La Controriforma mette dei paletti alla diffusione della cultura, per fortuna, stampatori, editori e tipografi trovano un’isola felice dove continuare a svolgere il loro lavoro: l’Olanda. Inoltre, prende campo la riduzione di formato del libro che diventa a tutti gli effetti un tascabile, consentendo una più rapida diffusione della cultura.
Alla fine del ’500, l’Olanda protestante accolse stampatori e tipografi, e rappresentò un rifugio per il libro, di fronte all’avanzata delle tendenze repressive della Controriforma e dell’Inquisizione. Intanto dal 1550, gli eruditi passano dal latino – utilizzato fino a quel momento per stampare i classici greci e latini – alle lingue nazionali.
Gli stampatori erano consapevoli di cosa significasse andare contro gli inquisitori. Avevano ancora ben presente il martirio di Étienne Dolet (1509 – 1546) umanista, poeta ed editore che, accusato di ateismo, perché aveva osato pubblicare Rabelais, Marot e soprattutto, l’ “Enchiridion militis christiani” di Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536), fu impiccato e bruciato sul rogo, il 3 agosto del 1546, a Parigi. L’Olanda diventa quindi la patria della letteratura che era proibita in altri luoghi.
In questo periodo prende campo il libro tascabile che consente una maggiore diffusione. L’idea partì da Venezia, con Aldo Manuzio (tra il 1449 e il 1452 – 1515) che già nel 1501 diede il via a una collana di libri (in formato ridotto, conosciuto come in-8° piccolo), nella quale, per la prima volta, fu usato lo stile corsivo che, essendo più compatto, consentì una riduzione del formato.
Manuzio stampò libri in ottavo (un singolo foglio di stampa è piegato in otto, corrisponde a sedici pagine), invece che nei soliti formati in folio (un singolo foglio piegato in due, quattro pagine) e in quarto (un singolo foglio piegato in quattro, otto pagine). Manuzio lo battezzò: enchiridion forma, dall’ “Encheiridion” (che sta in una mano) o Manuale di Epitteto (scritto di filosofia ed etica stoica, compilato dallo scrittore greco-romano, Arriano, discepolo del filosofo greco, Epitteto), uno dei primi libri a essere stampati con questo nuovo formato; leggeri, maneggevoli e facilmente trasportabili.
Questa soluzione rivoluzionaria fu subito adottata dagli Elzevier (celebre famiglia di tipografi, editori e librai), molto attivi in Olanda tra il 1583 e il 1713. Al loro nome è associata una serie di classici latini in piccolo formato, che aiutarono non poco la diffusione della cultura.
Hieronymus Bosch fu un artista immaginifico. Le sue visioni dipinte lasciano tuttora stupefatti gli spettatori. “Il Giardino delle delizie”, il suo capolavoro, è ancora un mistero a livello interpretativo, e forse anche questo contribuisce al singolare fascino che lo contraddistingue.
“… vi sono dei pannelli sui quali sono stati dipinti oggetti stravaganti. Rappresentano mari, cieli, foreste, prati, e molte altre cose, come individui che strisciano fuori da una conchiglia, altri che producono uccelli, uomini e donne, bianchi e neri mentre fanno ogni sorta di differente attività e gesto” (“Diario di viaggio” di Antonio de Beatis – descrizione del dipinto di Bosch).
Hieronymus Bosch, pseudonimo di Jeroen Anthoniszoon van Aken (‘s-Hertogenbosch, 2 ottobre 1453 – ‘s-Hertogenbosch, 9 agosto 1516), è stato un pittore olandese. Le sue opere sono il prodotto di una mente contraddistinta da una fervida creatività e hanno l’aspetto di visioni, al punto da richiamare la psicoanalisi, per poterne dare un’interpretazione.
Bosch, come avviene per tutti gli artisti, era un prodotto del suo tempo e del suo ambiente, e le sue opere furono realizzate seguendo le dottrine religiose e intellettuali dell’Europa centro-settentrionale, dottrine che negavano la supremazia dell’intelletto e sostenevano, invece, la trascendenza e l’irrazionalità.
Le opere di questo straordinario artista contengono un’infinità di particolari e situazioni, sono una sorta di teatro, popolato da una miriade di attori, immersi in un’esplosione di colori e concepiti seguendo simbolismi, ancora non del tutto decifrati.
Lungo il percorso artistico di Bosch, sono molti i dipinti che attirano l’attenzione, ma il capolavoro, e al tempo stesso l’opera più ambiziosa di questo geniale pittore, è considerato “Il Giardino delle delizie”, un trittico a olio su tavola, conservato al Museo del Prado (Madrid), datato, anche se con qualche incertezza, nel periodo che intercorre tra il 1480 il 1490 ca. Questo lavoro di Bosch, più di altri, è di grande complessità sia per i simboli presenti nell’opera sia per la creatività che qui, l’artista ha espresso all’ennesima potenza.
Analizzando la struttura del trittico, vediamo che è composto da un pannello centrale, cui sono affiancate due ali rettangolari, richiudibili su di esso. Completamente chiusa, l’opera mostra la raffigurazione della Terra durante la Creazione. Il pannello aperto, invece, mostra: nella parte a sinistra, Dio, fulcro dell’incontro tra Adamo ed Eva; nel pannello centrale, una veduta di fantasia con figure nude, animali veri e immaginari, frutti di tutte le dimensioni, strane costruzioni, alberi, laghi e corsi d’acqua, e uno sfumato profilo di montagne sul fondo; pannello di destra, una visione dell’Inferno e i tormenti inflitti ai dannati.
Questo capolavoro di Bosch ha avuto molte interpretazioni: c’è chi ha visto in queste tre scene un avvertimento indirizzato agli uomini, sui pericoli delle tentazioni della vita terrena; altri, al contrario, ritengono contenga un insegnamento morale e soprattutto, il pannello centrale è stato considerato come una rappresentazione del paradiso perduto.
La prima fonte storica che nomina questo trittico è del 1517: il canonico Antonio de Beatis (segretario del cardinale Luigi d’Aragona) ce ne fornisce una descrizione; all’epoca, l’opera era parte della decorazione del palazzo dei conti della Casa di Nassau (Bruxelles).
Si ritiene che il committente del Giardino fosse Enrico III di Nassau-Breda (1483-1538), Statolder (carica esistente tra la metà del XV secolo fino al 1795, nella regione dei Paesi Bassi; designava il luogotenente civile del sovrano) d’Olanda e Zelanda, dal 1515 al 1521, Barone di Breda e Conte della Casa Nassau. Enrico aveva raccolto nei suoi possedimenti una vasta collezione di opere d’arte e curiosità esotiche. Questa sua passione irriducibile per l’arte era condivisa con Filippo il Bello (Filippo IV di Francia, 1268-1314, re di Francia dal 1285 fino alla morte) suo amico e forse, anche avversario: nella corsa a conquistare le opere di Bosch che entrambi ammiravano.
La notorietà del Giardino delle delizie fu davvero grande e si può toccare con mano: fu oggetto di un elevato numero di copie. Morto Enrico III, il trittico passò al nipote Guglielmo I d’Orange (1533-1584, capo degli olandesi durante la Guerra degli ottant’anni); nel 1568, fu confiscato dal Duca d’Alba (1507-1582, generale spagnolo, governatore del Ducato di Milano; viceré del Regno di Napoli e governatore dei Paesi Bassi spagnoli) che lo portò in Spagna, qui passò nelle mani di Don Fernando di Toledo, figlio naturale del Duca. Nel 1591, fu acquistato da Filippo II di Spagna (1527-1598, re di Spagna, dal 1556 fino alla morte) che nel 1593 lo trasferì all’Escorial. L’ultima tappa del Giardino di Bosch fu il Museo del Prado, dove giunse nel 1939, qui sono custoditi diversi altri lavori dell’artista fiammingo.
Il Giardino delle delizie fu realizzato in un periodo vivacizzato da molte scoperte e avventure, quando i ritrovamenti del Nuovo Mondo affascinarono tutti: poeti, scrittori e, ovviamente, anche i pittori. Ma non basta questo a spiegare la presenza nel trittico di Bosch di creature fantastiche e singolari, l’opera fa riferimento anche ad altre iconografie. I viaggi esotici e le relative scoperte a essi associati hanno però sicuramente influenzato il pannello di sinistra, dove troviamo animali come giraffe e leoni.
Nel pannello centrale, nell’ampio giardino rappresentato, sono raffigurate un’infinità di figure maschili e femminili nude, circondate da tanti animali (asini, cervi, leopardi, pantere, leoni, liocorni, orsi, grifoni, pavoni, corvi, unicorni, cammelli, ecc., tratti dal repertorio dei bestiari medievali), fiori, frutti e piante di ogni tipo. Proprio questa particolare porzione del dipinto, posta al centro del pannello, rappresenta il grande Giardino “delle delizie” da cui il trittico prende il nome. Bosch, qui, ha mescolato creature d’invenzione con elementi reali e raffigurato frutti dalle dimensioni esagerate. Le figure umane si intrattengono in liberi scambi amorosi e in molte altre attività, svolte a coppie o in gruppo. Tutto in questa parte del dipinto sembra immerso in un’atmosfera giocosa, pervasa da una sorta di innocenza primordiale.
Nella parte in primo piano, con il fiume al centro, le figure nude sono divise in gruppi e sono attorniate da strani vegetali, conchiglie e oggetti curiosi. A volte, i personaggi sono colti mentre mangiano frutti o in qualche modo occupati con volatili di varie specie raffigurati con dimensioni esagerate, specie sul lato sinistro del pannello. Le dimensioni e la prospettiva non sono rispettate in modo rigido: ci sono figure minuscole appoggiate ad anatre di dimensioni enormi o ad altri volatili ugualmente giganteschi. Altrettanto sovradimensionati sono i frutti e i fiori. Ci sono anche pesci che si muovono sul terreno; personaggi intrappolati in strane bolle o dentro fragole e lamponi.
Lo stile generale del dipinto è di carattere concitato; le figure sono ritratte in pose dinamiche; inoltre, la grande luminosità e i contrasti di colore, insieme alla grande varietà di soggetti ritratti, rimandano allo spettatore una scena vivace e animata, dove è possibile scoprire qualcosa di nuovo a ogni occhiata, ma bisogna avere pazienza e un occhio allenato ai dettagli.
L’interpretazione del Giardino di Bosch è una sfida che tuttora impegna gli studiosi. I singoli temi possono essere in qualche modo spiegati, ma le relazioni che legano i vari elementi tra loro sono ancora indefinite e le interpretazioni risultano contraddittorie. Per le analisi, non si è lasciato nulla di intentato: si è fatto ricorso al folklore, all’astrologia e persino all’alchimia, ma il mistero è ancora fitto.
Bosch ha lasciato un’eredità in alcuni artisti, anche se, considerata l’unicità delle sue opere, la sua influenza è stata di minor impatto rispetto ad altre figure artistiche. Ritroviamo, però, citazioni al suo Giardino in autori quali, Pieter Bruegel il Vecchio (1525/1530 ca. – 1569), Giuseppe Arcimboldo (1527-1593) e David Teniers il Giovane (1610-1690).
Nel XX secolo, l’opera di Bosch ha investito le fantasie dei primi surrealisti: Joan Miró (1893-1983) e Salvador Dalí (1904-1989), ma è stata anche fonte di ispirazione per altri artisti, come René Magritte (1898-1967) e Max Ernst (1891-1976).
In copertina: particolare dal pannello centrale del trittico “Giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch
La prima volta che ho visto la Galleria sono rimasta folgorata dalla sua bellezza. Ci sono tornata più volte e l’incanto non è passato. L’ho fotografata da molte angolazioni, cercando di strapparle quell’alone di fascino che emana; l’ho immortalata con ogni tempo atmosferico, azzerando le presenze al suo interno o cercando dei soggetti singolari di passaggio: coppiette, agenti in divisa. Qualche settimana fa mi sono chiesta quale fosse la sua storia e ho fatto alcune interessanti scoperte…
La Galleria Vittorio Emanuele II, a Milano, è una galleria commerciale che unisce piazza Duomo a piazza della Scala. Al suo interno ospita eleganti negozi e locali; sin dalla sua nascita costituì un ritrovo per la borghesia milanese e per questo fu soprannominata il “salotto di Milano”. Lo stile della Galleria è neorinascimentale; è tra i più noti esempi di architettura del ferro europea; è il modello della galleria commerciale dell’Ottocento, un luogo all’avanguardia: uno dei primi esempi di centro commerciale ante litteram al mondo.
Nella città di Milano, i passaggi coperti con funzione di portici risalgono all’epoca medievale. Nel Duecento, Bonvesin de la Riva (1250 ca. – 1313/1315, autore di origine lombarda, probabilmente milanese; ritenuto il padre della lingua lombarda) nel suo trattato “De magnalibus urbis Mediolani” (Meraviglie di Milano, del 1288; scritto in latino e concepito come una cronaca) registrava la presenza di circa sessanta porticati a Milano. Il destino dei porticati subì una svolta con l’ascesa degli Sforza e successivamente, con la dominazione spagnola: furono progressivamente demoliti, ne sopravvissero pochi.
All’unità d’Italia, Milano giunse priva di quella tradizione di passaggi e porticati che ritroviamo in città come Torino e Bologna; all’epoca, la città poteva vantare solo la galleria De Cristoforis, un passage che rispondeva alle tendenze delle principali capitali europee, dotate di passaggi con copertura in ferro e vetro a scopo commerciale (galerie Vivienne, Parigi; Burlington Arcade, Londra).
Nel 1839, Carlo Cattaneo (1801-1869; patriota, filosofo, politico, politologo, linguista e scrittore italiano) fu uno degli animatori del dibattito che riguardava il rifacimento della zona prospiciente al Duomo. Maturò l’idea di una via che congiungesse la piazza del Duomo con quella della Scala. All’epoca la piazza davanti al Duomo era piccola e irregolare, e ritenuta indegna della cattedrale della città. Inoltre, c’erano anche problemi di viabilità: il traffico cittadino, in netto aumento, non era più sostenibile, perlomeno mantenendo le strette strade di origine medievale.
Si decise di dedicare la via al re Vittorio Emanuele II per due motivi: l’entusiasmo per l’indipendenza dall’Austria; la speranza di ottenere più facilmente i permessi (si ottenevano con decreto reale) per le espropriazioni necessarie per realizzare l’opera. La dedica al re è stata collocata sul frontone dell’arco d’ingresso e recita: “A Vittorio Emanuele II. I milanesi”.
I decreti regi per i permessi furono firmati tra il 1859 e il 1860: uno per l’esproprio dei palazzi da demolire; l’altro per la demolizione del coperto dei Figini e del Rebecchino, entrambi occupavano l’attuale piazza Duomo; l’ultimo servì ad autorizzare una lotteria, finalizzata a ottenere i fondi per la costruzione della via.
Il 3 aprile 1860, il Comune di Milano bandì il concorso per edificare la nuova via. Il progetto iniziale prevedeva una semplice strada porticata e fu istituita una speciale commissione per vagliare i progetti. Giunsero innumerevoli proposte, tra le quali ne furono scelte 176, esposte successivamente alla Pinacoteca di Brera. In questa prima occasione, non fu nominato alcun vincitore, ma vennero fornite indicazioni più precise riguardo al progetto e stavolta, prese campo l’idea del passaggio coperto.
Fu indetto un secondo concorso, nel febbraio del 1861; furono valutati 18 progetti, ma anche stavolta, non fu eletto un vincitore. Tra i progetti, quattro furono ritenuti più meritevoli quelli di: Davide Pirovano, il cui progetto era ispirato all’architettura palladiana; Paolo Urbani, per la scelta di un’architettura eterogenea che combinava forme lombarde e venete; Gaetano Martignoni, per unire le due piazze, aveva proposto una galleria a croce greca; Giuseppe Mengoni, le sue scelte architettoniche si ispiravano ai palazzi comunali del Trecento.
Non avendo ancora trovato il progetto idoneo, fu bandito un terzo concorso, nel 1863. Stavolta furono considerati solo otto progetti: tre richiesti dalla stessa commissione; cinque presentati spontaneamente. Il vincitore fu Giuseppe Mengoni, al quale furono richieste delle modifiche ad alcune parti del suo progetto. Mengoni aveva proposto una galleria unica, mentre il progetto finale sarà quello di una galleria a croce, con l’aggiunta di alcuni dettagli stilistici.
Il 7 marzo 1865, il re Vittorio Emanuele II posò la prima pietra della Galleria. La costruzione fu affidata alla società inglese City of Milan Improvements Company Limited. I lavori, a parte la realizzazione dell’arco trionfale d’ingresso, furono ultimati in meno di tre anni. Ci furono alcuni problemi, a causa del fallimento della società appaltatrice. Questo fatto allungò i tempi di completamento dei lavori che terminarono nel 1878, quando anche l’arco d’ingresso e i portici settentrionali di piazza Duomo furono terminati. Mengoni non riuscì a vedere finita la grandiosa opera: morì cadendo da un’impalcatura durante un’ispezione.
Poco tempo dopo l’inaugurazione, la Galleria divenne il luogo di ritrovo preferito dalla borghesia che frequentava i nuovi negozi, i ristoranti e i caffè. Alcuni di questi esercizi commerciali hanno resistito al passare degli anni e sono tuttora in attività. Sin dalla sua apertura, la Galleria fu dotata di tutte le ultime trovate tecnologiche, come l’illuminazione a gas. Le lampade sull’ottagono erano accese da un congegno automatico chiamato “rattin” (“topolino” in milanese), una piccola locomotiva che accendeva progressivamente i lumi.
La Galleria non fu solo punto di ritrovo per la borghesia, ma anche centro vitale della politica milanese. Gli avvenimenti politici di maggior rilievo che la videro protagonista furono: gli scontri tra operai e polizia il 1° maggio del 1890; i conflitti dei moti di Milano che videro il loro culmine con il cannoneggiamento sulla folla ordinato da Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924, generale italiano), nel 1898.
A causa della loro vicinanza, la Galleria e il teatro alla Scala furono da subito legati sia perché quest’ultima costituiva il punto di transito per recarsi a teatro sia perché qui si radunavano cantanti e musicisti che desideravano essere scritturati nei teatri della Lombardia.
A inizi Novecento, la Galleria si impose ulteriormente, diventando un luogo cruciale per la vita mondana e per la scena musicale milanese. Inoltre, fu al centro di tutti gli avvenimenti più importanti della città: eventi culturali, come gli incontri dei futuristi; scontri tra interventisti e neutralisti allo scoppio della I Guerra mondiale; manifestazioni dopo la guerra. Durante la II Guerra mondiale, la Galleria subì i bombardamenti degli alleati, come il resto della città, e riportò diversi danni: fu distrutta la copertura di vetro, parte della copertura metallica e le decorazioni interne.
La Galleria fu oggetto di diversi restauri nel corso degli anni, gli ultimi, furono piuttosto approfonditi e risalgono al periodo tra marzo 2014 e aprile 2015. In vista dell’Expo, si attuarono tutti i lavori che erano stati trascurati in precedenza e tra i vari interventi c’è quello che ha riportato gli intonaci ai colori originari.
La Galleria ha incontrato il favore di artisti e intellettuali, ispirando rappresentazioni pittoriche e citazioni di vario genere da parte di letterati e scrittori. Luigi Capuana ne “La Galleria Vittorio Emanuele” dice che “è il cuore della città. La gente vi s’affolla da tutte le parti, continuamente, secondo le circostanze e le ore della giornata, e si riversa dai suoi quattro sbocchi […] Tutte le pulsazioni della vita cittadina si ripercuotono qui”.
Non so voi, ma io mi trovo d’accordo con la conclusione di Mark Twain che nel suo diario di viaggio, “Vagabondo in Italia”, affermò: “Mi piacerebbe viverci per sempre”.
In epoca carolingia, cambiano i caratteri usati dai copisti; la chiesa non detiene più lo scettro dell’insegnamento; si allargano il pubblico dei committenti e quello dei lettori.
Nei primi tempi, i monaci copisti usavano per i loro lavori di copiatura gli usuali caratteri normalmente impiegati sin dall’epoca dei romani: l’onciale (corsivo maiuscolo); il semionciale; la capitale (maiuscole quadrate); il rustico (maiuscolo più semplice). L’onciale resisterà con le sue lettere tondeggianti nella scrittura a penna, questo finché non si passerà alla stampa.
Nel 768, in epoca carolingia, appare la carolina, simile alla minuscola romana, definita anche scrittura di cancelleria. Essa sostituì il particolarismo grafico tipico dei secoli VII e VIII e rappresenta una delle formalizzazioni delle scritture semicorsive.
La scrittura carolina è chiara e ben proporzionata, possiede una notevole bellezza formale e avrà larga e lunga diffusione nell’Europa occidentale del Medioevo.
Durante il regno di Carlo Magno si eseguirà anche un grande lavoro di emendamento dei testi. I testi originali, in seguito ai vari passaggi di copia in copia, avevano subito sostanziali modifiche, alterazioni tali, nel corso del tempo, da modificare il senso stesso degli scritti.
Carlo Magno pensò di risolvere questo problema imponendo la creazione di nuove copie emendate dagli errori, in quanto realizzate con grande osservanza e scrupolo e soprattutto, basate su fonti più prossime possibile all’originale. I manoscritti carolingi si fregiano della dicitura “ex authentico libro” che fungeva da garanzia di una copiatura perfetta.
Al termine del XII secolo, il dominio incontrastato della chiesa sull’insegnamento viene meno; gli scrivani laici iniziano a riunirsi in botteghe e corporazioni. I loro principali lavori sono per la nuova borghesia mercantile per cui eseguono documenti, ma si occupano anche di comporre libri.
In questo periodo non cambiano solo gli esecutori dei manoscritti, ma anche i destinatari di queste magnifiche opere. Fino a questo momento, i committenti erano i nobili e gli ecclesiastici; le opere realizzate erano manufatti di lusso – per i signori – o manuali di teologia e messali per il clero.
Ora il mercato si estende: trattati di filosofia, di matematica, di logica e di astronomia fioriscono, ampliando i consueti settori dell’editoria.
In parallelo alla nascita di testi per un pubblico più ampio, gli autori, come Dante, iniziano a scrivere in volgare, ciò consente di avvicinare alla lettura molte più persone che sono istruite ma non conoscono il latino.
Queste due rivoluzioni in parallelo comportano un allargamento della cultura: finalmente, la borghesia si accosta ai libri e alla letteratura.
In copertina: a sinistra, ritratto immaginario di Carlo Magno, di Albrecht Dürer; a destra, pagina in minuscola carolina (escluse le prime tre righe, in onciale)
I Caffè letterari erano luoghi di socializzazione e di cultura. I dibattiti e le discussioni che si svolgevano tra i tavolini, sorseggiando una tisana o bevendo un caffè, hanno cambiato il mondo e la società di quei tempi.
I caffè letterari, dei quali abbiamo sentito parlare a scuola, a proposito di diffusione delle idee illuministe prima e dei fermenti romantici poi, esistono ancora nelle varie capitali e principali città d’Europa, ma non assolvono più alla funzione di incontro per discussioni vivaci e confronto che avevano svolto nei secoli passati.
Nei Caffè letterari si sono progettate rivoluzioni, non solo culturali.
A partire dal ‘700, i Caffè letterari si diffusero nel tempo un po’ dovunque in Europa (Francia, Austria, Italia, Spagna), diventando il luogo simbolo della cultura borghese e d’incontro degli intellettuali dell’epoca, dove si discuteva di arte, letteratura, filosofia e politica.
Il luogo di aggregazione, aperto a chiunque volesse partecipare alle questioni poste dai letterati riuniti nel Caffè, come risposta ai salotti nobili e alle accademie universitarie, più inclini al mantenimento dell’ordine pre-costituito!
Oggi rimangono le strutture, dove si organizzano iniziative culturali, ma che purtroppo, ormai, svolgono più una funzione ricreativa, avendo perso lo scopo originale e il collegamento diretto tra idee che da lì scaturivano e il mondo esterno, la società contemporanea.
I luoghi concepiti con lo scopo degli originali Caffè letterari non esistono più (almeno per la mia esperienza), mentre oggi ne avremmo un gran bisogno. Luoghi dove la gente possa incontrarsi e discutere, confrontare le proprie idee, sviscerare problemi e valutare soluzioni; luoghi dove le persone possano immaginare e progettare una società migliore, un mondo migliore.
Ora, siamo immersi in un mondo tecnologico e complicato, bombardati di notizie che fatichiamo a vagliare e verificare. La comunicazione si è trasformata in un must e ci viene spiegato come dobbiamo comunicare, nel modo più efficace e in ogni situazione: dal colloquio di lavoro alla presentazione di un brand aziendale. Purtroppo, non ci rendiamo conto di essere precipitati in un paradosso: comunichiamo senza interruzione e in modo sempre più qualificato, ma in pratica non comunichiamo più tra noi, su questioni assillanti che liquidiamo con un semplice tacet o mi piace.
Gli emoticon hanno sostituito le parole, i faccia a faccia sono sempre più rari: ora ci sono i cellulari con i quali possiamo essere raggiunti in qualunque posto a qualunque ora. Abbiamo la sensazione di essere connessi con tutti e con il mondo in ogni istante, ma in realtà le informazioni che viaggiano tra le persone sono sempre più superficiali e rapide, mancano i tempi per riflettere su quel che apprendiamo, non c’è più lo sguardo di colui con cui si dialoga e, soprattutto, manca la possibilità di “scollegarsi”, e ciò ci rende schiavi delle troppe informazioni e della cacofonia che producono: siamo diventati ciechi e incapaci di interpretare un mondo che va sempre più veloce e che ogni giorno diventa più complicato.
Gino Paoli cantava: “Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo“. Chissà, magari una scintilla peregrina del Caffè letterario settecentesco è sopravvissuta e potrebbe ancora appiccare un fuoco. Il risultato sarà diverso e diversi saranno anche gli strumenti di cui faremo uso, ma io spero davvero che gli obiettivi siano gli stessi.
in copertina: Artisti nel Caffè Greco a Roma, di Ludwig Passini, 1856
Musica, letteratura e gusto: linguaggi diversi per una ricetta tutta culturale
“Prendete dell’olio di Provenza, mostarda inglese, aceto di Francia, un po’ di limone, pepe, sale, battete e mescolate il tutto; poi aggiungete qualche tartufo tagliato a fette sottili. I tartufi danno a questo condimento una sorta di aureola, fatta apposta per mandare in estasi un ghiottone”.
La scelta di una ricetta di Gioachino Rossini: un’insalata, ideata a Roma, durante le prime rappresentazioni del Barbiere di Siviglia, è stata un’innocua provocazione per introdurre una breve riflessione sulle similitudini fra linguaggi all’apparenza molto diversi.
Rossini non era solo un genio della musica, ma era anche un amante della buona cucina (testimoni sono le sue famose cene nella Villa di Passy, gli innumerevoli accenni al cibo nelle sue lettere e i riferimenti gastronomici e culinari nelle sue composizioni musicali). Inoltre, le sue opere sono talmente ricche di spunti, di vitalità, di possibilità sonore e di infinite suggestioni che mi sembrano adatte a reggere il paragone con un discorso sulle affinità fra musica, letteratura e gusto.
Ognuno di questi diversi linguaggi segue una sua grammatica, delle regole che ne delineano la struttura, ne irreggimentano lo sviluppo e in tal modo ne consentono la crescita. Tutti e tre sono linguaggi complessi e hanno un bagaglio storico e territoriale che ne ha condizionato le direzioni, mentre le convenzioni, le mode e perché no anche qualche elemento casuale, forse più d’uno, ne hanno tratteggiato sapientemente i confini.
Ciascuno risponde ad uno o più sensi umani: orecchio, occhio, olfatto; tutte sono accomunate dall’unico regista che ne orienta le scelte: il cervello.
Lo spazio e il tempo sono essenziali per la nascita e per l’espressione di ognuno di questi linguaggi.
Tutti sono nati per comunicare e condividere e ognuno di essi ha contribuito e contribuisce, nel suo peculiare modo, a tracciare e definire i valori di una società, per questo andrebbero preservati e curati con grande attenzione.
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