“La lettrice” è un dipinto di Jean-Honoré Fragonard, risalente al 1776. Questo ritratto rappresenta una sorta di meditazione sulla bellezza e sugli effetti della lettura sull’animo femminile.
Jean-Honoré Fragonard (Grasse, 5 aprile 1732 – Parigi, 22 agosto 1806) è stato un pittore francese, un importante esponente del rococò e uno dei più importanti artisti francesi del Settecento.
Fragonard sapeva sfruttare al meglio le sue doti pittoriche. Faceva un uso particolare della luce e si avvaleva di una singolare rarefazione di specifiche parti, un valido artificio che gli consentiva di rappresentare con efficacia la leggerezza di alcuni elementi, come i panneggi o le bianche acconciature femminili.
Lavorò a Versailles fino alla rivoluzione, dopo la quale il suo stile fu rimpiazzato da quello neoclassico, caratterizzato da severità e tetraggine; l’opposto di quello di Fragonard che era assolutamente incapace di dipingere temi seri. Infatti, impossibilitato a gareggiare con i suoi pari aulici, aveva scelto di primeggiare tra i pittori di moda e i suoi dipinti più famosi raffigurano scene leggere e frivole, spesso erotiche.
Non disdegnò neppure i soggetti storici, i paesaggi e le opere di genere, ma la sua grande eleganza fu chiaramente impiegata nella pittura di carattere frivolo e malizioso.
Affascinato dalla bellezza femminile, Fragonard dipinse un nutrito gruppo di dipinti in cui sono raffigurate giovani donne in momenti di quieta solitudine. Questi dipinti sono una specie di evocazione; le fanciulle che l’artista amava dipingere sono una sorta di personificazione della musica e della poesia.
Uno di questi dipinti “al femminile” è “La lettrice”. Nel quadro è raffigurata una ragazza con uno sgargiante vestito giallo; ha il capo inclinato ed è appoggiata a un grande cuscino rosa, piacevolmente assorta nella lettura di un libro che sorregge con delicatezza con la mano destra; l’altra mano è appoggiata a una poltrona. Non sappiamo chi sia questa giovane concentrata a leggere, invece sappiamo, grazie ai raggi x, che sotto questo dipinto, l’artista aveva tracciato un disegno differente. L’opera è datata 1776 ed è stata utilizzata in svariate edizioni del romanzo “Madame Bovary” di Gustave Flaubert.
Rispetto alle altre opere di Fragonard, questo dipinto è certamente più tranquillo. Si tratta di una scena di erudizione di una giovane donna e potrebbe essere definito un ritratto, anche se la donna non ci guarda. Da notare la postura delle mani e della schiena (molto dritta nonostante il grande cuscino) che denotano che la ragazza ha ricevuto un’educazione in materia di decoro ed etichetta.
La tecnica utilizzata da Fragonard è l’olio su tela. Notevole per la varietà dei tocchi, il dipinto è un buon esempio della pennellata rapida e vigorosa sviluppata dall’artista, e a volte definita “escrime” (scherma) dai suoi contemporanei.
Fragonard ha concepito questo dipinto, affinché fosse gradito agli occhi di chiunque, evitando gli interessi intellettuali e con l’intento di arrecare gioia e calore allo spettatore che l’artista coinvolge, inducendolo a porsi delle domande sulle conseguenze della lettura nel pensiero e nelle emozioni della fanciulla ritratta. In questo modo, “La lettrice” diventa una meditazione sulla bellezza, ma anche sulle implicazioni della lettura nell’animo femminile.
Attualmente, “La lettrice” è conservata alla National Gallery of Art di Washington. Fu donata al museo nel 1961, dalla signora Mellon Bruce, in memoria di suo padre, Andrew W. Mellon. In precedenza, era appartenuta al dottor Tuffier.
In copertina: “La lettrice”, olio su tela (dimensioni 81,1×64,8 cm) di Jean-Honoré Fragonard, conservato alla National Gallery of Art, Washington
A inizio Novecento soffiano venti di cambiamento per il giallo. Tra gli anni venti e trenta, il genere prenderà le distanze dal modello instaurato dai gialli di Conan Doyle e si creeranno correnti diverse in Europa e in America.
Agli inizi del Novecento il genere giallo incontra sempre più consensi, innanzitutto da parte dei lettori, successivamente, anche da parte della critica.
Molti autori si dedicano alla scrittura di gialli e un certo numero di essi ha anche raggiunto una fama mondiale, tra questi: Raymond Chandler (1888-1959), Rex Stout (1886-1975) e Agatha Christie (1890-1976).
Compaiono anche dei tentativi di dare forma a un detective diverso, più umano, meno freddo, altrettanto si cerca di fare con le storie.
Un esempio di tali iniziative si rilevano nei libri di Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936; scrittore e giornalista britannico, molto prolifico e versatile), creatore del prete detective, Padre Brown.
Il vero cambiamento, però si avrà solo verso la metà degli anni trenta, quando gli autori di questo genere inizieranno ad affrancarsi dagli schemi del giallo classico. Ed è proprio in questa fase che iniziano a definirsi due strade che, parallelamente, e in modo molto diverso, in Europa e in America, prenderanno le distanze dal modello creato da Conan Doyle (1859 – 1930) con “Sherlock Holmes”.
Negli anni venti e trenta, negli Stati Uniti si afferma un genere di giallo che sarà poi definito hard boiled. Le storie di questo tipo sono descritte con toni oscuri e negativi; lo stile è tagliente, il linguaggio crudo si spinge ai limiti del volgare.
Il delitto è uno degli elementi della narrazione, mentre le ambientazioni e la descrizione psicologica dei personaggi assurgono a parte di rilievo nella storia.
Gli scenari degradati delle metropoli americane fanno da sfondo a una società in cui contano solo potere e denaro, mentre i buoni e i deboli sono – ahimé – destinati a soccombere.
I detective di queste storie sono figli dell’America spietata e disincantata degli anni successivi alla terribile crisi del 1929. Sono dei solitari, avventurieri, dei duri, traditi dalla vita e per questo, spesso alcolizzati o comunque forti bevitori, che non hanno più nulla in cui credere.
In Europa, invece, dai primi anni trenta i cambiamenti nel genere giallo assumono toni meno duri di quelli usati dagli scrittori che vivono dall’altra parte dell’oceano.
In Italia, Augusto De Angelis (1888 – 1944; scrittore e giornalista, attivo in particolare durante gli anni del fascismo) diede vita al suo commissario De Vincenzi, una sorta di Maigret italiano che, purtroppo, non incontrò grande favore di pubblico. Forse, anche a causa della chiusura culturale dovuta al fascismo e anche per lo scarso apprezzamento del genere poliziesco da parte del regime.
Nel 1943, fu imposto il sequestro in Italia di “tutti i romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita“. Fu anche chiusa la famosa collana di gialli di Arnoldo Mondadori Editore.
Il regime fascista, per motivi propagandistici e di ordine pubblico, mirava a nascondere sotto il tappeto qualsiasi cosa potesse incrinare la facciata positiva e integra della società italiana, che era mostrata agli italiani e al mondo. Per questo motivo, il crimine fu fatto scomparire sia dalla cronaca sia dalla letteratura. I gialli, anche se trattavano di atti criminali immaginari, erano comunque visti con sospetto, come un mezzo per istigare e sovvertire l’ordine costituito.
In Europa, invece, il genere continuava la sua inarrestabile evoluzione. A metà degli anni trenta, George Simenon (1903 – 1989) creò il personaggio di Maigret e sovvertì in maniera definitiva l’idea di indagine e persino il concetto di romanzo poliziesco. Grazie a lui, non mutò solo la figura del detective, ma anche gli ambienti, le situazioni e i personaggi in generale, diversissimi da quelli cui si era abituati a “frequentare” con il giallo classico.
Ora, sotto la lente dell’investigatore non c’è più il mondo aristocratico, ma l’uomo comune, il piccolo borghese, e le trame dei nuovi libri gialli tengono sempre più conto delle tematiche esistenziali, filosofiche e psicologiche.
Lasciando al passato le ambientazioni rarefatte e mondane, si scende nelle strade, ad affrontare le inquietudini della gente comune. Il romanzo poliziesco a questo punto non è più strettamente letteratura di genere, ma accresce il suo spessore sia a livello contenutistico sia stilistico e finisce per mescolarsi con una letteratura dotata di un più ampio respiro.
Simenon, a braccetto con il suo Maigret, ha fatto e tuttora fa “visitare” ai suoi lettori una Parigi fatta di brasserie e quartieri popolari, spingendosi fin nella provincia francese.
Il commissario di Simenon non è un eroe, è un uomo ordinario e vulnerabile, un poliziotto e un borghese, che però è dotato di una profonda umanità.
Le sue indagini, condotte in modo molto diverso da quelle dei suoi predecessori, danno quasi l’idea che non stia per niente indagando, e arrivano a rivelare il più delle volte una verità amara.
Anche gli assassini di Maigret non hanno niente a che vedere con i loro predecessori del genere: sono persone comuni che uccidono, perché un imprevisto ha sconvolto le loro vite e le ha costrette ad agire di conseguenza.
Nelle storie di Simenon, non c’è il gioco della deduzione, al fine di individuare l’assassino. Il colpevole, infatti, è spesso individuato o comunque sospettato abbastanza presto, ma quello che conta in questo percorso non è capire chi, piuttosto perché, cioè ricostruire la verità umana, arrivare al motivo che ha fatto scatenare il dramma e ovviamente, ottenere le prove per inchiodare il colpevole.
Quello che conta, insomma, per Maigret e per Simenon è la vicenda umana dietro al crimine che si è consumato. (prosegue)
Il pittore svizzero Anker ha realizzato molti dipinti che raffigurano lettori e lettrici, mostrando quanto fosse importante la lettura nell’Ottocento e rimarcandone la diffusione, e il ruolo da protagonista da essa assunto nella vita delle persone.
Albert Samuel Anker (1° aprile 1831 a Ins, Canton Berna, Svizzera – 16 luglio 1910 ibid), pittore e grafico, è famoso per aver ritratto scene di vita quotidiana con grande vivacità. Dipinse anche paesaggi rurali, ritratti di bambini, nature morte, scene con personaggi religiosi e storici. L’artista ha anche dedicato numerose opere al tema della lettura e al piacere di leggere. Del resto, Anker era un uomo colto, che scriveva e leggeva in ben sei lingue.
Passando in rassegna i libri della sua biblioteca, conservati nella casa museo di Ins e prendendo in esame la sua corrispondenza, scopriamo che il pittore, oltre alle opere teologiche e filosofiche, leggeva anche gli autori greci e latini in originale, e la Bibbia in ebraico. Non disdegnava neppure la storia, il genere biografico, le descrizioni di viaggi, la storia naturale e quella dell’arte. Tra i suoi scaffali c’era spazio anche per la letteratura francese, come Honoré de Balzac (1799 – 1850)ed Émile Zola (1840 – 1902), e per tutte le opere dello scrittore svizzero Albert Bitzius (pseudonimo di Jeremias Gotthelf, 1797 – 1854).
Oltre ai libri, Anker leggeva anche i giornali. Le sue testate preferite erano “Suisse libérale” e “Berner Volkszeitung”. I quotidiani gli consentivano di assorbire il gusto e lo spirito dei suoi tempi, di aggiornarsi sui fatti del mondo e di sondare le problematiche sociali che lo interessavano in particolar modo.
I suoi dipinti rispecchiano le sue tendenze e quelle della società in cui viveva: in molti ritratti compaiono uomini, soprattutto contadini di Ins, che leggono giornali. Infatti, a partire dalla metà dell’Ottocento, in Svizzera, c’era una notevole diffusione di periodici, anche nel ceto popolare.
Nel 1860, esistevano ben 298 testate tra giornali e riviste, che dimostravano la volontà del ceto contadino di emanciparsi sia a livello culturale sia a livello politico. Nei suoi quadri Anker afferma anche il suo orientamento politico, mettendo in mano ai suoi contadini il “Seeländer Bote”, un giornale di ispirazione liberale e conservatrice.
A leggere però non sono solo gli uomini, in molte opere del pittore svizzero, infatti, sono raffigurate giovani donne che si dedicano con fervore alla lettura. Arken con i suoi dipinti ha immortalato i cambiamenti sociali in atto ai suoi tempi. Se nel Settecento e nel primo Ottocento la lettura era stata un mezzo per istruire le ragazze della borghesia, ora questa tendenza si estende alle donne del ceto popolare.
L’artista però, non ha raffigurato donne intente a leggere giornali: la politica era ancora un affare da uomini. Alle donne erano destinate letture come la Bibbia, la storia della Svizzera, i romanzi di Gotthelf, biografie, poesie, novelle. All’epoca, procurarsi libri per letture individuali era semplice: c’erano molte biblioteche popolari un po’ ovunque nel Cantone di Berna. Nel 1866 erano attive ben 173 “Jugend- und Volks-bibliotheken” (biblioteche per la gioventù e per il popolo)
Oltre a uomini e donne, Anker ha raffigurato anche bambini e adolescenti, fissati sulla tela mentre ad esempio leggono ad alta voce a qualcuno. I soggetti ritratti hanno atteggiamenti attenti e sono particolarmente concentrati nel loro compito; ad ascoltarli ci sono compagni, fratellini più piccoli, genitori che stanno svolgendo lavori domestici oppure vecchi nonni.
Nell’Ottocento, nel Cantone di Berna gran parte della popolazione sa leggere. E il gesto di qualcuno che legge per altri indica non solo l’intimità e la complicità che la lettura è in grado di creare tra le persone, ma anche il valore che riveste tale attività per la scuola bernese. Inoltre, i dipinti che raffigurano soggetti che leggono ad alta voce mostrano un metodo di insegnamento che mirava a far apprendere giusto tono e ritmo, e ad esprimere le emozioni, affinché gli ascoltatori fossero affascinati e conquistati, e mantenessero desta la loro attenzione.
Arken era un intellettuale a trecentosessanta gradi e la sua pittura mostra tutta la ricchezza della sua conoscenza. Nell’esplorare la lettura e il mondo dei libri, l’artista ha assunto anche il ruolo di illustratore: nel 1890, ha realizzato duecento disegni per i nove volumi di opere scelte di Gotthelf.
Il pittore svizzero nei suoi dipinti ha riassunto la funzione della lettura, passando attraverso varie generazioni e includendo una larga tipologia di supporti: dal libro al giornale, dal documento alla lettera. Ha raffigurato vari tipi umani: scolari; ragazze intente a pettinarsi o a lavorare a maglia che intanto leggono; bambini che osservano incuriositi dei fogli stampati; segretari comunali che confrontano documenti ufficiali; anziani che leggono la Bibbia o il giornale.
Dalla Bibbia ai romanzi, dall’apprendimento al consumo, la lettura è analizzata in tutte le sue forme; valutata per gli umori e le differenti reazioni che suscita. Inoltre, il pittore rappresenta i suoi lettori in varie ambientazioni: en plein air; seduti in poltrona; a letto durante una convalescenza.
Inoltre, ci sono momenti e momenti. C’è la lettura domenicale della Bibbia con la famiglia o la lettura delle missive di coloro che sono in guerra; c’è la lettura del giornale che tiene aggiornati sulle questioni del mondo oppure la lettura d’evasione, tipicamente femminile.
In pratica, i dipinti di Arken mostrano in un’efficace carrellata le varie declinazioni dell’affascinante mondo della lettura, dei lettori e del leggere in generale, evidenziando come questa attività nell’Ottocento accompagnasse in sordina ogni istante della vita delle persone.
In copertina: Albert Anker, particolare del dipinto “Eine Gotthelf-Leserin” (una lettrice di Gotthelf) – olio su tela 59 × 42 cm – 1884
Il ferragosto, giorno festivo che cade ogni 15 di agosto, ha un’origine antica. Questa festa estiva risale ai tempi di Roma antica e deve la sua istituzione all’imperatore Augusto.
Il Ferragosto è un giorno festivo che si festeggia ogni anno il 15 agosto in tutta Italia, a San Marino e nel Canton Ticino. Si tratta di una festa di origine romana antica. Questa giornata è solitamente dedicata a gite fuori porta, ai falò, agli spettacoli pirotecnici. Molti trascorrono il ferragosto spostandosi verso località montane o collinari in cerca di refrigerio oppure c’è ci predilige il mare e sceglie il sollievo di un bel tuffo in acque cristalline.
Il termine Ferragosto deriva dalla locuzione latina “Feriae Augusti” (riposo di Augusto) che indicava una festività istituita dall’imperatore Augusto, nel 18 a.C. Per i romani era un periodo di riposo e festeggiamenti. Aveva origine dai Consualia, feste che celebravano la fine dei lavori agricoli, dedicate a Conso, dio della terra e della fertilità.
I festeggiamenti del ferragosto prevedevano l’organizzazione di corse di cavalli, inoltre, gli animali da tiro (buoi, asini e muli) si godevano anche loro un po’ di riposo ed erano bardati con dei fiori. La tradizione di questa festa è riproposta, quasi immutata, nella forma e nella partecipazione, nel “Palio dell’Assunta” che ha luogo a Siena il 16 agosto. La stessa denominazione “palio” deriva dal “pallium”, drappo di stoffa pregiata che rappresentava il premio per i vincitori delle corse di cavalli nell’Antica Roma.
A Ferragosto, i lavoratori facevano gli auguri ai loro padroni e si vedevano corrisposta una mancia. In epoca rinascimentale tale compenso fu reso obbligatorio nello Stato Pontificio.
In origine, il ferragosto si celebrava il primo giorno del mese di agosto. Lo spostamento fu attuato dalla Chiesa cattolica che fece combaciare la festa laica con quella religiosa dell’Assunzione di Maria.
In copertina: “La colazione dei canottieri” (Le déjeuner des canotiers), dipinto a olio su tela di Pierre-Auguste Renoir (1880-1881); conservato alla Phillips Collection di Washington
Van Gogh ha dipinto paesaggi, ritratti e nature morte, ma tra i soggetti più amati dall’artista olandese ricordiamo i suoi girasoli dei quali ci resta una nutrita serie.
Il 21 giugno 2022, cade il solstizio d’estate e pensando a questa stagione, mi viene in mente per celebrarla un fiore che da solo può rappresentare questo periodo particolare dell’anno: il girasole e al contempo, penso a un artista che amò moltissimo questi singolari fiori, Vincent van Gogh, tanto da produrre, tra il 1888 e il 1889, una serie di dipinti a olio dedicata proprio ai girasoli. Inoltre, tra le sue opere, questo soggetto è uno dei più conosciuti dal grande pubblico. L’artista cominciò a dipingerli recisi già nel 1887, a Parigi, in effetti, però, la produzione di questo particolare soggetto, ha inizio ad Arles, nel 1888. L’artista arrivò nella cittadina francese in febbraio; ispirato dal luogo del quale si innamorò subito, pensò di invitare il suo amico, Paul Gauguin (1848 – 1903), per proporgli di creare un gruppo di artisti che loro due avrebbero guidato.
Di questo periodo particolarmente felice della vita del pittore sono i “Girasoli in vaso”. Van Gogh li dipinse durante l’estate ed erano destinati a decorare la stanza del suo ospite. In una lettera indirizzata al fratello, Theo, l’artista sembra essere nel pieno di una fase creativa: “Ci sto lavorando ogni mattina, dall’alba in avanti, in quanto i fiori si avvizziscono così rapidamente”.
Van Gogh progettava di realizzare dodici tele. I primi quattro dipinti si suppone siano stati: “il Vaso con dodici girasoli”; “il Vaso con quindici girasoli”; “il Vaso con cinque girasoli”; “il Vaso con tre girasoli”. Il suo amico, Paul Gauguin, arrivò ad Arles, nel mese di ottobre, ma non condivise il suo entusiasmo per la cittadina. Questo periodo, particolarmente prolifico per il pittore che realizzò molti dipinti, fu invece molto difficile a livello personale: i litigi con Gauguin erano all’ordine del giorno, così come gli atti violenti da parte di Van Gogh. Alla fine, i due si separano burrascosamente nel mese di dicembre; all’epoca, l’artista olandese era in preda a un esaurimento, mentre il suo amico era in procinto di partire per Tahiti.
A dicembre, Van Gogh sta ancora dipingendo tele con girasoli – ne è riprova il dipinto di Gauguin che lo ha raffigurato mentre era all’opera – ma ormai, considerata la stagione, non potava più osservare i fiori dal vero. Forse, in quei giorni, l’artista si avvaleva dei suoi stessi dipinti come modello e li ricopiava facendo poche variazioni.
Gli studiosi stanno ancora valutando il periodo in cui il pittore realizzò le varie repliche della serie di girasoli. Al periodo in cui l’artista soggiornò ad Arles, sono stati attribuiti un numero esagerato di opere, questo, però, è chiaramente in contrasto con il periodo particolarmente difficile che stava vivendo a livello personale.
Van Gogh aveva delle preferenze numeriche per quanto riguarda il soggetto dei girasoli. Per la maggior parte sono 14 o 15. Questi numeri avevano per lui un significato particolare, e lo veniamo a sapere grazie a una lettera indirizzata al fratello. Il 14 era la somma dei 12 apostoli più due figure significative nella vita del pittore e cioè, Theo, suo fratello, e Paul Gauguin; il 15, invece, oltre ai già menzionati, comprendeva l’artista stesso.
Attualmente, i dipinti che raffigurano i girasoli non sono più conservati insieme in uno stesso luogo, ma dispersi in tanti musei diversi o in mano a privati. Un vero peccato: l’effetto della serie al completo doveva essere davvero magnifica.
Nei suoi dipinti, Van Gogh raffigura i girasoli in tutte le fasi della loro esistenza: dal bocciolo all’appassimento. Nelle lettere indirizzate a Theo, l’artista parla con grande gioia e ottimismo dei suoi girasoli. Nei primi dipinti, utilizza uno sfondo tra il blu e il violetto, per aumentare il contrasto tra il giallo del soggetto e il fondo su cui esso deve stagliarsi, in ciò si rifaceva alle tendenze degli artisti trasgressivi parigini. Successivamente, Van Gogh scelse di mettere i girasoli in un vaso giallo e per il fondo usò una tonalità dello stesso colore. Questa soluzione gli sembrò migliore, perché così il dipinto irradiava luce e allegria.
Per l’artista il colore dei soggetti non doveva rispondere alla realtà, ma era un mezzo per esprimere le emozioni. Le pennellate di Van Gogh sono dense e ruvide; spesso i tratti di pennello si sovrappongono, il pittore tracciava i successivi passaggi quando ancora il colore non era ben asciutto. A volte, scalfiva addirittura con il manico del pennello la vernice fresca. Il colore era modellato, quasi fosse una scultura e lo spessore garantiva effetti di ombra e luce, al posto di quelli che si sarebbero potuti ottenere modificando il tono del pigmento. Per i girasoli, Van Gogh fece un uso notevole del giallo cadmio che lui amava particolarmente e che per l’epoca rappresentava una novità: era un pigmento inventato di recente.
Nella serie dei girasoli in vaso, Van Gogh ha dato vita anche a un forte contrasto: sfondo e vaso sono piatti, mentre i fiori paiono contorcersi in tutte le direzioni. La sua firma compare quasi sempre sul vaso e seguendo l’usanza dei grandi artisti del passato usa solo il nome di battesimo.
In copertina: Paul Gauguin, particolare del dipinto “Van Gogh che dipinge i girasoli” (1888) – Van Gogh Museum
La cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, opera di Filippo Brunelleschi, è ritenuta la più importante opera architettonica mai realizzata in Europa dall’epoca romana.
La cupola di Filippo Brunelleschi (Firenze, 1377 – Firenze, 15 aprile 1446) già nella epoca in cui fu edificata lasciò tutti senza parole. Si trattava di un’opera ingegneristica unica. Inoltre, è stata una pietra miliare sia per la moderna concezione del costruire sia per il successivo sviluppo dell’architettura. Senza dimenticare che, è di una bellezza spettacolare.
Leon Battista Alberti (1404-1472) nel suo “De pictura” la descrive così: “Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli antichi fu non saputo né conosciuto?”
C’è un motivo se fu così lodata: era ed è un unicum. Quando fu realizzata era la cupola più grande del mondo e attualmente, è la più grande cupola in muratura mai costruita. Il suo scopo era quello di fare da copertura alla crociera di Santa Maria del Fiore a Firenze.
Se guardiamo ai numeri ci rendiamo conto di quanto sia stato arduo il lavoro di Brunelleschi e a dir poco straordinario il suo risultato. Il diametro massimo della cupola interna raggiunge i 45,5 metri, quella esterna è di 54,8. Uno degli ostacoli più difficili da superare per l’architetto fu la grandezza della struttura che richiedeva un metodo costruttivo nuovo, in quanto, le tradizionali centine (armature), in questo particolare caso, non erano utilizzabili.
Per questo e per altri motivi, la realizzazione della copertura del duomo fu un problema che rimase a lungo irrisolto. Chi doveva intraprendere la costruzione della cupola era consapevole che, utilizzando i sistemi di costruzione finora conosciuti, avrebbe dovuto ricorrere a enormi centine in legno per sostenere la cupola fino al suo compimento. Il primo timore era che, una struttura simile in legno non sarebbe stata in grado di sorreggere il peso della volta o che il tutto potesse precipitare su se stesso.
Arnolfo di Cambio (1245 ca. – tra il 1302 e il 1310 ca.), primo architetto di Santa Maria del Fiore, probabilmente, aveva pensato di realizzare una copertura a cupola del presbiterio. Da un affresco di Andrea Bonaiuti (1319-1377), nella basilica di Santa Maria Novella, si evince che nel Trecento si valutava ancora l’idea di una cupola di dimensioni inferiori a quella poi realizzata da Brunelleschi.
Nel 1418, l’Opera del Duomo promosse un concorso pubblico per la copertura della cattedrale di Santa Maria del Fiore. Non ci furono vincitori, ma Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti (1378-1455) furono designati come capomastri. I lavori per l’edificazione della cupola iniziarono il 7 agosto 1420 e terminarono il 1° agosto 1436.
Brunelleschi, in vista della realizzazione dell’opera, aveva predisposto un programma di lavoro in dodici punti. Nel documento erano esposti:
il modo in cui sarebbe stato chiuso il tamburo
le principali indicazioni su come sarebbe stata eseguita la costruzione (forma, struttura e dimensioni della cupola)
i cambiamenti
gli imprevisti
le aggiunte necessarie
Nel 1423, Ghiberti fu escluso dai lavori e Brunelleschi portò avanti il cantiere da solo, fino alla realizzazione completa della cupola nel 1436. Il 25 di marzo dello stesso anno fu celebrata in grande pompa la cerimonia di consacrazione della cattedrale di Firenze, durante la quale fu eseguito un mottetto di Guillaume Dufay: “Nuper rosarum flores”.
Per comprendere le capacità di Brunelleschi e le eccezionalità che racchiude la cupola da lui progettata, bisogna osservarla più da vicino. Innanzitutto, l’architetto la concepì nel rispetto delle proporzioni auree, una consuetudine per quell’epoca, che consentiva di realizzare opere dove equilibrio e armonia fossero chiaramente visibili. La struttura, una volta terminata, si innalzava da un tamburo ottagonale in otto spicchi (vele) predisposti su due calotte, separate fra loro da uno spazio vuoto, in questo spazio era compresa la gradinata che conduceva alla lanterna.
Una catena lignea composta da 24 travi, unite tra loro da staffe e perni di ferro, circondava tutta la costruzione; questa specie di anello aveva la funzione di opporsi alle forze che spingevano verso l’esterno. In effetti, tutte le singole parti di questa formidabile costruzione avevano la funzione di contrastare e rendere stabile l’insieme, grazie a uno studiato contrapporsi di forze e pesi, quelli dei costoloni, della lanterna e persino della palla di bronzo, realizzata dal Verrocchio (1435-1488) nel 1472 e posta sulla cima, che serviva a stabilizzare l’anello di congiunzione della cupola.
Per quanto riguarda la costruzione di questa ingegnosa struttura architettonica, il punto di partenza di Brunelleschi è stato il tamburo che misurava 45 metri di larghezza massima, era posto a 54 metri di altezza e aveva forma ottagonale imperfetta. Su tale base doveva svilupparsi la cupola che, a fine lavori, considerando anche la palla dorata e la croce, si ergeva per ben 116 metri.
Le notevoli dimensioni di partenza non erano previste nel progetto iniziale della costruzione di Santa Maria del Fiore, ma si resero necessarie, al fine di rinforzare il tamburo della cupola che era stato rialzato rispetto al modello originario, con un piano sul quale erano stati ricavati otto grandi occhi che garantivano l’illuminazione di una parte della chiesa. L’innalzamento del piano d’imposta della cupola comportò che la costruzione finale si trovasse più in alto di qualsiasi altra volta fino a quel momento realizzata.
Per quanto riguarda gli ostacoli che Brunelleschi dovette affrontare, per realizzare la cupola del duomo di Firenze, il più ostico fu la forma ottagonale del tamburo. Infatti, una normale cupola emisferica (o parabolica o elissoidale) è sempre possibile da costruire, in quanto essa è composta da infiniti archi, ognuno dei quali, una volta terminato, si autososterrà. La costruzione di questo tipo di cupola definita di rotazione inizia dai bordi, con piccoli archi che saranno seguiti da archi sempre più grandi, uno addossato all’altro e in grado di reggersi da soli.
Questo tipo di cupola non era realizzabile nel caso di Santa Maria del Fiore, perché appunto la partenza della struttura da edificare era di forma ottagonale, a facce piane. In pratica, Brunelleschi ha dato vita a una volta ottagonale che, diversamente da una cupola ottenuta da rotazione, non era autoportante. Per poter dare una copertura al duomo fu subito chiaro che era necessario usare delle impalcature di legno, che avrebbero dovuto sostenere le murature fino a che le malte non avessero fatto presa. In Italia, però non c’era disponibilità di travi gigantesche, come invece accadeva nel nord Europa e oltretutto, anche travi enormi non sarebbero state sufficienti a sostenere le volte che si dovevano realizzare per la cupola del duomo di Firenze.
Attualmente, nonostante numerosi studi abbiano affrontato l’argomento, non si è giunti a un’unica conclusione: esistono ancora varie ipotesi su come la cupola ideata da Brunelleschi abbia potuto autosostenersi durante la costruzione. Quello che sappiamo per certo è che il geniale architetto studiò con grande attenzione le cupole romane, la geometria e che dedicò alla struttura una progettazione minuziosa che lo impegnò per anni.
Altro tema ancora in discussione: individuare le fonti di ispirazione di Brunelleschi per la realizzazione di questa incredibile opera architettonica. Sul piatto sono state collocate molte “pietanze”: dai precedenti fiorentini alle strutture voltate di epoca romana sino alla pratica costruttiva dei persiani. In realtà, Brunelleschi non aveva alcun riferimento tecnologico cui appoggiarsi per la realizzazione di una cupola a spicchi, perché tutti gli esempi esistenti o erano cupole di rotazione oppure erano armabili.
Terminati i lavori della copertura di Santa Maria del Fiore, fu indetto un altro concorso pubblico, stavolta per la lanterna e fu vinto da Brunelleschi. Trascorsi pochi mesi dall’inizio dei lavori, nel 1446, il geniale architetto morì e il cantiere proseguì con la direzione di Michelozzo di Bartolomeo (1396-1472), amico e seguace di Brunelleschi, successivamente, con quella di Antonio Manetti (1423-1497) che condusse a termine i lavori, il 23 aprile 1461.
Le invenzioni di Brunelleschi non furono accantonate neppure dopo la sua morte: i suoi successori utilizzarono, per completare la costruzione della lanterna, le macchine che il talentuoso architetto aveva ideato per la realizzazione della cupola, in particolare, quelle impiegate per sollevare i materiali. Queste ingegnose macchine, che sembra fossero un’applicazione delle tecniche studiate da Brunelleschi per i suoi celebri orologi, rappresentavano esse stesse un progresso non indifferente nella scienza delle costruzioni.
Pur non conoscendo nulla di tecniche ingegneristiche, ignorando l’immane peso della cupola, che si aggira intorno alle 25.000 tonnellate, e persino eludendo fastidiosi pensieri su attriti, resistenza dei materiali e forze e controforze che si misurano fra loro, un casuale visitatore di Firenze, che si trovi davanti alla cupola di Brunelleschi, non può che restare a faccia in su, ad ammirare questa autentica meraviglia che riempie gli occhi con la sua bellezza, al di là di tutta la fatica e il mirabile ingegno che ne hanno permesso la creazione.
“Nuper rosarum flores” è un brano musicale composto da Guillaume Dufay in occasione di una celebrazione fiorentina: la consacrazione della chiesa di Santa Maria del Fiore.
Chi non conosce la cupola di Brunelleschi, ma quanti sanno che un mottetto fu scritto appositamente da un musicista franco-fiammingo, Guillaume Dufay, per essere cantato durante la cerimonia della consacrazione della celebre cattedrale di Firenze?
Il mio ultimo soggiorno a Firenze risale a poco prima che esplodesse l’epidemia di covid. Ci sono un’infinità di luoghi interessanti e meravigliosi da visitare a Firenze, ma una delle cose più preziose da ammirare in città è la cupola di Santa Maria del Fiore. Impossibile non restare affascinati da una struttura così straordinaria.
Ai tempi della mia tesi di laurea, ho scoperto la relazione esistente tra questa grandiosa opera architettonica e una composizione musicale altrettanto pregevole. Si tratta di “Nuper rosarum flores” (Ecco fiori di rosa) di Guillaume Dufay (1397 ca. – 1474; compositore e teorico musicale franco-fiammingo, figura di rilievo della scuola di Borgogna e tra i più noti compositori europei della metà del Quattrocento. La sua opera ha dato inizio al periodo rinascimentale in musica), un mottetto isoritmico (isoritmia: ripetizione di una figura ritmica – successione di valori di durata delle note – nelle diverse frasi di una composizione musicale) composto nel 1436, che fa riferimento al nome e allo stemma di Firenze, e alla dedica della basilica a Santa Maria del Fiore.
“Nuper rosarum flores” fu scritto da Dufay in occasione della cerimonia per la consacrazione della cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, quando finalmente, la cupola edificata dall’architetto e scultore Filippo Brunelleschi (1377-1446) fu portata a compimento. Per rendere l’idea del fasto e della solennità della cerimonia basterà dire che il rito della dedicazione fu officiato da Papa Eugenio IV in persona, il 25 marzo del 1436.
I mottetti celebrativi come quello di Dufay erano una consuetudine per quell’epoca, si trattava di brani destinati a dare veste sonora a importanti eventi della vita pubblica. Inoltre, il musicista franco-fiammingo è riuscito in questa composizione a coniugare l’antico stile isoritmico con il nuovo stile contrappuntistico che fu sviluppato nel decennio successivo da lui stesso e dai suoi successori.
Possiamo solo immaginare l’effetto che produsse il prodigioso brano musicale in coloro che furono presenti, possiamo però farcene un’idea, leggendo le testimonianze scritte che sono rimaste di quei memorabili festeggiamenti. In particolare, è interessante la descrizione fornita da Giannozzo Manetti (1396-1459; scrittore, filologo e umanista italiano, importante esponente del primissimo Rinascimento letterario), uno dei pochi testi umanistici che descrivono, anche se in modo generico, una esecuzione di musica polifonica.
“Si udirono cantare voci così numerose e così varie, e tali sinfonie s’elevarono verso il cielo, che si sarebbe creduto di sentire un concerto d’angeli […] Quando il canto cessava […] si sentivano suonare gli strumenti in maniera […] allegra e soave […] Al momento dell’elevazione la basilica tutta intera risuonò di sinfonie così armoniose, accompagnate dal suono di diversi strumenti, che si sarebbe detto che il suono e il canto del paradiso fossero scesi dal cielo sulla terra” (Giannozzo Manetti, “Oratio de secularibus et pontificalibus pompis in consecratione basilicae florentinae”, 1436).
Nuper rosarum flores è una composizione simbolica, essa rappresenta, più di qualunque altro esempio del genere, la tendenza quattrocentesca, ereditata dal Medioevo, di strutturare una composizione musicale sulla base di rapporti di grandezza stabiliti matematicamente.
La singolarità del brano di Dufay, però, si spinge oltre le semplici cifre matematiche. Il musicologo Charles Warren, in un suo articolo del 1973, sostenne che le strutture proporzionali del mottetto fossero collegate alle proporzioni della cupola di Brunelleschi. In realtà, questa tesi si rivelò errata: Craig Wright dimostrò, successivamente, che le proporzioni impiegate dal musicista, probabilmente, derivavano dalle indicazioni bibliche relative alle misure del tempio di Salomone. Le indagini in questo senso non si arrestarono: la possibilità di un rapporto diretto tra le proporzioni del mottetto e quelle della costruzione di Brunelleschi si ripresentarono e furono ampliate, includendo persino la simbologia legata all’Apocalisse.
Nuper rosarum flores è un mottetto a quattro voci: due tenores, motetus e triplum. La struttura del brano poggia su un cantus firmus (canto fermo, melodia eseguita da una voce – tenor – nell’arco della composizione; base su cui si sviluppava il gioco contrappuntistico delle altre voci) la cui melodia era tratta dal repertorio liturgico, nel caso specifico era l’incipit dell’introito dalla messa per la dedicazione di una chiesa: “Terribilis est locus iste” (Questo luogo incute rispetto). Tenor I e II (strumentali) eseguono la melodia con note lunghe e ritmicamente sfalsata, a distanza di una quinta l’uno dall’altro.
Il mottetto è diviso in quattro parti; in ognuna compare il cantus firmus che però è variato ritmicamente nelle sue quattro riproposizioni da parte dei due tenores. Le altre due voci: triplum e motetus intonano una lirica latina, iniziano ciascuna sezione da soli e tali restano per 28 brevi (breve: valore musicale di durata doppia dell’intero; è raffigurata come una testa rettangolare vuota o, più recentemente, come una testa ovale vuota tra due barre laterali), poi alle loro voci si uniscono i due tenores, per la durata di altre 28 brevi. Ogni sezione è formata da due segmenti (28+28 brevi), il primo è eseguito a due voci, il secondo a quattro.
Osservando esclusivamente la notazione del mottetto di Dufay si rilevano dimensioni identiche (56 brevi), ma il metro nella composizione è variato, per cui la durata autentica di note e pause non è la stessa. Considerando il numero di tactus (unità di misura del tempo e relativa figura di nota; nella musica rinascimentale, di solito, corrispondeva al battito medio del polso umano che era il punto di riferimento per stabilire il valore assoluto di durata di tutte le figure musicali della notazione) si ricavano quattro numeri dalle corrispondenti sezioni: 168, 112, 56, 84. Riducendo a i minimi termini questi numeri e affiancando a essi altre cifre – ricavate dai loro prodotti e dai divisori usati per semplificare i quattro numeri delle sezioni – si ottengono altre serie, tra cui compare il numero 7 che emerge anche dal testo (quello in latino cantato da motetus e triplum è composto da 4 strofe di 7 versi e ogni strofa possiede versi di 7 sillabe).
I numeri ottenuti rientrano nel panorama della metafisica medievale e umanistica che riteneva che la struttura del cosmo e dell’uomo fossero regolati da rapporti matematici. Il mottetto di Dufay non fa difetto a tale regola: l’esistenza di rapporti proporzionali tra le dimensioni delle sezioni e la presenza frequente di certi valori numerici nella struttura interna di Nuper rosarum flores rientrava nella consuetudine di ricreare l’ordine cosmico, anche all’interno di creazioni musicali, come in qualsiasi altra realizzazione umana. Inoltre, in Nuper rosarum flores sono presenti numeri con un significato simbolico, oltre ai riferimenti biblici al tempio di Salomone (le cifre 6, 4, 2 e 3 rimandano alle proporzioni secondo cui, stando all’antico testamento, era stato edificato il tempio) c’è anche un richiamo esplicito alla Vergine, attraverso il numero 7 che nel simbolismo medievale era a lei tradizionalmente collegato (sette dolori di Maria, sette gioie, sette opere di misericordia, sette anni di esilio trascorsi in Egitto, ecc.)
Se il mottetto Nuper rosarum flores di Dufay è un capolavoro sonoro che ha travalicato i secoli, la cupola di Brunelleschi non è certo da meno: è una realizzazione architettonica grandiosa che tuttora suscita ammirazione e stupore (ne parleremo in un prossimo post).
Testo e traduzione del mottetto
Nuper rosarum flores Ex dono pontificis Hieme licet horrida Tibi, virgo coelica, Pie et sancte deditum Grandis templum machinae Condecorarunt perpetim.
Hodie vicarius Jesu Christi et Petri Successor Eugenius Hoc idem amplissimum Sacris templum manibus Sanctisque liquoribus Consecrare dignatus est.
Igitur, alma parens Nati tui et filia Virgo decus virginum, Tuus te Florentiae Devotus orat populus, Ut qui mente et corpore Mundo quicquam exorarit
Oratione tua Cruciatus et meritis Tui secundum carnem Nati Domini sui Grata beneficia Veniamque reatum Accipere mereatur. Amen
Recentemente fiori di rose, come dono del pontefice, – nonostante il terribile inverno – hanno ornato questo tempio di eccezionale costruzione dedicato devotamente e solennemente a te, vergine del cielo.
Oggi il vicario di Gesù Cristo e il successore di Pietro, Eugenio, si è degnato di consacrare questo grandissimo tempio con le sue sante mani e con i sacri oli.
Ora, benevola madre e figlia di tuo figlio, vergine e decoro di tutte le vergini, il tuo devoto popolo di Firenze prega che chiunque abbia richiesto qualcosa con una mente e un corpo sani
sia degno di ottenere con la tua preghiera e per i meriti di tuo figlio nella sua sofferenza carnale i graditi doni del Signore e il perdono dei peccati. Amen
In copertina: Guillaume Dufay e Gilles Binchois (a destra). Miniatura tratta da Martin Le Franc, “Champion des dames” (Arras 1451), collezione BnF, ms. en 12476, foglio 98.
Cardarelli ha espresso nei suoi versi le emozioni create dal passare del tempo, dall’avvicendarsi delle stagioni, dal trascorrere dei giorni e delle ore. Due delle sue poesie più famose sono dedicate a Venezia, qui i versi che descrivono la città si fondono con le emozioni del poeta.
Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, 1° maggio 1887 – Roma, 18 giugno 1959), il cui vero nome era Nazareno Caldarelli, è stato un poeta, scrittore e giornalista italiano. A Corneto Tarquinia, Vincenzo trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Due periodi della sua vita particolarmente duri, segnati dall’assenza della madre, che lasciò la famiglia quando il poeta era ancora piccolo, dalla solitudine e da problemi di salute.
Cardarelli compì studi irregolari e per la maggior parte, come autodidatta. A diciassette anni scappò di casa e si recò a Roma, per mantenersi si dedicò ai più svariati mestieri, poi nel 1909, intraprese la carriera giornalistica, iniziando a collaborare con vari quotidiani e riviste. Nel 1916, diede alle stampe la sua prima raccolta di poesie, “Prologhi”. Da quel momento, l’attività giornalistica si intrecciò con quella poetica.
Vincenzo Cardarelli è famoso per le numerose raccolte poetiche, ma anche per le prose autobiografiche di costume e di viaggio: “Prologhi” (1916), “Viaggi nel tempo” (1920), “Favole e memorie” (1925), “Il sole a picco” (1929), “Il cielo sulle città” (1939), “Lettere non spedite” (1946), “Villa Tarantola” (1948). I suoi punti di riferimento letterari furono: Charles Baudelaire (1821-1867), Friedrich Nietzsche (1844-1900), Giacomo Leopardi (1798-1837), Blaise Pascal (1623-1662). Grazie a loro riuscì a dare forma alle proprie passioni incastonandole in una cornice razionale. La sua poesia era essenzialmente descrittiva, connessa ai ricordi: di paesaggi, di animali, di persone e di stati d’animo. Il poeta utilizzava un linguaggio discorsivo ma al contempo, passionale e profondo.
La vita di Cardarelli fu essenzialmente un’esistenza isolata; per similitudini poetiche, caratteriali e anche per problemi di salute (soffriva del morbo di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare) fu accostato a Leopardi. Morì a Roma, il 18 giugno 1959, e il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca, come da lui specificatamente richiesto nel testamento.
La sua opera poetica si colloca tra l’avanguardia del primo decennio del Novecento e la restaurazione classicista degli anni venti. Dello spirito avanguardistico restò sempre un’eco nella poesia di Cardarelli, anche quando formalmente se ne distaccò. Nelle poesie più vicine a quella corrente il poeta aderiva a particolari scelte espressive, come frammentismo ed espressionismo linguistico, e utilizzava argomenti, quali lo sradicamento, la perdita di identità, l’adolescenza, il viaggio. Il ritorno all’ordine, dopo le pulsioni avanguardiste, si verificò intorno agli anni Venti e fu la conseguenza di un’incertezza psicologica, causata dalla crisi della funzione sociale dell’intellettuale. Questo clima restaurativo fu accolto con entusiasmo da Cardarelli che reputò tale ritorno al passato e alla tradizione, come un’occasione per rilanciare l’identità del letterato e dell’intellettuale.
I versi di Cardarelli manifestano una grande chiarezza logica e limpidezza linguistica; lo stile è elegante e rigoroso. Il poeta nelle sue liriche ha sempre aspirato alla compostezza, a un tono colloquiale e a un atteggiamento distaccato, muovendosi sempre tra due poli contrastanti, quello dell’impulso trasgressivo e quello del desiderio di autocontrollo. Tra i due estremi, solitamente, prevaleva la moderazione che sfociava in un garbo formale.
Nelle poesie di Cardarelli, i temi ricorrenti sono il trascorrere delle stagioni, i ricordi dell’infanzia e dei paesaggi collegati a quel periodo. Il poeta esplorava allo stesso modo la vitalità estiva e il disfacimento malinconico dell’autunno. Per lui, il passare del tempo era l’emblema delle vicissitudini della vita.
Tra le due Guerre mondiali, Cardarelli visse tra Toscana, Lombardia e Veneto. Il Veneto sembra aver dato le ali alla sua ispirazione, specialmente la città di Venezia alla quale il poeta ha dedicato due tra le sue poesie più note.
La prima poesia sulla città veneta è: “Settembre a Venezia” che compare per la prima volta nella raccolta “Poesie”, del 1936. Il poeta raffigura la città lagunare durante un crepuscolo di settembre; gli ultimi raggi del sole fanno brillare gli ori dei mosaici di San Marco, mentre la luna sorge sulle Procuratie vecchie. Il componimento poetico è diviso in due parti. Nella prima, il poeta descrive gli effetti del tramonto sulla città; nella seconda, riflette sulle impressioni che susciterà in lui il ricordo, quando le immagini davanti ai suoi occhi si saranno sedimentate, diventando finalmente sue. I versi di questa lirica sono liberi, ci sono soltanto due casi di rima (vv.8 e 11; 20 e 22), mentre ci sono allitterazioni e rispondenze interne.
Settembre a Venezia
Già di settembre imbrunano a Venezia i crepuscoli precoci e di gramaglie vestono le pietre. Dardeggia il sole l’ultimo suo raggio sugli ori dei mosaici ed accende fuochi di paglia, effimera bellezza. E cheta, dietro le Procuratìe, sorge intanto la luna. Luci festive ed argentate ridono, van discorrendo trepide e lontane nell’aria fredda e bruna. Io le guardo ammaliato. Forse più tardi mi ricorderò di queste grandi sere che son leste a venire, e più belle, più vive le lor luci, che ora un po’ mi disperano (sempre da me così fuori e distanti!) torneranno a brillare nella mia fantasia. E sarà vera e calma felicità la mia.
L’altra poesia dedicata da Cardarelli alla città lagunare è: “Autunno veneziano”. Fu pubblicata nel 1942, nella raccolta “Poesie”. In questi versi, il poeta illustra un autunno fatto di morte e di disfacimento, privo di suoni e velato di una malinconia venefica.
Autunno veneziano
L’alito freddo e umido m’assale di Venezia autunnale, Adesso che l’estate, sudaticcia e sciroccosa, d’incanto se n’è andata, una rigida luna settembrina risplende, piena di funesti presagi, sulla città d’acque e di pietre che rivela il suo volto di medusa contagiosa e malefica. Morto è il silenzio dei canali fetidi, sotto la luna acquosa, in ciascuno dei quali par che dorma il cadavere d’Ofelia: tombe sparse di fiori marci e d’altre immondizie vegetali, dove passa sciacquando il fantasma del gondoliere. O notti veneziane, senza canto di galli, senza voci di fontane, tetre notti lagunari cui nessun tenero bisbiglio anima, case torve, gelose, a picco sui canali, dormenti senza respiro, io v’ho sul cuore adesso più che mai. Qui non i venti impetuosi e funebri del settembre montanino, non odor di vendemmia, non lavacri di piogge lacrimose, non fragore di foglie che cadono. Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore su un davanzale è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali non son che luci smarrite, luci che sognano la buona terra odorosa e fruttifera. Solo il naufragio invernale conviene a questa città che non vive, che non fiorisce, se non quale una nave in fondo al mare.
Venezia ha avuto un’eco nella vita e nella produzione poetica di Cardarelli. Mentre risiedeva nella città veneta, il poeta diede corpo al suo fascino, attraverso versi dotati di sensibilità ed eleganza. Le sue parole la raffigurano sospesa in un magico equilibrio tra decadenza e antichi splendori bizantini. Il punto di partenza di Cardarelli, anche nel caso delle due liriche dedicate a Venezia, è lo stesso che ricorre in tutta la sua poetica: una stagione, un ricordo, un’emozione.
Botticelli è riuscito con il suo dipinto “La Primavera” a mostrare tutta la bellezza che ogni anno rifiorisce nella stagione della rinascita.
Come tutti gli anni, la primavera climatologica inizia il 1° marzo, mentre quella astronomica è il 20 marzo, cioè il giorno in cui cade l’equinozio di primavera. L’arrivo della stagione della rinascita si coglie già: dai primi rami fioriti lungo le strade; dalle gemme in attesa del benefico calore del sole; dal cielo azzurro pieno di promesse.
La primavera si avverte anche nell’aria: nel canto degli uccelli, nel ronzio festante delle api. Ma qualcuno diversi secoli fa, ha immaginato alla perfezione questa stagione e le ha fornito le sembianze di una donna con indosso uno splendido abito fiorito che sparge fiori a terra, cogliendoli dal suo grembo. Stiamo parlando de “La Primavera” di Sandro Botticelli (1445 – 1510) che il pittore realizzò intorno al 1478. Dopo tanti secoli, questo dipinto continua a stupirci e a riempirci di meraviglia, non solo per la sua bellezza, ma anche per la grazia insita nelle pose e nelle figure racchiuse in un boschetto ombroso, e per l’aura di mistero che avvolge il dipinto, il cui significato più profondo è ancora in gran parte da svelare.
Il dipinto è una tempera grassa su tavola. Botticelli la realizzò per la villa medicea di Castello; attualmente, il quadro si trova nella Galleria degli Uffizi a Firenze. La Primavera è considerato il capolavoro di Botticelli ed è al contempo una delle opere più celebri del Rinascimento italiano. Il titolo fa riferimento a una nota del Vasari: “Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera”, dalla quale si è partiti per dipanare la complessa trama allegorica del quadro.
Botticelli realizzò questo dipinto per Lorenzo di Piefrancesco de’ Medici (1463-1503), cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico. In origine, “La Primavera” si trovava nel Palazzo di via Larga, poi fu trasferita nella Villa di Castello, dove Giorgio Vasari (1511 – 1574) la vide, nel 1550, accanto alla “Nascita di Venere”. Nel 1815, l’opera era collocata nel Guardaroba mediceo; nel 1853 passa alla Galleria dell’Accademia e infine, nel 1919, approda agli Uffizi.
Guardando il dipinto ci ritroviamo immersi in un bosco. Le fronde degli alberi si flettono a formare una sorta di semi cupola da cui spuntano arance e fiori che trapuntano il verde come fosse un tessuto prezioso. Sullo sfondo si individua un cielo di un lieve azzurro. I personaggi sono nove e campeggiano in questo spazio in perfetta armonia, circondando il fulcro del quadro: la donna che sfoggia sopra l’abito chiaro, un drappo rosso e verde.
Il prato verde su cui i personaggi si muovono mostra una profusione di specie vegetali e sono visibili moltissimi fiori perfettamente riconoscibili: nontiscordardimé, viole, iris, ranuncoli, papaveri, fiordalisi, margherite, gelsomini, e altri ancora. Botticelli sfoggia le sue conoscenze botaniche, probabilmente coadiuvate da un’attenta osservazione di piante e fiori dal vivo e al contempo di numerosi erbari medievali. Nel dipinto sono state individuate ben centotrentotto specie di piante diverse.
Per quanto della scena generale non sia ancora del tutto chiaro il significato, i personaggi e l’iconografia del dipinto sono stati invece identificati, seguendo in particolare i suggerimenti del Vasari. Ci troviamo in un boschetto di aranci che altro non è che il giardino delle Esperidi. Il dipinto si legge da destra verso sinistra, per cui abbiamo: Zefiro, il vento di nord ovest e di primavera, che attrae con il suo soffio e rapisce la ninfa Clori; la mette incinta e lei rinasce trasformata in Flora, la personificazione della primavera che qui appare come una donna con un magnifico abito fiorito, che dissemina fiori, trattenuti in una piega del suo vestito. Al centro della composizione c’è Venere che è l’emblema dell’amore più elevato. Sopra di lei c’è suo figlio, Cupido; alla sua sinistra sono ritratte le Grazie che si muovono leggiadre a passo di danza. Nell’estremità sinistra del quadro c’è Mercurio che armato di caduceo allontana le nubi.
Il quadro nasconde un complesso intreccio di significati. Non si tratta di una novità, bensì della logica tipica delle opere di questo periodo. La lettura de “La Primavera” può essere operata in base a vari punti di vista: mitologico, riferito ai personaggi presenti nel quadro; filosofico, la filosofia dell’accademia neoplatonica e altre dottrine; storico-dinastico che si allaccia ad eventi contemporanei al dipinto e mira a onorare il committente e la sua famiglia.
Come si è già accennato, i misteri de “La Primavera” non sono ancora stati svelati del tutto e ci si muove per ipotesi, più o meno probabili. Sembra che il dipinto sia l’allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e Semiramide Appiani; Botticelli realizzò il dipinto in due fasi, perché il dipinto all’inizio era destinato a un altro committente, Giuliano de’ Medici, e l’occasione non era una cerimonia nuziale, bensì la nascita di un figlio.
I personaggi, tenendo fede alle due committenze, raffigurerebbero:
Venere, Fioretta Gorini (nella prima versione), poi l’Amore Universale
Mercurio, Lorenzo di Pierfrancesco
Le tre Grazie, l’Amore humanus (la Grazia al centro aveva le sembianze di Semiramide Appiani), cioè spirituale e puro
Zefiro-Cloris-Flora, l’Amore Ferinus, cioè l’amore carnale I fiori, invece, sottintendono significati matrimoniali: margherite, fiordalisi e nontiscordardimé fanno riferimento alla donna amata; i fiori d’arancio e la borrana sono simbolo di felicità matrimoniale.
In base alla lettura storica, “La Primavera” è un’allegoria dell’età medicea, interpretata come età dell’oro sotto la guida di Lorenzo di Pierfrancesco, da cui consegue che: Flora è Florentia; le tre Grazie sono Pisa, Napoli e Genova; Mercurio è Milano; Venere è Venezia; Cupido è Roma; Borea è Bolzano.
Se leggiamo il dipinto dal punto di vista filosofico è l’amore il protagonista della scena, l’amore nei suoi diversi gradi, che spinge l’uomo a distaccarsi dal mondo terreno per rivolgersi a quello spirituale. Questa lettura è confortata dalla centralità della figura di Venere che in questo caso rappresenta l’amore spirituale.
La pandemia e il conseguente lockdown mi hanno lasciato una piacevole abitudine, seguire dei corsi online. Qualche mese fa, ho visto delle mini conferenze su “Feltrinelli Education”, la piattaforma digitale di servizi formativi.
Tra le tante esperienze e possibilità offerte, ho scelto di esplorare il “Breve corso sulla letteratura del ‘900” con Paolo Di Paolo, dedicato nello specifico a “Il grande romanzo del ‘900: Proust, Joyce, Woolf”. È stato un viaggio interessante ed emozionante al tempo stesso.
Sono rimasta particolarmente colpita dalla lezione dedicata a Proust e non poche riflessioni ho tratto dalla parte in cui si parla di un personaggio creato da Marcel Proust: Bergotte.
Bergotte è uno scrittore e appartiene alla schiera dei personaggi minori descritti e fatti agire da Proust nella sua À la recherche du temps perdu (“Alla ricerca del tempo perduto”). Nel V volume, intitolato “La prigioniera”, veniamo a sapere che Bergotte sta per morire, ma che non vuole andarsene da questo mondo senza aver rivisto, almeno per una volta, un quadro di Jan Vermeer (1632-1675; pittore olandese), la Veduta di Delft.
È davvero singolare questo desiderio del personaggio proustiano e ci spinge a chiederci: che cosa può contenere di così affascinante questo dipinto, tale da scatenare un desiderio così intenso? E al contempo, che cosa porteremmo via con noi, come ultima cosa da questo mondo, se fossimo al suo posto?
Bergotte ha fatto la sua scelta: porterà con sé un assaggio di bellezza, quell’assaggio è contenuto nel quadro di Vermeer. Non lo interessa l’intero dipinto, bensì un piccolo dettaglio che lo spinge a indugiare, ancora una volta, davanti alla Veduta di Delft.
Proust ci dice che Bergotte muore a causa di una crisi di uremia (stadio terminale dell’insufficienza renale), abbastanza leggera, ma lo scrittore aveva trascurato le prescrizioni del medico che gli aveva consigliato di riposare. Ma Bergotte non può riposare, perché ha letto una recensione di un critico sul quadro di Vermeer, che lui amava particolarmente, ed era convinto di conoscerlo a fondo.
Nella recensione c’è segnalato che “una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa”.
Così, Bergotte, mangia un po’ di patate, esce di casa e si dirige dritto filato alla mostra, dove è esposto il Vermeer. Già nel fare questi primi passi, si sente mancare. Entrato nelle sale della mostra, scorre rapidamente davanti agli altri dipinti, ricavandone un’impressione di inutilità e aridità; finché non giunge davanti al dipinto che è venuto a rivedere.
Ora, seguendo le indicazioni del critico, Bergotte nota altri particolari, nella Veduta di Delft, cui non aveva prestato attenzione in precedenza, e infine, si sofferma sulla “preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo”. Nonostante i suoi disturbi aumentino in modo preoccupante, lo scrittore è troppo preso dalla meravigliosa vista e insiste a fissare quel piccolo dettaglio, quel minuscolo barlume di giallo, come volesse afferrarlo e portarlo via con sé.
Quella minuta meraviglia dipinta, lo costringe anche a un parallelo con la sua scrittura e gli fa pronunciare: “È così che avrei dovuto scrivere […]. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo”.
Siamo alle ultime battute, Bergotte si rende conto, dall’aumentare dei suoi capogiri, che sta per morire e pensa che “in una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda”.
Pochi istanti dopo questi pensieri, Bergotte precipita su un divano e da qui finisce a terra. Morto. “Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione”.
Con queste parole, Proust mette un suggello: è l’arte a renderci immortali. Per cui, Bergotte è morto, ma è più vivo che mai, almeno finché ci saranno lettori che continueranno a stupirsi, leggendo di lui e del suo speciale legame con il dipinto di Vermeer.
Le citazioni sono tratte da Marcel Proust, La prigioniera, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, edizione integrale a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso, condotta sul testo critico stabilito da Jean-Yves Tadié, Newton Compton editori, Roma 2010
In copertina: Veduta di Delft di Jan Vermeer
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