo Magno pensò di risolvere questo problema imponendo la creazione di nuove copie emendate dagli errori, in quanto realizzate con grande osservanza e scrupolo e soprattutto, basate su fonti più prossime possibile all’originale.
I manoscritti carolingi si fregiano della dicitura “ex authentico libro” che fungeva da garanzia di una copiatura perfetta.

Al termine del XII secolo, il dominio incontrastato della chiesa sull’insegnamento viene meno; gli scrivani laici iniziano a riunirsi in botteghe e corporazioni. I loro principali lavori sono per la nuova borghesia mercantile per cui eseguono documenti, ma si occupano anche di comporre libri.

In questo periodo non cambiano solo gli esecutori dei manoscritti, ma anche i destinatari di queste magnifiche opere. Fino a questo momento, i committenti erano i nobili e gli ecclesiastici; le opere realizzate erano manufatti di lusso – per i signori – o manuali di teologia e messali per il clero.

Ora il mercato si estende: trattati di filosofia, di matematica, di logica e di astronomia fioriscono, ampliando i consueti settori dell’editoria.

In parallelo alla nascita di testi per un pubblico più ampio, gli autori, come Dante, iniziano a scrivere in volgare, ciò consente di avvicinare alla lettura molte più persone che sono istruite ma non conoscono il latino.

Queste due rivoluzioni in parallelo comportano un allargamento della cultura: finalmente, la borghesia si accosta ai libri e alla letteratura.

In copertina: a sinistra, ritratto immaginario di Carlo Magno, di Albrecht Dürer; a destra, pagina in minuscola carolina (escluse le prime tre righe, in onciale)

I Buddenbrook: musica e letteratura, due muse allo specchio

I Buddenbrook: la saga di una famiglia e non solo

Ho letto I Buddenbrook di Thomas Mann diversi anni fa e già allora i passi dedicati alla musica mi avevano colpito, uno in particolare: quello in cui Hanno Buddenbrook improvvisa al pianoforte.

Non è la prima volta che Mann si lascia sedurre dalla musica e la rende un elemento essenziale delle sue narrazioni: anche nel Doctor Faustus il protagonista, Adrian Leverkùn, è un compositore ed è chiaramente ispirato alla figura di Arnold Schoenberg (1874-1951), il famoso musicista padre della dodecafonia.

Non stupisce, quindi, trovare nei Buddenbrook una coinvolgente descrizione musicale, dove è immediatamente rilevabile che chi scrive è un fine intenditore di musica, visto l’utilizzo di un lessico esperto per descrivere l’improvvisazione del ragazzo al pianoforte. Inoltre, lo scrittore attraverso la sua narrazione ci fornisce la precisa sensazione di assistere a questa singolare esibizione.

Il motivo era semplicissimo, un nulla, il frammento di una melodia inesistente, un tema di una battuta e mezzo; e quando, con una forza di cui non lo si sarebbe ritenuto capace, lo fece risuonare per la prima volta nel basso, come voce singola, quasi dovesse essere annunciato da trombe unanimi e imperiose come primo elemento e origine di tutto ciò che verrà, non si poteva ancora capirne il senso profondo. Ma quando lo ripeté armonizzato in chiave di violino, con un timbro di pallido argento, fu palese che consisteva essenzialmente in un’unica risoluzione, un appassionato doloroso trapasso da una tonalità all’altra… era un’invenzione modesta, di poco respiro, ma la risolutezza preziosa e solenne con cui era formulata e presentata le conferiva un raro valore, denso di mistero e di significato. Seguirono poi passaggi agitati, un affannoso andare e venire di sincopi, erranti, cercanti, lacerata da gridi, come se un’anima fosse angosciata da ciò che aveva udito, e che non voleva tacere, ma si ripeteva in armonie sempre diverse, interrogando, gemendo, smorendo, voglioso e promettente. E le sincopi diventeranno sempre più forti, sospinte e incalzate da terzine impetuose; ma le grida di terrore che vi eran frammiste presero forma, si fusero, divennero melodia, finché, come un canto implorante e fervido di strumenti a fiato, prevalsero umili e forti insieme ed ebbero il dominio. Vinto, ammutolito era l’incalzare instabile, l’ondeggiare vagabondo e sfuggente; e il ritmo semplice e risoluto del corale s’alzò in una preghiera contrita e infantile… E terminò come un canto liturgico” (Thomas Mann, I Buddenbrook, parte XI, capitolo II).

Thomas Mann in questo brano mette a confronto due arti: quella letteraria e quella musicale che si fronteggiano, in un incessante gioco di rimandi il cui unico limite è il potere definitorio della parola e l’ineffabilità della musica.