Romanzo storico: genere romantico per eccellenza

Il romanzo storico, genere narrativo che si è diffuso in particolare nel secolo XIX, ha reso la storia un elemento di rilievo della narrazione.

Per romanzo storico si intende un’opera narrativa che si svolge nel passato. Per cui non solo la trama, ma anche gli usi e i costumi, i dialoghi e l’atmosfera generale ricalcano quelli dell’epoca scelta, così da consentire al lettore di calarsi in quel periodo.

È un genere tipicamente romantico e si è diffuso in particolare durante l’Ottocento, grazie a una serie di fattori, come ad esempio: l’affermazione del pensiero e del metodo scientifico che incentivò il rinnovamento degli studi storici; il consolidarsi nell’ambito filosofico dell’idea che le esistenze individuali siano condizionate dalla storia; i crescenti sentimenti nazionalisti che spingevano per un recupero sia delle grandezze passate dei popoli sia di figure esemplari da cui trarre ispirazione.

Un romanzo si può definire storico, quando l’autore del testo non era ancora in vita quando i fatti raccontati sono avvenuti o il libro è stato scritto almeno cinquanta anni dopo quello che è raccontato tra le sue pagine.
Si tratta di un genere in grado di abbracciare vari stili: ucronico (“ucronìa” deriva dal greco e significa “nessun tempo“. Il primo a utilizzare questo termine fu il filosofo francese Charles Renouvier (1815 – 1903) in un saggio, “Uchronie”, del 1857; identifica un genere di narrativa fantastica fondata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale); fanta-storico (il fantasy storico è un sottogenere del fantasy che, per alcuni aspetti, può essere avvicinato al romanzo storico); pseudo-storico (pseudostoria, ambito delle teorie o metodologie che pretendono di essere storiche ma che non rispettano regole e convenzioni del metodo storico. Le teorie pseudostoriche solitamente utilizzano come punto di partenza prove inedite, e/o controverse e/o non accettate dalla comunità scientifica/accademica); multitemporale (particolare versione del romanzo storico in cui si raccontano in parallelo o in successione accadimenti ambientati in epoche storiche diverse, ma collegate tra loro da un elemento: un oggetto, un legame di sangue o qualcosa di metafisico).

Chi si dedica alla scrittura del romanzo storico, un genere che si può definire ibrido, può fare riferimento alle vicende di personaggi realmente esistiti oppure può narrare eventi accaduti a personaggi di pura invenzione.

Le ambientazioni storiche non sono una prerogativa ottocentesca, infatti, già prima del XIX secolo, erano state adottate da William Shakespeare (1564 – 1616) in alcuni sui drammi e persino in Italia, nel Seicento, troviamo esempi simili.
Il XVIII secolo poi, ci ha regalato diversi grandi romanzi realistico sociali, purtroppo, gli autori di quel periodo avevano una certa difficoltà a rendere pienamente le ambientazioni passate. Oltretutto, nei generi che anticipano il romanticismo (in particolare il gotico e il picaresco) la storia non era un elemento essenziale della narrazione, piuttosto un elemento statico, uno scenario su cui proiettare l’azione e le gesta dei personaggi.
Nell’Ottocento, la situazione si ribalta: la storia diventa una vera e propria protagonista della narrazione e gli autori studiano e si documentano affinché i loro scritti risultino attendibili, il più possibile.

Tra i romanzi storici preromantici uno si distingue per aver posto il suo eroe in un quadro storico ben definito, sicuramente frutto di accurati studi su fonti e documenti storici. Si tratta di “Memorie di un cavaliere” (1720) di Daniel Defoe (1660 – 1731). Questo romanzo è una sorta di pietra miliare, in quanto ha dato il via in Inghilterra a un genere letterario nuovo e un secolo dopo, influenzò il lavoro di Walter Scott (1771 – 1832).

Giacomo Casanova: la vita rocambolesca di un seduttore II

Giacomo Casanova era un uomo colto e grande viaggiatore, in un’epoca, il Settecento, in cui la gente non viaggiava molto. Nella sua vita avventurosa finì varie volte in carcere e affrontò persino un duello.

Nel 1755, Giacomo Casanova fu arrestato a Venezia, i motivi del suo imprigionamento sono stati oggetto di varie discussioni.
La sua non fu di certo una vita irreprensibile e indubbiamente non lo si poteva definire un uomo dalle specchiate virtù. Anzi, proprio a causa della sua vita spregiudicata, era controllato dagli inquisitori, come dimostrano molti rapporti delle spie al servizio dei suoi accusatori. In questi documenti sono riferiti in maniera puntuale tutti i suoi comportamenti, specialmente quelli immorali e disdicevoli.
Le accuse che, in particolare, furono rivolte a Casanova, al tempo dell’imprigionamento ai Piombi, riguardavano il “libertinaggio”, attuato con donne sposate, il vilipendio della religione, i raggiri ai danni di alcuni nobili e un contegno pericoloso sia per il buon nome sia per la stabilità del regime aristocratico.

L’esistenza sregolata – anche se molto simile a quella che conducevano molti giovani eredi di grandi casate: giocava e barava, aveva idee non del tutto ortodosse in materia di religione e soprattutto faceva ogni cosa alla luce del sole – il fatto di essere un membro della Massoneria, la scandalosa relazione con una suora “M.M.”, di sicuro una nobile, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in Murano, non deponevano a suo favore e l’oligarchia veneziana non poteva accettare che un uomo di tale risma potesse restare in circolazione.
Ma Casanova aveva dalla sua amicizie di un certo peso nell’aristocrazia, amicizie che gli garantirono una condanna lieve durante la reclusione e forse gli furono di aiuto anche per l’evasione.

Quando fu arrestato, Giacomo Casanova non si perse d’animo e si organizzò per fuggire.
Il primo tentativo andò a vuoto a causa di uno spostamento di cella, ma il secondo, nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1756, andò a buon fine.
Per evadere passò dalla cella alle soffitte, sfruttando un’apertura procurata da un suo compagno di prigione, il frate Marino Balbi, da qui uscirono sul tetto e poi scesero all’interno del palazzo attraverso un abbaino. Insieme al complice varcarono diverse stanze, finché non li vide un passante che li scambiò per visitatori rimasti chiusi all’interno. Prontamente avvisato un addetto del palazzo, fu aperto loro il portone e i due fuggitivi, guadagnata l’uscita, si involarono rapidamente con una gondola.

La fuga condusse i due ex galeotti verso nord. Ripararono per un po’ a Bolzano, poi si rifugiarono a Monaco di Baviera, da qui, Giacomo Casanova proseguì da solo verso Augusta prima e poi Strasburgo.
Il 5 gennaio 1757, il nostro fuggitivo giunse a Parigi, dove trovò accoglienza e appoggio dal suo amico François-Joachim de Pierre de Bernis (1715-1794) che nel frattempo era diventato ministro.
Sistematosi a dovere, riprese le sue normali attività, facendosi notare in società e frequentando la crème de la crème della capitale.
Provvidenziale fu la conoscenza della marchesa d’Urfé, un’aristocratica ricchissima e stravagante. Con lei Casanova intrecciò una lunga e fruttuosa relazione: sperperò notevoli somme di denaro che la donna, conquistata dal suo fascino, gli elargiva.

Giacomo Casanova promosse anche una lotteria nazionale per rimettere in sesto le finanze dello Stato. Fu autorizzato ufficialmente e nominato “Ricevitore”. La sua idea fu così brillante che tuttora è ancora utilizzata.
Nello stesso periodo, fu coinvolto in un’intricata e incresciosa vicenda da cui riuscì a salvarsi grazie alla sua proverbiale prontezza.
Successivamente, abbandonò la lotteria e tentò di mettere in piedi un’attività imprenditoriale: una manifattura di tessuti che fu un totale fallimento, anche a causa della guerra in corso. Il fallimento e i debiti lo condussero di nuovo in carcere, ma la marchesa d’Urfé intervenne prontamente a soccorrerlo.

Successivamente, viaggiò per l’Europa, nei Paesi Bassi e poi in Svizzera, infine tornò in Italia, a Genova, poi a Firenze e infine, a Roma.
Nel 1762 è di nuovo a Parigi, dove tornò a praticare rituali magici insieme alla marchesa d’Urfé, almeno finché la donna non fu consapevole di essere stata ingannata e raggirata da Casanova, a quel punto, la donna interruppe ogni rapporto e Casanova si trasferì a Londra, poi andò a Berlino e nel 1764, giunse in Russia, a San Pietroburgo, mentre l’anno successivo lo troviamo a Mosca.

Dovunque andasse, Giacomo Casanova era accolto da membri altolocati dell’aristocrazia, da imperatori e personaggi storici di notevole rilevanza. Sorprende di questa straordinaria vita non solo la quantità e la varietà di avvenimenti, ma anche questa facilità di poter incontrare persone a dir poco inaccessibili, o comunque avvicinabili solo da pochi e centellinati visitatori.
È quasi certo fosse la fama che lo precedeva a spalancargli innanzi tutte queste porte e la curiosità che circondava la sua persona.

Inoltre, non guastava il fatto che, Casanova fosse un abile intrallazzatore: trovava agganci, si procurava lettere di presentazione e si muoveva con grande destrezza. Era anche largamente favorito dalla sua vasta cultura, dalla sua capacità di intessere conversazioni brillanti e si avvantaggiava del fascino del viaggiatore.

Nel 1766, un episodio spiacevole segnò il suo soggiorno in Polonia: il duello con il conte Branicki.
Durante un litigio, il conte offese Casanova che non si ritirò in buon ordine di fronte a quell’uomo potente e pericoloso, come avrebbe fatto chiunque altro. Giacomo Casanova che era anche un uomo coraggioso: sfidò a duello Branicki e nonostante fosse ferito, riuscì a lasciare la Polonia; il conte, ferito gravemente, riconobbe la correttezza del suo avversario e impedì ai suoi di fermarlo.

Casanova si spostò poi a Vienna e da qui a Parigi, da dove fu espulso a causa di un provvedimento voluto dai parenti della marchesa d’Urfé. Lasciata la capitale francese si diresse in Spagna, dove finì di nuovo in prigione. La tappa successiva fu la Provenza e dopo una brutta malattia riprese a viaggiare: Roma, Napoli, Bologna, Trieste. Intanto, sperava di ottenere la grazia da Venezia che finalmente arrivò il 3 settembre 1774.

Tornato a Venezia, Giacomo Casanova si riavvicinò alle sue vecchie frequentazioni e amicizie. Essendo in ristrettezze si dedicò alla scrittura, sfruttando la sua ampia rete di relazioni per assicurarsi sottoscrittori per le sue opere letterarie, trovando molti consensi.
Di questi anni è la relazione con Francesca Buschini, una ragazza semplice e incolta. Casanova rimase molto legato a questa donna, anche quando fu costretto ad allontanarsi da lei.

Negli anni a seguire, pubblicò altre opere, ma fu di nuovo vittima della sua indole passionale e impetuosa. Fece pubblicare un libello, per vendicarsi della famiglia Grimani che non aveva preso le sue parti in una discussione.
Nello scritto rivelò di essere il vero figlio di Michele Grimani e dichiarò che un altro Grimani era nato da una relazione adulterina. La nobiltà si schierò contro di lui e Giacomo Casanova fu costretto all’esilio. Lasciò Venezia per sempre, nel gennaio 1783 e si recò dapprima a Vienna. Gli ultimi anni li passò in Boemia, dove finì i suoi giorni.

Da lontano, ascoltò gli echi della Rivoluzione francese, ricevette le notizie della caduta della Repubblica di Venezia e vide crollare a poco a poco il suo mondo.
Unico conforto in tanta desolazione, oltre alla nutrita corrispondenza con i suoi amici veneziani, fu la stesura della “Histoire de ma vie”, l’opera autobiografica che impegnò le sue residue energie.
Casanova si dedicò alla scrittura di questo testo con foga e tenacia, per scongiurare che la morte sopravvenisse prima che avesse concluso il suo lavoro.

La sua opera letteraria ebbe un destino opposto a quello che l’autore avrebbe desiderato. I testi di ordine filosofico, storico e matematico non ebbero mai il riconoscimento letterario e scientifico che lo scrittore aveva agognato, mentre le opere autobiografiche ebbero grande successo, soprattutto l’Histoire, ma dopo la sua morte, qui Casanova si rivela un moderno scrittore di costume.

In copertina: particolare del dipinto di Jean-Honoré Fragonard “I fortunati casi dell’altalena”

“Stille Nacht”: la notte silenziosa cantata in tutto il mondo

Stille Nacht la notte silenziosa cantata in tutto il mondo

Stille Nacht o Silent Night o Astro del Ciel è considerata la canzone simbolo del Natale. Originaria dell’Austria è arrivata in tutto il mondo e quando le sue note risuonano nell’aria, cantate da un solista o da un coro, si sente nell’aria la festa. Si sente che è arrivato Natale.

Stille Nacht, heilige Nacht è uno fra i più famosi canti di Natale al mondo: conta traduzioni in più di 300 lingue e dialetti.
Per conoscere la sua storia bisogna risalire al 1816, quando Joseph Mohr (1792-1848), prete salisburghese, all’epoca assistente parrocchiale nella chiesa di Mariapfarr (Lungau, regione di Salisburgo), mise per iscritto le parole di questa commovente canzone, in attesa di trovare chi fosse in grado di musicarle.

Devono trascorrere due anni prima che si verifichi il felice incontro tra testo e musica. Il compositore che rivestì di note il testo di Mohr fu Franz Xaver Gruber (1787-1863), maestro elementare ad Arnsdorf e organista a Oberndorf, il quale compose di getto la musica per questa canzone.

Nel 1816, ancora priva di musica, Stille Nacht fu semplicemente recitata. Mohr aveva scritto quelle parole ispirate per dare conforto e un barlume di speranza alla popolazione, provata dalle recenti guerre napoleoniche e dalla miseria che ne era derivata.
Finalmente, nel 1818, il giorno della vigilia di Natale, i versi di Stille Nacht furono anche cantati.

Fu lo stesso Mohr a chiedere a Gruber di mettere in musica le sue parole, per due voci soliste, coro e chitarra. Ciò avvenne il 24 dicembre del 1818, la partitura fu stesa rapidamente e il paroliere la approvò immediatamente.
Sembra che la richiesta di questa composizione fosse avanzata al musicista in quanto l’organo della chiesa di San Nicola era guasto e impossibile da sistemare in breve tempo, questo fatto giustificava anche la scelta della chitarra come accompagnamento.

Quindi, la prima esecuzione pubblica in assoluto di Stille Nacht ebbe luogo la notte del 24 dicembre 1818, durante la Messa di Natale, nella chiesa di San Nicola a Oberndorf, presso Salisburgo.
La canzone natalizia fu suonata e cantata dai due autori: Mohr cantò la parte del tenore, mentre suonava la chitarra; Gruber eseguì la parte del basso.

Musica e testo furono raccolti da un fabbricante di organi della Zillertal (la maggiore tra le valli laterali della Inntal, nel Tirolo austriaco), Karl Mauracher (1789-1844), che li portò con sé in Tirolo, dove si diffusero rapidamente.
Tutti gli anni, dalla regione dello Zillertal, molte persone si spostavano per vendere nei paesi vicini i prodotti dell’artigianato locale e da quel momento, fecero viaggiare anche la musica e le parole di Stille Nacht.
In particolare, due famiglie, Strasser e Rainer, diffusero la melodia di Gruber in tutta Europa e poi, nel mondo.

Attualmente, è una delle più celebri canzoni natalizie: più di due miliardi persone la conoscono.
Nel 2018, anno cui ricorreva il bicentenario della nascita di Stille Nacht, in Austria sono stati programmati una serie di eventi: una mostra regionale che coinvolgeva 13 località (collegate ai luoghi dove presero vita i versi e dove fu scritta la musica, ma anche dove insegnò Gruber, dove morì e fu sepolto); l’inaugurazione di alcuni musei dedicati al canto; un musical, in lingua inglese composto da John Cardon Debney (1956; compositore e direttore d’orchestra statunitense).

La versione italiana di Stille Nacht è Astro del ciel, pur in una veste diversa, questa emozionante canzone non manca mai di risuonare durante le feste natalizie e di commuovere il pubblico, dovunque sia eseguita, nei luoghi di culto ma anche nelle sale concerto durante il periodo natalizio.
Il testo italiano non è una traduzione di quello tedesco, ma è originale, scritto dal prete bergamasco, Angelo Meli (1901-1970).

Testo originale in tedesco

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Alles schläft; einsam wacht
Nur das traute hochheilige Paar.
Holder Knab´ im lockigen Haar,
Schlafe in himmlischer Ruh!
Schlafe in himmlischer Ruh!

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Gottes Sohn! O wie lacht
Lieb´ aus deinem göttlichen Mund,
Da uns schlägt die rettende Stund´,
Jesus in deiner Geburt!
Jesus in deiner Geburt!

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Die der Welt Heil gebracht,
Aus des Himmels goldenen Höhn
Uns der Gnaden Fülle läßt seh´n
Jesum in Menschengestalt,
Jesum in Menschengestalt

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Wo sich heut’ alle Macht
Väterlicher Liebe ergoss

Und als Bruder huldvoll umschloss
Jesus die Völker der Welt,
Jesus die Völker der Welt.


Stille Nacht! Heilige Nacht!
Lange schon uns bedacht,
Als der Herr vom Grimme befreit,
In der Väter urgrauer Zeit
Aller Welt Schonung verhieß,
Aller Welt Schonung verhieß.

Stille Nacht! Heilige Nacht!
Hirten erst kundgemacht
Durch der Engel Alleluja.
Tönt es laut bei Ferne und Nah:
Jesus, der Retter ist da!
Jesus, der Retter ist da!


Auguri a tutti voi di cuore, che il Natale vi porti gioia e tanta serenità.
Buon ascolto!

Galleria Vittorio Emanuele II: breve storia del cuore pulsante di Milano

Galleria Vittorio Emanuele II: breve storia del cuore pulsante di Milano

La prima volta che ho visto la Galleria sono rimasta folgorata dalla sua bellezza.
Ci sono tornata più volte e l’incanto non è passato.
L’ho fotografata da molte angolazioni, cercando di strapparle quell’alone di fascino che emana; l’ho immortalata con ogni tempo atmosferico, azzerando le presenze al suo interno o cercando dei soggetti singolari di passaggio: coppiette, agenti in divisa.
Qualche settimana fa mi sono chiesta quale fosse la sua storia e ho fatto alcune interessanti scoperte…

La Galleria Vittorio Emanuele II, a Milano, è una galleria commerciale che unisce piazza Duomo a piazza della Scala.
Al suo interno ospita eleganti negozi e locali; sin dalla sua nascita costituì un ritrovo per la borghesia milanese e per questo fu soprannominata il “salotto di Milano”.
Lo stile della Galleria è neorinascimentale; è tra i più noti esempi di architettura del ferro europea; è il modello della galleria commerciale dell’Ottocento, un luogo all’avanguardia: uno dei primi esempi di centro commerciale ante litteram al mondo.

Nella città di Milano, i passaggi coperti con funzione di portici risalgono all’epoca medievale.
Nel Duecento, Bonvesin de la Riva (1250 ca. – 1313/1315, autore di origine lombarda, probabilmente milanese; ritenuto il padre della lingua lombarda) nel suo trattato “De magnalibus urbis Mediolani” (Meraviglie di Milano, del 1288; scritto in latino e concepito come una cronaca) registrava la presenza di circa sessanta porticati a Milano.
Il destino dei porticati subì una svolta con l’ascesa degli Sforza e successivamente, con la dominazione spagnola: furono progressivamente demoliti, ne sopravvissero pochi.

All’unità d’Italia, Milano giunse priva di quella tradizione di passaggi e porticati che ritroviamo in città come Torino e Bologna; all’epoca, la città poteva vantare solo la galleria De Cristoforis, un passage che rispondeva alle tendenze delle principali capitali europee, dotate di passaggi con copertura in ferro e vetro a scopo commerciale (galerie Vivienne, Parigi; Burlington Arcade, Londra).

Nel 1839, Carlo Cattaneo (1801-1869; patriota, filosofo, politico, politologo, linguista e scrittore italiano) fu uno degli animatori del dibattito che riguardava il rifacimento della zona prospiciente al Duomo. Maturò l’idea di una via che congiungesse la piazza del Duomo con quella della Scala.
All’epoca la piazza davanti al Duomo era piccola e irregolare, e ritenuta indegna della cattedrale della città. Inoltre, c’erano anche problemi di viabilità: il traffico cittadino, in netto aumento, non era più sostenibile, perlomeno mantenendo le strette strade di origine medievale.

Si decise di dedicare la via al re Vittorio Emanuele II per due motivi: l’entusiasmo per l’indipendenza dall’Austria; la speranza di ottenere più facilmente i permessi (si ottenevano con decreto reale) per le espropriazioni necessarie per realizzare l’opera.
La dedica al re è stata collocata sul frontone dell’arco d’ingresso e recita: “A Vittorio Emanuele II. I milanesi”.

I decreti regi per i permessi furono firmati tra il 1859 e il 1860: uno per l’esproprio dei palazzi da demolire; l’altro per la demolizione del coperto dei Figini e del Rebecchino, entrambi occupavano l’attuale piazza Duomo; l’ultimo servì ad autorizzare una lotteria, finalizzata a ottenere i fondi per la costruzione della via.

Il 3 aprile 1860, il Comune di Milano bandì il concorso per edificare la nuova via.
Il progetto iniziale prevedeva una semplice strada porticata e fu istituita una speciale commissione per vagliare i progetti.
Giunsero innumerevoli proposte, tra le quali ne furono scelte 176, esposte successivamente alla Pinacoteca di Brera.
In questa prima occasione, non fu nominato alcun vincitore, ma vennero fornite indicazioni più precise riguardo al progetto e stavolta, prese campo l’idea del passaggio coperto.

Fu indetto un secondo concorso, nel febbraio del 1861; furono valutati 18 progetti, ma anche stavolta, non fu eletto un vincitore.
Tra i progetti, quattro furono ritenuti più meritevoli quelli di: Davide Pirovano, il cui progetto era ispirato all’architettura palladiana; Paolo Urbani, per la scelta di un’architettura eterogenea che combinava forme lombarde e venete; Gaetano Martignoni, per unire le due piazze, aveva proposto una galleria a croce greca; Giuseppe Mengoni, le sue scelte architettoniche si ispiravano ai palazzi comunali del Trecento.

Non avendo ancora trovato il progetto idoneo, fu bandito un terzo concorso, nel 1863.
Stavolta furono considerati solo otto progetti: tre richiesti dalla stessa commissione; cinque presentati spontaneamente. Il vincitore fu Giuseppe Mengoni, al quale furono richieste delle modifiche ad alcune parti del suo progetto.
Mengoni aveva proposto una galleria unica, mentre il progetto finale sarà quello di una galleria a croce, con l’aggiunta di alcuni dettagli stilistici.

Il 7 marzo 1865, il re Vittorio Emanuele II posò la prima pietra della Galleria. La costruzione fu affidata alla società inglese City of Milan Improvements Company Limited.
I lavori, a parte la realizzazione dell’arco trionfale d’ingresso, furono ultimati in meno di tre anni.
Ci furono alcuni problemi, a causa del fallimento della società appaltatrice. Questo fatto allungò i tempi di completamento dei lavori che terminarono nel 1878, quando anche l’arco d’ingresso e i portici settentrionali di piazza Duomo furono terminati.
Mengoni non riuscì a vedere finita la grandiosa opera: morì cadendo da un’impalcatura durante un’ispezione.

Poco tempo dopo l’inaugurazione, la Galleria divenne il luogo di ritrovo preferito dalla borghesia che frequentava i nuovi negozi, i ristoranti e i caffè. Alcuni di questi esercizi commerciali hanno resistito al passare degli anni e sono tuttora in attività.
Sin dalla sua apertura, la Galleria fu dotata di tutte le ultime trovate tecnologiche, come l’illuminazione a gas.
Le lampade sull’ottagono erano accese da un congegno automatico chiamato “rattin” (“topolino” in milanese), una piccola locomotiva che accendeva progressivamente i lumi.

La Galleria non fu solo punto di ritrovo per la borghesia, ma anche centro vitale della politica milanese.
Gli avvenimenti politici di maggior rilievo che la videro protagonista furono: gli scontri tra operai e polizia il 1° maggio del 1890; i conflitti dei moti di Milano che videro il loro culmine con il cannoneggiamento sulla folla ordinato da Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924, generale italiano), nel 1898.

A causa della loro vicinanza, la Galleria e il teatro alla Scala furono da subito legati sia perché quest’ultima costituiva il punto di transito per recarsi a teatro sia perché qui si radunavano cantanti e musicisti che desideravano essere scritturati nei teatri della Lombardia.

A inizi Novecento, la Galleria si impose ulteriormente, diventando un luogo cruciale per la vita mondana e per la scena musicale milanese. Inoltre, fu al centro di tutti gli avvenimenti più importanti della città: eventi culturali, come gli incontri dei futuristi; scontri tra interventisti e neutralisti allo scoppio della I Guerra mondiale; manifestazioni dopo la guerra.
Durante la II Guerra mondiale, la Galleria subì i bombardamenti degli alleati, come il resto della città, e riportò diversi danni: fu distrutta la copertura di vetro, parte della copertura metallica e le decorazioni interne.

La Galleria fu oggetto di diversi restauri nel corso degli anni, gli ultimi, furono piuttosto approfonditi e risalgono al periodo tra marzo 2014 e aprile 2015. In vista dell’Expo, si attuarono tutti i lavori che erano stati trascurati in precedenza e tra i vari interventi c’è quello che ha riportato gli intonaci ai colori originari.

La Galleria ha incontrato il favore di artisti e intellettuali, ispirando rappresentazioni pittoriche e citazioni di vario genere da parte di letterati e scrittori.
Luigi Capuana ne “La Galleria Vittorio Emanuele” dice che “è il cuore della città. La gente vi s’affolla da tutte le parti, continuamente, secondo le circostanze e le ore della giornata, e si riversa dai suoi quattro sbocchi […] Tutte le pulsazioni della vita cittadina si ripercuotono qui”.

Non so voi, ma io mi trovo d’accordo con la conclusione di Mark Twain che nel suo diario di viaggio, “Vagabondo in Italia”, affermò: “Mi piacerebbe viverci per sempre”.

Storia della scrittura #17: spuntano nuovi caratteri tipografici

Storia della scrittura spuntano nuovi caratteri tipografici

La stampa consentì una vera proliferazione di libri in tutto il mondo e contribuì ad allargare l’uso e la conoscenza delle lingue scritte. Novità e tradizione andavano a braccetto: gli stampatori crearono nuovi caratteri, ma imitando le scritture a mano.

Il primo libro stampato con caratteri mobili metallici vide la luce in Cina nel 1390. Da qui, la prodigiosa invenzione della macchina a stampa passò in Europa, dove dal 1462, conobbe una rapida diffusione: da Lione a Norimberga, da Venezia ad Anversa, da Parigi a Praga.

Nel Cinquecento, iniziano a formarsi dinastie di stampatori; nel termine “stampatore” erano racchiuse diverse professionalità: fonditore, incisore e tipografo.

I caratteri ispirati alla scrittura a mano, iniziano a comparire in Italia durante il Rinascimento.
A Venezia, Aldo Manuzio (tra 1449 e 1452 – 1515, editore, grammatico e umanista) inventa la “lettera antiqua” nel tentativo di riprodurre in versione tipografica un’elegante calligrafia; questi caratteri saranno imitati da molti altri stampatori.
Per riprodurre la scrittura a mano, invece, Manuzio assunse come modello la calligrafia di Petrarca e ideò il suo “italico” – un corsivo inclinato.

Un altro interessante studio dei caratteri, costruiti seguendo delle regole precise, lo dobbiamo a Luca Pacioli (1445 ca. – 1517, religioso, matematico ed economista) che incise il “De divina proportione”, un manuale contenente le lettere dell’alfabeto, regolate sulle proporzioni del corpo umano e collocate all’interno di una cornice geometrica.

Intanto, in Francia, si affermano esperienze analoghe: Geoffroy Tory (1480 ca. – 1533, editore-libraio, calligrafo e disegnatore, “imprimeur du Roi” dal 1530) crea lo stile “champfleury” e diventa il decoratore di Simone de Colines (1480 – 1546, uno dei primi stampatori del Rinascimento; attivo a Parigi tra il 1520 ed il 1546) che per comporre utilizza un carattere derivato dalla “lettera antiqua” e successivamente, disegnerà e poi inciderà un carattere greco.

Nel 1540-41, i lavori di De Colines serviranno alla realizzazione del “greco del re”, che Claude Garamond (1480 – 1561, tipografo francese) inciderà, seguendo i modelli del calligrafo cretese Angelo Vergezio. I punzoni per la stampa furono commissionati da Francesco I di Francia (1494 – 1547, figlio di Carlo di Valois-Angoulême e di Luisa di Savoia, fu re di Francia dal 1515 fino alla morte).
Nel 1946, i punzoni insieme alle relative matrici furono classificati come monumenti storici e, attualmente, sono conservati presso l’Imprimerie Nationale (stamperia nazionale; stabilimento tipografico della Repubblica francese, con sede a Parigi).

Garamond realizzò anche dei caratteri romani, ispirati a quelli di Geoffroy Tory che sono considerati, secondo la formula del “champfleury” (trattato di estetica del 1529, importante per la storia della lingua francese e della riforma scrittoria rinascimentale di Geoffroy Tory), un alfabeto che possiede: “l’arte e la scienza della giusta e vera proporzione delle lettere”.

In copertina: Ritratto di Luca Pacioli (1495), attribuito a Jacopo de’ Barbari, museo nazionale di Capodimonte

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #14 malizie degli scrivani

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon malizie degli scrivani

Gli scrivani non erano dei semplici esecutori senza fantasia, tutt’altro. Il loro mestiere richiedeva una notevole creatività sia quando si trattava di copiare un testo sia quando si dovevano emendare gli errori.

Gli scrivani dovevano avere un’abilità camaleontica in fatto di scrittura. Essere in grado di destreggiarsi da uno stile a un altro, mantenendo una bella grafia a qualsiasi testo stessero lavorando.

Nonostante possedessero notevoli capacità, gli scrivani, anche i più dotati, potevano incorrere in errori. Per questo, le botteghe si premunivano, rivolgendosi a correttori che individuavano gli errori, li segnavano a margine e li corredavano delle correzioni necessarie.

Gli scrivani emendavano gli errori a seconda della gravità:

  • un errore semplice poteva essere risolto con una semplice grattatura della pergamena e poi con una riscrittura sopra la parte cancellata;
  • una parola mancante era inclusa a margine e un dito, opportunamente disegnato, indicava il punto del testo in cui andava posizionata;
  • righe intere o paragrafi mancanti richiedevano una certa malizia per essere integrati. Il testo omesso poteva essere collocato in fondo alla pagina e poi ci si affidava all’illustratore che poteva ad esempio, inserire un personaggio che simulava di risalire fino al punto richiesto.

Con il passare del tempo la formazione degli scrivani era sempre più minuziosa e rigida; alcuni di loro, grazie alla grande maestria che possedevano, riuscivano a produrre dei veri e propri capolavori.

Purtroppo, artigiani e artisti – e ahimè, ben poco è cambiato ai nostri tempi – non erano tenuti in alcuna considerazione sociale e guadagnavano così poco che quelli più abili si affidavano alla Chiesa: una volta entrati nel clero, potevano dedicarsi alla loro arte, liberi da qualsiasi preoccupazione materiale.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #13 boom di richieste

Lo sdoganamento della produzione dei libri dall’ambito ecclesiastico e le nuove tendenze dettate dai committenti borghesi portano a un boom di richieste e a un proliferare di nuovi argomenti per i libri.

Le botteghe degli scrivani che avevano iniziato a organizzarsi dalla fine del XII secolo, si trovano ad affrontare un numero di richieste sempre maggiore e la scelta degli argomenti si apre a molte new entry.

Trattati di: educazione, medicina, cucina e astronomia sono solo alcune delle commissioni cui gli scrivani devono far fronte.
Inoltre, iniziano a comparire i romanzi e molto gettonati sono i racconti d’amor cortese.
Per capirci, un best seller dell’epoca è La chanson de Roland.

I clienti potevano girare tra le tante botteghe e scegliere tra varie vesti grafiche e diversi stili di illustrazioni, per vedere realizzato il libro che desideravano.

I fruitori dei libri tra il XII e il XIII secolo subiscono un ulteriore ampliamento: si affiancano ai mercanti anche gli studenti.
Ovviamente, solo gli universitari più abbienti possono permettersi il lavoro di un professionista, tutti gli altri devono affittare i testi dove studiare.
In ogni caso, questa apertura a nuovi committenti, dovuta alla nascita di università laiche, è un’altra valida possibilità per i copisti di guadagnarsi la giornata.

La mole di lavoro sensibilmente aumentata comporta notevoli modifiche anche nell’organizzazione del lavoro stesso: gli artigiani si specializzano ulteriormente e si riuniscono in confraternite che conservano gelosamente i propri segreti e si battono per vedere tutelati i propri diritti.

Anche la formazione è rigorosa, proprio come avveniva in ambito religioso, gli apprendisti erano controllati e all’inizio, erano impiegati in mansioni semplici.

Per un addestramento completo occorrevano almeno sette anni e per ottenere la qualifica di scrivano bisognava produrre nell’ultimo anno di apprendistato un “capolavoro” che doveva essere valutato dal maestro artigiano e dai colleghi di lavoro.

Una volta diventati scrivani si poteva lavorare in modo indipendente, ma era necessario allontanarsi dalla bottega del maestro: niente concorrenza sleale.

Nel codice deontologico degli aspiranti scrivani c’erano anche alcuni eccessi da fuggire: il troppo vino e il troppo cibo, assidui rapporti con le donne e lavori pesanti.
Queste accortezze avrebbero aiutato i copisti a mantenere una mano sicura.

In copertina: Le otto fasi de La chanson de Roland in un unico quadro, illustrate da Simon Marmion

Regole di scrittura: in una storia, ogni elemento deve essere necessario

regole di scrittura

In una storia ogni elemento descritto ha una sua valenza. Una narrazione che funziona non introduce oggetti o situazioni inutili.

Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari” (A. Checov)

Checov aveva le idee chiare su come strutturare una storia.
Secondo il suo punto di vista, un oggetto che compare a un certo punto della narrazione viene introdotto perché ha uno scopo, una valenza precisa all’interno della storia che si sta raccontando.
In una narrazione accurata, quindi, non ci si sofferma su dettagli inutili o situazioni trascurabili.

Se un autore descrive un dato oggetto, vuol dire che esso avrà una valenza nella storia, a un certo punto, quella data cosa dovrà svolgere un compito, ad esempio, essere un elemento di svolta per il racconto e magari, cambierà completamente le sorti di un personaggio o più personaggi.

La stessa cosa avviene per le scene di un libro o di un film: se non producono un cambiamento nella vita del protagonista, se non servono all’economia della storia vanno eliminate.
In effetti, le storie sono più funzionali e sicuramente più efficaci senza fronzoli, ma strutturate solo con gli elementi necessari al dipanarsi delle varie situazioni e della vicenda in generale.

I gialli sono un genere dove tale tipo di regola è ancora più pressante: se in un libro viene descritto un dato oggetto o in un film l’inquadratura indugia su un particolare, il pubblico sa che a un certo punto della narrazione spunterà fuori di nuovo, così lettori o spettatori lo terranno a mente e magari, più avanti scopriranno che era l’elemento chiave che avrebbe condotto alla soluzione del caso.

Punto di vista: anticamera della creatività

mani attorno agli occhi
Più leggo cose interessanti e mi imbatto in personaggi curiosi, più mi rendo conto che il punto di vista è fondamentale per creare una storia che funzioni.

Il punto di vista permette di dare omogeneità a una storia, consente di creare un microcosmo di persone e situazioni che si muovono come gli ingranaggi di un orologio: ognuno apportando il suo contributo unico e irripetibile affinché il meccanismo in toto possa svolgere il compito per cui è stato creato.

Personaggi relazionati tra loro si compensano dando vita a un equilibrio e spesso mettendo in moto la storia stessa.

Il lettore, immedesimandosi in uno di questi personaggi o nel narratore stesso, non fa che entrare in questo meccanismo che per funzionare necessita di un fruitore che valuterà gli eventi con gli occhi di chi ha scelto come suo interprete.

Il punto di vista è anche il punto di partenza.
Chi racconta la storia? C’è un narratore o è uno dei personaggi che si fa carico di metterci al corrente di quanto è accaduto?

La creatività può essere stimolata e introdotta da un punto di vista singolare.

Il punto di vista aiuta chi scrive, grazie a esso si può dare una certa struttura alla storia e ai personaggi e si imposta il tono di voce da assumere.
Il lettore verrà guidato e influenzato a seconda di chi racconta: una storia sarà molto diversa se a narrarla è un gatto o un oggetto inanimato oppure un uomo folle, cieco o sordo.

Il punto di vista scompone una storia come un prisma un raggio di luce: colori diversi a seconda di chi interpreta cosa.

Storia della scrittura: dai geroglifici agli emoticon #7 Il “mistero etrusco”

etruschiAlfabeto simile a quello greco, L’alfabeto etrusco si componeva inizialmente di 26 lettere, ridotte poi a 21-20 lettere.

La scrittura etrusca ha di regola un andamento da destra a sinistra ed è documentata sin dal VII secolo d.C., grazie a brevi iscrizioni sepolcrali e ad alcuni testi più lunghi, come quelli scritti sulla benda che avvolge una mummia del museo di Zagabria, sulla cosiddetta “tegola di Capua”, sulle lamine d’oro rinvenute nel 1964 a Pyrgi.

Il liber linteus di Zagabria, come viene chiamato perché era in origine un libro scritto su tessuto di lino che si leggeva srotolando, fu tagliato in bende e posto a copertura di una mummia egiziana. Portato a Zagabria, dove è tuttora conservato il testo, è stato ricostruito accostando le bende. In sostanza, questo documento è un calendario che indica in quali giorni compiere le offerte religiose per onorare le divinità.

La tegola di Capua risale al V o IV secolo a.C. ed è un testo di carattere religioso, una specie di formulario per i riti funebri.

Le lamine di Pyrgi sono tre documenti incisi su lamine d’oro, rinvenute a Pyrgi (oggi Santa Severa, in provincia di Roma), sono di notevole interesse storico-linguistico per l’archeologia etrusca e sono conservate a Roma, presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

I tentativi d’interpretazione della scrittura etrusca si sono basati su vari metodi.
La grande maggioranza dei testi epigrafici è traducibile, si conoscono vocaboli riferiti alle divinità e al culto: ais (dio); thaur(a) (tomba), phersu (maschera); tin (giorno); zichuch (scrivere), ma il lessico che ne deriva è ridotto a pochi elementi grammaticali sicuri, quindi, i testi più lunghi restano per buona parte oscuri.

Gli Etruschi non usarono un sistema di scrittura uniforme in tutto il territorio da loro occupato: esistono piccole differenze a seconda dell’area geografica.
In origine le frasi venivano scritte senza soluzione di continuità: le parole erano poste una dopo l’altra, senza spazi a separarle, e le lettere erano di forma spigolosa e irregolare.

Dopo il VI secolo a.C., la scrittura si stabilizzò: i tratti erano più regolari, lettere arrotondate e, infine, comparvero dei punti o più raramente dei trattini per separare le parole. Questa sorta di punteggiatura rendeva il testo più semplice da leggere.

La civiltà etrusca ha visto nascere al suo fianco la città di Roma, e i romani hanno imparato molto dai loro vicini, ma dopo un periodo di convivenza pacifica, gli etruschi hanno dovuto arrendersi alla loro avanzata e a quella di altri popoli del nord e del sud Italia, che, gradualmente, li inglobarono sotto il loro dominio.

Tuttavia l’influenza della civiltà etrusca si fece sentire anche dopo la perdita dell’autonomia politica. La cultura, l’amore per il lusso e per le cose belle, i gusti raffinati e alcune pratiche religiose furono trasmesse ai romani, contribuendo al loro sviluppo. La lingua etrusca continuò a essere parlata fino al I secolo d.C. e il suo sistema di scrittura si diffuse in larga parte d’Italia, dando origine a vari alfabeti italici.